Che cos’è la follia?

Il seguente articolo è la trascrizione dell’intervento tenuto da Stefano Tieri al “Naima jazz club” di Trieste lo scorso 10 giugno, in un evento organizzato da Lectio brevis. Il testo da cui si è partiti è stato La follia, in poche parole di Pier Aldo Rovatti. Prima dell’intervento sono stati distribuiti tra i presenti dei fogli bianchi, ed è stato chiesto loro di dire, in poche parole, cos’è la follia. I fogli sono stati poi raccolti e letti alla fine della serata. Data la loro quantità ne trascriveremo, alla fine dell’intervento, soltanto alcuni, dovendo a malincuore rinunciare a quelli illustrati.

Fotografia di Nicola Gronchi

La follia, in poche parole: un titolo onesto, se non altro perché il libro – nelle sue 82 pagine – mantiene la promessa. Partirò da questo testo per alcune considerazioni sulla follia che coinvolgeranno un altro autore, che del tema si è molto occupato, vale a dire Michel Foucault.

Quando si parla di un libro, o se ne scrive una recensione, in genere è ritenuto accettabile raccontarne l’inizio – mai la fine. Poi uno giustamente dice: “ma come! ci hai svelato come finisce! e ora chi ha più voglia di leggerlo?”. Se ora seguirò questo indirizzo, non sarà solo per invogliarvi la lettura: sarà per il fatto che, forse, è bene che della follia non se ne sveli la fine. Il che significa – da un lato – liquidarne il discorso, metterlo da parte una volta per tutte e – dall’altro – dirne il fondo, il fondamento.

Sarebbe bene (ora uso il condizionale) che della follia non se ne sveli la fine… e invece è proprio quel che è stato fatto (e tutt’oggi, mi pare, venga fatto): o la si liquida e non ce se ne occupa (ci si racconta essere un tema che non ci interessa, il che significa che non ci riguarda – e in tal modo noi riteniamo di metterci al sicuro, noi: i mentalmente “sani”); oppure si dice una volta per tutte cos’è: me ne occupo, quindi, trattando la follia come un oggetto, un oggetto del sapere “scientifico”, un qualcosa che si può (e si deve) conoscere nel profondo. Un processo di conoscenza che ha dei profondi effetti di potere e di soggettivazione sul folle.

Passo a leggervi subito l’inizio del libro:

762246Un paio di anni fa sono stato invitato a un corso di aggiornamento per operatori nei servizi di salute mentale a Trieste […]. Prima dell’incontro, per cominciare a interagire con il gruppo, ho fatto girare una domanda, secca e provocatoria: “che cos’è la follia?” Ciastuno era pregato di dare una risposta scritta, in poche parole […]. Una mi ha particolarmente impressionato. La trascrivo: “Non sono capace di dire così in poco tempo cos’è la follia. Mi vengono in mente solo due risposte. La prima è: non so. La seconda: follia è diversità oppure avere paura della diversità”.

Che déjà-vu, eh? Pier Aldo Rovatti non ci dice cos’è la follia: la prima risposta è “non so”; la seconda (“follia è diversità e paura della diversità”) moltiplica i significati della follia, fa in qualche modo esplodere la parola “follia”, mostra i confini labili e perciò incerti del concetto. Pensate a tutti i modi in cui utilizziamo nella nostra quotidianità questa parola: sui giornali ogni atto di violenza, omicidio o suicidio è, per antonomasia, un “atto folle” (come se volessimo esorcizzare la violenza ritenendola qualcosa che non riguarda la “salute mentale”); ma più in generale, ogni gesto minimamente sconsiderato è una follia (ieri sul quotidiano locale si parlava di una “folle movida di austriaci” a Lignano, vi leggo due righe della cronaca perché merita: “Bottiglie vuote, piatti e bicchieri di plastica, cannucce, lattine, tranci di pizza avanzati. E poi pezzi di angurie. Ovunque”); per noi qui a Trieste, poi, il “mato” non è solo il pazzo, ma è anche, generalmente, la persona (se prendiamo il dizionario triestino “Doria”, il secondo significato dato è “individuo”). E ancora: qualche giorno fa, a Roma, si è tenuto un gay pride; per protesta ha manifestato anche Forza Nuova, e lo slogan che ha scelto è stato “#omofollia” (follia omosessuale: follia in quanto diversità, quindi, una diversità da eliminare).

Quello che iniziamo a intuire è che la parola non riesce a racchiude l’oggetto del suo discorso, mostra le sue crepe – e non uso la parola “oggetto” a caso: il nome (il significante) ha sempre qualcosa che suggerisce l’essenzialità e l’oggettività del significato. Forse ora appare più chiaro il motivo del passo indietro di Rovatti (che non ci dice cos’è la follia) nei confronti di una Ragione che invece vuole definire l’oggetto del suo sapere. Ciò che Rovatti ci sta suggerendo qui è di evitare di ingabbiare in un concetto la vita e la forza dirompente (quindi perturbante e “scomoda” per la società) della follia, la sua molteplicità. Colei che ingabbia è la Ragione – che è appunto definizione, linguaggio: il termine “logos” per i Greci (il cui corrispondente latino è “ratio”, da cui la nostra “ragione”) era la totalità del dicibile, ovvero proprio ciò che noi intendiamo con la parola “linguaggio”.

Potremmo forse azzardare che, se esiste qualcosa come la follia, questo qualcosa deve avere un che di indicibile: poiché, se fosse detto, tradirebbe quel che vuole dire. Se il linguaggio è, per definizione, razionalità, mentre la follia è storicamente definita assenza di ragione, come orientarci all’interno di un discorso sulla follia che pretenda di costruirsi per mezzo di questo linguaggio razionale? Siamo nel mezzo di un paradosso (forse irrisolvibile, ma che non possiamo evitare di porci), da cui mi sottraggo con nonchalance per tornare a quell’avverbio pronunciato poco fa: “storicamente”. Per evitare sproloqui metafisici (il linguaggio è metafisica), può essere utile andare a vedere, nella storia, ciò che ha comportato – sui corpi dei pazzi – la definizione della follia, il suo svelarne la fine: la Ragione, nel definire la “verità” della follia, ha esercitato un potere. In questo percorso mi farò accompagnare da Michel Foucault.

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Cominciamo con Storia della follia nell’età classica, pubblicato dallo studioso francese nel 1961. Che cos’è il folle in mezzo agli uomini di ragione del XVIII secolo? Foucault prende in considerazione la definizione di follia che Voltaire dà nel suo Dizionario filosofico (1764): “‘Noi chiamiamo follia quella malattia degli organi del cervello che impedisce necessariamente a un uomo di pensare e di agire come gli altri’. Il folle è l’altro in rapporto agli altri”. Foucalt aggiungerà poi: “C’è percezione della follia solo in riferimento all’ordine della ragione”. Questo lo riscontriamo quando andiamo a vedere chi è stato effettivamente rinchiuso all’interno dei manicomi, nel corso di questa storia dimenticata (almeno fino alla pubblicazione del libro che vi sto leggendo). In quello che Foucault chiama il “grande internamento” (avvenuto in Francia a partire da inizio Seicento), ad essere rinchiusa insieme ai folli sarà ogni forma sociale che si scontrerà con la lucida razionalità dell’epoca: verranno apparentate con la follia la magia, l’alchimia, il suicidio, le pratiche profanatrici e certe forme di sessualità (l’omosessualità e la sodomia).

Nell’imposizione di una razionalità sulla follia, di una razionalità che si pone come la Verità stessa della follia, lo sguardo medico oggettifica (e, in questo processo, domina – annienta) la follia. Foucault dice di voler scrivere la storia di un “silenzio”, il silenzio a cui la Ragione (medica) ha ridotto la follia. “La costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del XVIII secolo, notifica la rottura del dialogo (tra follia e non-follia, nda), pone la separazione come già acquisita […]. Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della ragione sopra la follia, non ha potuto stabilirsi se non sopra tale silenzio”.

Metto ora da parte Storia della follia nell’età classica per prendere in considerazione Il potere psichiatrico, corso tenuto da Foucault al Collège de France nel 1973 e che per molti versi è una specie di “continuazione” dell’altro testo. Parlavamo di “monologo della ragione sopra la follia”: in che senso? Il folle è escluso dal dialogo riguardante quella verità che lui stesso è. Per capire meglio fornirò un esempio opposto, una scena di dialogo:

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“Il signor …, di anni trentasei, dal temperamento malinconico, ma estremamente determinato nello studio, e soggetto ad accessi di tristezza immotivata, passava talvolta intere notti sui suoi libri, e in quei momenti era estremamente sobrio, beveva solo acqua e si privava di ogni cibo di origine animale. Invano i suoi amici gli facevano presente che in quel modo danneggiava la sua salute, mentre la sua governante, richiamandolo con forza perché seguisse un regime diverso, per la sua insistenza fece nascere in lui la convinzione che costei volesse attentare alla sua vita. Arrivò persino a persuadersi che lei avesse architettato il piano di farlo morire mediante camicie avvelenate, all’influsso delle quali egli attribuiva già suoi presunti malesseri. Nulla riuscì a dissuaderlo da quest’idea sinistra. Alla fine si prese la decisione di fingere di assecondarlo. Una camicia sospetta venne così sottoposta a una serie di esperimenti chimici svolti in sua presenza con molte formalità, adattando il risultato allo scopo di confermare la verità dei suoi sospetti. La governante dovette allora subire un interrogatorio che, malgrado le sue proteste di innocenza, riuscì a farla apparire colpevole. Si ottenne poi contro di lei un presunto mandato d’arresto, che venne fatto eseguire in presenza del malato da presunti ufficiali giudiziari, che fecero finta di condurla in prigione. Dopo di che si tenne un consulto formale, nel corso del quale parecchi medici riuniti insistettero sulla necessità di prescrivere diversi antidoti che, somministrati per alcune settimane consecutive, persuasero alla fine il malato della propria guarigione. Gli vennero allora prescritti un regime e un modo di vita che lo hanno messo al riparo dal rischio di ogni malattia.”

“Successivamente – continua nella pagina seguente Foucault – sarà proprio questo gioco della verità nel delirio e del delirio a essere interamente soppresso nella pratica psichiatrica inauguratasi all’inizio del XIX secolo”. Con la psichiatria che si costituisce come scienza “forte” cessa il dialogo con la follia. La Ragione non asseconda più il gioco di verità della follia.

Ma cos’è il “potere psichiatrico”? Foucault ce ne dà una chiara definizione: “è quel supplemento di potere per mezzo del quale il reale è imposto alla follia in nome di una verità detenuta una volta per tutte da quel potere sotto il nome di scienza medica, di psichiatria”. Sottolineo le parole “una volta per tutte”: la verità della medicina non è più messa in gioco, né perciò può riguardare la singola soggettività con cui ha a che fare, di volta in volta, lo psichiatra. Ancora Foucault: “è come se il potere psichiatrico all’incirca dicesse: la questione della verità non verrà mai posta all’interno del rapporto tra me e la follia, per una ragione molto semplice, e cioè per il fatto che io, psichiatria, sono già una scienza. E […] se è vero che posso commettere degli errori, spetta in ogni caso tuttavia a me, e a me soltanto, in quanto scienza, decidere se ciò che dico è vero, oppure correggere l’eventuale errore commesso”. Lo sguardo della psichiatria non incontra quello del soggetto paziente; c’è dissolvenza del soggetto, poiché non viene più colto in quanto soggetto ma solo come oggetto di una disciplina scientifica data già e sempre per vera e, perciò, dal giudizio insindacabile. Una verità medica esterna al corpo dei malati, che però si inscrive in quegli stessi corpi.

Come? Ad esempio tramite lo strumento della scrittura. Scrive ancora Foucault:

La condizione necessaria affinché la disciplina possa esercitare costantemente questo controllo, questa presa in carico permanente e globale del corpo dell’individuo, credo sia il suo ricorso allo strumento della scrittura. Credo si possa dire che […] la disciplina, con la sua esigenza di visibilità integrale, con la sua costituzione di filiere genetiche, con quella sorta di continuum gerarchico che la caratterizza, comporta inevitabilmente il ricorso alla scrittura. Ciò avviene, in primo luogo, al fine di garantire l’annotazione e la registrazione di tutto ciò che accade, di tutto quel che l’individuo fa e di tutto quel che dice; in secondo luogo, al fine di trasmettere l’informazione dal basso verso l’alto, lungo l’intera scala gerarchica; in terzo luogo, infine, allo scopo di rendere in permanenza accessibile questa informazione, e assicurare in questo modo il principio della visibilità integrale, che credo sia la seconda caratteristica saliente della disciplina […]. In questo modo, si viene a creare un rapporto del tutto nuovo, diretto e continuo, a me pare, della scrittura con il corpo. La visibilità del corpo e la permanenza della scrittura procedono di pari passo, e hanno evidentemente come effetto ciò che potremmo chiamare l’individualizzazione schematica e centralizzata.

Parliamo di un potere che si esercita ancora una volta per mezzo della Parola. Non solo quindi bloccando in una definizione la follia (o, come oggi viene chiamata, “malattia mentale”), ma anche con la scritturazione dei corpi (e sui corpi) dei folli, gesto che implica una presa di verità su di essi. Dai loro corpi estraggo la verità medica (che si manifesta attraverso una sintomatologia, in un processo che riduce il malato ad un complesso di sintomi), e al tempo stesso sui loro corpi inscrivo – attraverso le così dette “terapie” – quella stessa verità medica, che trae legittimazione dallo status di disciplina scientifica.

Qualcuno forse davanti a questo discorso avrà storto il naso: come possiamo non definire qualcosa come la follia? In fondo è qualcosa… o no? Forse, ma è qualcosa, ed è quello che Foucault ci suggerisce, di profondamente storico, la cui percezione muta nel tempo, insieme all’ordine del discorso in cui è collocata. E nel nostro presente, cos’è la follia? Com’è percepita? Prendiamo i vostri biglietti.

“La follia è credere in una verità”

“Forse classifichiamo come folle un atteggiamento o un gesto che non comprendiamo ma non saprei in cosa consiste esattamente”

“La follia esiste solo nelle vostre menti bacate”

“La follia è un modo di chiamare ciò che si allontana dalla razionalità e per questo ci spaventa”

“Follia è rispondere senza porsi domande a quanto ci viene chiesto di fare dalla società”

“Follia è uscire, di molto, dalla norma. Aprire nuovi spazi, esplorare tempi e dimensioni e non saperne raccontare, comunicare, e non saper reggere questo silenzio”

“La follia è una profonda sofferenza – al di là di retoriche di poeti, artisti, alternativi di sinistra e similari, ED è una condizione umana”

In rapporto a quest’ultima risposta ho un’ultima cosa da aggiungere. Ho iniziato quest’incontro dicendovi: della follia, come dei libri, non bisogna dire la fine. Per quanto riguarda la follia manterrò la parola data, per il libro di Rovatti invece non posso farlo, poiché proprio nelle pagine finali entra in gioco la sofferenza. Anche qui, però, come possiamo parlarne? Come definirla? Forse dobbiamo semplicemente ricordarci che c’è, e non dimenticarlo mai. Facendo attenzione però a non limitare – come ci suggerisce Rovatti – l’esperienza della follia alla sola sofferenza. La follia è anche altro.

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