Beato è colui che parte. Intervista a Olga Tokarczuk

di Alessandro Mezzena Lona*

Quelli che governano il mondo non hanno potere sul movimento. Perché nella partenza, nel pellegrinaggio, nel cambiare orizzonte fisico e mentale in continuazione, sta la vera libertà. “Beato è colui che parte”, scrive Olga Tokarczuk nel suo splendido romanzo I vagabondi. E a chi legge questo libro, a chi si lascia avviluppare nella rete vasta di storie raccontate dalla scrittrice e psicologa polacca, può capitare di sentirsi portare via da un senso liquido di libertà. Da un galleggiare oltre gli steccati, al di là delle regole, superando perfino il sempre più subdolo e pressante controllo del web. Dei nuovi poteri elettronici, invisibili e terribilmente invasivi.

Laureata in Psicologia all’Università di Varsavia, terapeuta convertita alla letteratura grazie al pensiero di Carl Gustav Jung, e alla convinzione dello psicoanalista svizzero morto nel 1961 che lo sviluppo di ogni persona proceda su diversi livelli di realtà, Olga Tokarczuk ha debuttato da scrittrice nel 1989 con una raccolta di poesia intitolata Città allo specchio. Da allora, attorno a lei e ai suoi libri è andata crescendo l’attenzione dei critici e dei lettori. E l’entusiasmo per storie originalissime, visionarie e intrise di una forte spiritualità laica, come Il viaggio del libro-popolo, Nella quiete del tempo, Che Guevara e altri racconti, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti.

Proprio da quest’ultimo libro, la regista Agnieszka Holland ha tratto un film nel 2017, dal titolo Potok, che ha vinto il Premio Alfred Bauer. Ma il primo riconoscimento importante, per la scrittrice polacca di Sulechóv, è arrivato l’anno scorso. Quando i suoi Vagabondi, tradotti in italiano da Barbara Delfino per Bompiani (pagg. 384, euro 20), si sono aggiudicati l’International Man Booker Prize. E l’entusiasmo per questo romanzo non si è esaurito lì, se è vero che la giuria del Premio Gregor von Rezzori di Firenze ha inserito quest’anno il romanzo di Olga Tokarczuk nella cinquina dei finalisti.

Adesso, poi, il talento della scrittrice polacca ha trovato tra i giurati del Premio Nobel per la letteratura i più convinti e qualificati estimatori. Infatti, l’Accademia di Stoccolma le ha assegnato l’ambito riconoscimento per il 2018. L’anno stesso in cui il Man Booker Prize ha segnalato al mondo intero l’originalità e la forza letteraria dei suoi Vagabondi.

Solo il ministro della cultura della Polonia, Piotr Glinski, non ha saputo nascondere il suo risentimento e ha liquidato la vittoria del Nobel affermando che lui non è mai riuscito a finire un libro di Olga Tokarczuk. Ma che riproverà. Del resto, non è un segreto che la scrittrice è una convinta oppositrice del partito della destra radicale Diritto e Giustizia, attualmente alla guida del governo nel Paese affacciato sul Mar Baltico. Lei stessa, di recente, aveva confidato in un articolo scritto per il New York Times di essere “preoccupata per il nostro futuro immediato”.

Il fascino prorompente de I vagabondi è nascosto nella sua struttura narrativa apertissima. Attorno al concetto che “beato è colui che parte” e che “lo scopo di ogni pellegrinaggio è un altro pellegrinaggio”, Olga Tokarczuk costruisce una foresta intricatissima di storie che si intrecciano, si sovrappongono e si separano.

Nel libro, la scrittrice tesse una trama fitta di vicende come quella di Kunicki, che vede sparire all’improvviso moglie e figlio senza che ci sia una spiegazione logica a quel loro dissolversi nel nulla. Come quella dell’anatomista olandese che scopre nel corpo umano l’esistenza del tendine d’Achille, dal momento che usa il proprio corpo quasi fosse il più perfetto laboratorio di ricerca medica. Oppure ancora, tra le pagine, si può incontrare la figlia di Soliman, rapito in Nigeria quand’era bambino e portato alla corte d’Austria come fenomeno d’attrazione, che chiede di poter riavere il corpo del padre, imbalsamato e messo in mostra, per dargli dignitosa sepoltura. Secondo l’uso che dovrebbe spettare a ogni essere umano.

I vagabondi sono una scrigno infinito di storie dedicate a chi accoglie il silenzioso invito del nomadismo. E non si arrende alle catene che la vita stringe attorno a lui ogni giorno di più. Così, Olga Tokarczuk va a girovagare per i musei d’Europa per riscoprire le vicende strabilianti dell’Uomo di vetro e di tanti altri fenomeni bizzarri, strani, conservati in apposite collezioni. Reperti che dimostrano quanto il corpo umano sia, forse, il mistero più grande per noi stessi. Nel libro, la scrittrice di Sulechóv racconta di una tribù senza patria che si adatta a vivere nei villaggi che incontra, amalgamandosi a persone mai viste, studiando e provando a imitare i loro comportamenti.

Occasione imperdibile, il Premio von Rezzori di Firenze, che tiene viva la memoria dell’autore di Un ermellino a Cernopol e Memorie di un antisemita, per incontrare Olga Tokarczuk e dialogare con lei sui Vagabondi. Sul mobilissimo, entusiasmante percorso di scrittura che sta compiendo.

L’intervista

OT: Mi ha sempre affascinato il conflitto, la tensione che c’è tra movimento e stasi. Nel mio libro parlo di una setta di eretici russi convinti che il vero religioso sia costretto a muoversi in continuazione. Perché se mai si fermasse diventerebbe preda perfetta per il diavolo, che riuscirebbe così a intrappolarlo. Quello che io voglio dire con i miei ‘Vagabondi’ è che dobbiamo essere sempre in movimento non soltanto dal punto di vista fisico, ma anche mentale. È giusto aprirsi al cambiamento, provare sempre qualcosa di nuovo, di insolito. Il libro è una sorta di monografia del moto contrapposto alla staticità”.

ML: È il mondo stesso che ci ingabbia nella staticità?

OT: Tutto prova a intrappolarci. Penso ai codici a barre, quelli identificativi e fiscali, alle reti digitali del web e dei social network. Bisogna essere pronti a muoversi sempre. Non adagiarsi sulla staticità.

ML: Nei Vagabondi ci sono storie fuori dell’ordinario, collezioni assai bizzarre. Perché?

OT: Ho cercato di tratteggiare una serie di storie di persone dall’esistenza fluida, liquida, leggera, fuori dall’ordinario, e anche di uomini e donne del tutto diversi da loro. Che rappresentano la metafora oscura della Morte. In più, mi ha sempre affascinato molto il corpo umano, perché è il veicolo che ci permette di compiere il nostro viaggio nella vita. L’interesse per l’anatomia è storia abbastanza recente, se consideriamo che è iniziato appena nel XVII secolo. Quello che mi affascina e stupisce è che molti di noi sanno tutto di certi Paesi lontani, ma ignorano quasi completamente la conformazione interna del proprio corpo. Come sono fatti gli organi più importanti: il cuore, i polmoni. E allora, ho voluto raccontare queste collezioni, sparse nei musei d’Europa, costruite su bizzarri reperti: come l’Uomo di vetro, o certi stranissimi feti”.

ML: Laureata in Psicologia, si dichiara allieva di Carl Gustav Jung. Come mai?

OT: Raccomando di leggere Jung a chiunque voglia intraprendere la carriera di scrittore. Lo considero prima di tutto un pensatore. Un filosofo, oltre che uno psicologo. Un uomo che può aprire la mente. Il suo discorso sui vari livelli di realtà mi è stato molto utile, perché mi ha permesso di capire che possiamo interpretare tutto quello che accade attorno a noi senza metterci un limite”.

ML: Il suo è un romanzo-mondo, si può leggerlo anche partendo da una pagina a caso…

OT: È stato pensato proprio così. Volevo che fosse un amico di carta che ti può accompagnare durante il viaggio. Lo puoi aprire a caso, leggere una pagina e magari proseguire poi da lì. Anzi, quando non avevo ancora cominciato a scrivere ‘I vagabondi’, me lo immaginavo come un romanzo che qualcuno legge, ma solo in parte, in un aeroporto. Poi arriva qualcun altro, trova il libro, inizia il suo viaggio tra le pagine, e così avanti. Eppure, nonostante quello che sto dicendo, credo che sia necessario leggerlo per intero. Altrimenti si rischia di non cogliere il suo senso vero.

*L’intervista è tratta dal blog arcanestorie.it di Alessandro Mezzena Lona

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