Come cani randagi

di Giuseppe Navaminefield-203740_1280

Venticinque anni fa, verso la fine di giugno del 1991, i parlamenti di Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla Repubblica Federale Jugoslava. Da quel momento, come è noto, gli eventi precipitarono in una guerra terribile, caotica nei fronti e negli schieramenti, sanguinosa in particolare per la popolazione civile. Con questa guerra, che si sarebbe conclusa solo nel 1995 con grandi difficoltà, si disgregava il primo dei “paesi non allineati”, e si apriva il post-guerra fredda (l’Unione Sovietica cessò di esistere nel dicembre 1991). Le complesse ragioni di questo conflitto sono state a lungo dibattute; a tale proposito una lettura interessante – anche se parziale, e scritta “a caldo” – è Maschere per un massacro di Paolo Rumiz, spettatore diretto degli eventi come giornalista. La dissoluzione jugoslava è stata anche un evento fortemente mediatizzato, così come aveva insegnato la prima guerra del Golfo terminata da pochi mesi. Ma mentre quest’ultima si era svolta in un teatro lontano e quasi irreale (qualcuno ricorderà i bombardamenti notturni su Baghdad trasmessi in tv: dei lampi verdognoli che illuminavano a tratti una scena altrimenti nera, in cui si riconoscevano a malapena i profili squadrati degli edifici), la guerra jugoslava si svolse vicino, molto vicino, e ricordò drammaticamente agli “spettatori” – con il cecchinaggio, le fosse comuni, gli stupri – che la guerra e la violenza colpiscono prima di tutto il corpo dell’uomo.

Si sa che di questi tempi si celebra l’anniversario di qualsiasi cosa, e spesso a sproposito. Ma se, come ebbe a scrivere Sciascia, “il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente”, allora forse non è peregrino richiamare alla memoria eventi che hanno segnato così profondamente luoghi e persone. E vogliamo farlo attraverso le parole di alcuni poeti che li hanno vissuti letteralmente sulla propria pelle.

Gli esiti sono disparati, da quelli più apertamente dolenti a quelli in apparenza più ‘leggeri’. Può stupire, per esempio, come Izet Sarajlić (che è stato uno dei poeti più importanti della Jugoslavia unita) rimanga fedele alla propria poesia semplice e amaramente ironica, pure scrivendo a Sarajevo durante un assedio che gli porterà via moglie e due sorelle; una simile beffarda amarezza si ritrova nell’impossibile tentativo di recuperare una quotidianità di Jozefina Dautbegović, profuga in Croazia durante la guerra. L’effetto del sorriso che accennano è dirompente, e sottolinea con forza la drammaticità dei momenti all’origine dei testi. Ricordandoci ancora che se la storia consegna al futuro i dati, le cronache, i fatti, al centro di quei fatti ci sono sempre esseri umani, persone disorientate e inquiete come i cani randagi della poesia di Sarajlić.

Questa selezione di testi non pretende affatto di essere esaustiva, in primis per la scarsità di autori di cui è disponibile una traduzione in italiano. Inoltre sono stati scelti testi esplicitamente collegati agli eventi bellici, con la consapevolezza che se da un lato questo ci restituisce una testimonianza genuinamente sofferta, dall’altro rischia di circoscrivere la varietà del singolo percorso poetico a quell’unico momento traumatico. Con queste avvertenze, dunque, e con la speranza di poter approfondire in futuro queste realtà così vicine a noi, non resta che augurarvi buona lettura.

Izet Sarajlić 

Dopo essere stato ferito

a Mika Maslić

Stanotte in sogno
mi è venuto Slobodan Marković
per chiedere perdono alle mie ferite.
È stata anche l’unica richiesta di perdono serba
in tutto questo tempo,

e anche questa solo nel sogno
e da un poeta morto.

1992

Cane randagio

a Lutvo Hodžić

(Dato l’enorme numero di cani randagi sul territorio della città, dalla circoscrizione Koševo 2 ci è stato notificato l’obbligo di denunciare l’avvistamento di ogni cane randagio alla Cancelleria della Circoscrizione)

Devo denunciare me stesso?

Non sono forse io un cane
e per di più randagio?

Non so nemmeno
in quale valigia
e nella cantina di chi
sono i miei documenti.

1992

A Vlado Dijak

Meno male, Vlado, che sei a Bare!

A Podlugovi e a Sarajevo
tutti i bar sono chiusi.

In Bosnia
trovare un bicchiere di grappa
è incomparabilmente più difficile
che trovare la morte.

1992

(da I. Sarajlić, Qualcuno ha suonato, traduzione e cura di S. Gudzević e R. Marzano, Multimedia Edizioni, Salerno 2001)

Abdulah Sidran

La preghiera di Sarajevo

Ti supplico gran Dio, per la tua divinità,
togli dal mondo gli Animali*!
Possa restare tutta intatta la specie dei gatti
la mia miseria possa restare,
però – togli gli Animali.

E non toccare la specie dei cani,
non toccare gli uccelli,
soltanto ti prego, Dio misericordioso –
togli gli Animali.

Togli gli Animali, dai declivi dei colli, toglili.
Togli gli Animali, ti scongiuro, Signore –
ma non toccarmi il maiale né il cinghiale,
non toccare l’usignolo, né il variopinto canterino di casa.

Non toccare nulla di ciò che è bello da guardare!
Non toccare nulla. Ma comunque togli gli Animali.

La formica non la toccare, e trascura il bestiame,
ma gli Animali – toglili.
Dove li hai collocati, di lì toglili.
Dai pendii, sovrastanti le città, toglili.
Dal mondo, dove li hai collocati, toglili.
Toglili, Signore,
e aiutali, Signore.
Nessuno, tranne te, li può aiutare.

Non c’è per loro posto o stanza in alcun luogo,
in questo e nell’altro mondo – casa né fondamenta.

Toglili, Signore
da questo e dall’altro mondo.
Allontanali,
e aiutali.

(a Pentecoste, giugno 1992)

*così la gente di Sarajevo chiamava quelli che dalla montagna bombardavano la città.

(da A. Sidran, Sarajevski Tabut / La bara di Sarajevo, traduzione di S. Ferrari, a cura di P. Del Giudice, Edizioni E, Trieste 1996)

Adriana Škunca

Le cantine di Vukovar

(85° giorno di totale accerchiamento)

I.

Nascosti nel buio
contiamo
miserabili giorni

Tutto è così fragile
sotto pesanti granate
proiettili sfolgoranti
missili infiammati

Dagli aerei ragnatela
piena di teschi neri

II.

È forte questa città
rovina che ci
rigenera
dalla densa tenebra
e dal fumo velenoso

Chiedi
se esistiamo
perché non si capisce

Tentiamo
di nominare le cause
sempre più simili
ad ombra senza tracce

Ci ammorbidisce l’umidità
il freddo penetra
come disfatto cadavere

[…]

(da Antologia della poesia croata contemporanea, a cura di M. Lipovac Gatti, Hefti, Milano 1999)

Delimir Rešicki

Che cosa mi ricordo

Ai miei genitori, Ivo, Tomislav,
mio fratello e Manuela

Non coprirmi le mani.

Non lasciarmi nulla di tuo,
nulla che non potrei lasciare sulla neve
e tornare poi a prendere
l’inverno successivo.

So da dove sono venuto
e non dovevo diventare cieco
per scoprire chi sono.

Ricordo sempre meno solo per
insegnare alla mia malattia
a vivere con me.

So almeno sette di dieci parole
a cui io stesso finisco per credere
quando decido di mentire a qualcuno.

Già cento volte te l’avevo detto
e già cento volte l’avevo visto:

ogni mattina
dal Campo profughi di Čepin
alle cinque del mattino
parte il pullman

pieno di angeli.

(da Antologia della poesia croata contemporanea, a cura di M. Lipovac Gatti, Hefti, Milano 1999)

Jozefina Dautbegović

Poesia profuga

Finalmente la parvenza della libertà
I proprietari dell’appartamento sono partiti per un fine settimana
di riposo
Pranzeremo da soli
Nel frigorifero si raffredda il cibo in scatola
con le istruzioni di preparazione
in una lingua a noi sconosciuta
La corda è libera
possiamo appenderci il bucato o…
La corda è comunque libera qualche volta
Possediamo le tessere gialle possiamo andare
in un’altra parte della città a Maksimir per esempio
e guardare come si nutrono
gli animali
Per cena abbiamo brutte notizie dalla patria
e latte in polvere
Forse sarà meglio di ieri
Ieri non abbiamo mangiato affatto
perché la polizia era venuta a controllare la nostra identità
e ci aveva severamente rimproverato
Non importa se siete croati
voi siete in un paese straniero
e non potete chiamare in continuazione la Questura
per la cittadinanza
Abbiamo la soluzione diciamo
pensando alla corda
Loro se ne vanno
Il latte in polvere è ammuffito
Non importa
fa bene qualche volta saltare la cena.

(Zagabria, 1993)

(dalla raccolta Pranzo con Ponzio del 1994, traduzione di G. Pugliese, apparsa su http://www.filidaquilone.it/num039puglieseroic.html)

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