Con-vivere

di Alessandro Gregoratto

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Da qualche anno si è iniziato a parlare anche in Italia di cohousing, una modalità residenziale (o forse sarebbe meglio dire uno stile di vita) nata e sviluppatasi in Nord-Europa verso la fine degli anni Sessanta.
Il cohousing consiste in un’esperienza di convivenza in cui persone singole, coppie o intere famiglie scelgono di coabitare in complessi residenziali composti da appartamenti privati e da ampi spazi destinati all’uso comune: sale riunioni, cucine, lavanderie, laboratori per il “fai da te”, spazi gioco, asili nido, palestre, biblioteche e altri servizi comunitari.

Altre caratteristiche del cohousing sono la progettazione e la gestione partecipata, ovvero la comunità di cohousers è coinvolta attivamente nello sviluppo e nella definizione del complesso immobiliare in cui si andrà a vivere: i condomini si impegnano cioè a decidere cooperativamente quali caratteristiche deve avere il complesso, quali spazi comuni allestire e, di conseguenza, quali obiettivi perseguire nel corso della propria convivenza.
L’idea di fondo di questa iniziativa è infatti quella di creare una comunità di abitanti che non viva semplicemente un normale rapporto di vicinato, ma che letteralmente con-viva al fine di trarre dalla cooperazione e dall’aiuto reciproco vantaggi pratici e una diversa esperienza del vivere in comunità.

Al neofita incuriosito da questo inusuale modello abitativo salta subito all’occhio la radicale differenza che il cohousing offre rispetto alla normale esperienza dell’acquisto di una casa: vivere in cohousing significa innanzitutto abbracciare uno stile di vita ben preciso, regolato da una serie di valori e obiettivi specifici, che sono (forse un po’ troppo) minuziosamente descritti nei siti specializzati che fungono da punto di aggregazione per le comunità di cohousers o aspiranti tali.

Il pur lontano miraggio dell’acquisto di una casa, in tal modo, non sarebbe più un semplice investimento, ma diverrebbe il biglietto d’ingresso per una struttura sociale alla quale dedicarsi con impegno, e alla quale sacrificare parte della propria indipendenza per godere dei vantaggi che la condivisione sociale può offrire. Inoltre gli stessi mutui potrebbero essere concessi più facilmente a “gruppi” di persone, o per lo meno si potrebbe lavorare politicamente in tal senso.

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Il cohousing nasce dalla convinzione che l’uomo sia più felice quando condivide tempo ed esperienze con gli altri, valorizzando in tal modo la condivisione e la socializzazione dell’esistenza individuale.

Una tale proposta appare oggi totalmente inattuale, soprattutto se paragonata con quelle che sono le odierne tendenze dell’edilizia, che ultimamente puntano sempre più decisamente sulla costruzione di abitazioni monolocali e dall’ottimo isolamento acustico.
Questi particolari, apparentemente tecnici, possono invece dirci qualcosa di importante su alcuni trend soggettivi della nostra società: ad esempio, è evidente che considerare una seccatura i rumori prodotti dal proprio vicino, quelli dei passanti sotto casa, ma pure quelli dei mezzi di trasporto che popolano le nostre strade, può essere considerato il sintomo di una certa insofferenza verso tutto ciò che sta al di fuori della nostra sfera privata, che sempre più percepiamo come minacciata ed insinuata dal mondo esterno.

Questa tendenza individualizzante, certamente non priva di cause e risvolti psicologici, si coniuga con la scomparsa dal mercato delle grandi abitazioni di una volta, dove vivevano sotto lo stesso tetto più famiglie allargate come piccole comunità (e non solo in campagna).
Non è possibile analizzare adesso le cause che hanno portato a questa situazione, ma è fuori discussione che nel mondo in cui viviamo è in atto una sempre maggiore chiusura in se stesso dell’individuo, che percepisce come valori positivi fattori quali privacy ed indipendenza (emotiva ed economica) dall’altro; in pratica ci si sente in diritto di vedere la propria sfera privata “non disturbata” dalla stessa presenza o vicinanza dell’altro. Certo, al contempo si può vivere in una comune e odiare tutti. Il punto è altrove, le modalità abitative sono solo un sintomo di processi sociologici molto più ampi.

Il cohousing è rimasto finora un fenomeno minoritario proprio perché rappresenta e propone un insieme di valori che viaggiano in senso radicalmente contrario rispetto al mondo in cui viviamo.

cohousing_piccolo Ma il punto è che il cohousing non può avere alcun seguito se si propone come pura scelta ideologica, o addirittura etica. Questa interessante tendenza abitativa “alternativa” resterà relegatà a trastullo pseudo-radical chic di una borghesia a corto di idee, se non farà il salto di qualità che consiste nel proporsi come un’effettiva possibilità di combattere i devastanti effetti della crisi, specialmente sui ceti medio-bassi, in maniera virtuosa.

Eppure non c’è dubbio che il progressivo auto-isolamento reciproco verso cui tendono gli abitanti dei paesi occidentali sia qualcosa di palpabile, e di certo non entusiasmante, qualcosa che a lungo termine potrebbe essere devastante per la tenuta stessa del nostro tessuto sociale (e dei nostri stessi rapporti umani). Tuttavia non sarà certo l’ideazione a tavolino di un idilliaco stile di vita comunitario ad invertire questa tendenza all’individualismo che è in atto ormai da decenni, se non da secoli. Per quanto sia auspicabile, non si raggiungeranno grandi numeri di cohousers semplicemente cercando di convincere le persone che convivere con l’altro sia uno stile di vita più sano e soddisfacente.

Un numero considerevole di persone potrebbe arrivare ad adottare questo modello abitativo solamente quando risulterà essere anche un’opzione praticabile da un punto di vista logistico, e vantaggiosa da un punto di vista economico. Solo vantaggiose condizioni materiali potrebbero condurci, inizialmente, a rinunciare a parte della nostra amata privacy, quella privacy che ad oggi considerano un valore da difendere, valorizzando invece gi aspetti positivi di quel vivere comune, che di certo non è e non sarà mai un idillio.

Perché i vicini sono sempre pronti a rompere le palle, i bambini fanno casino, gli anziani sono spesso un peso. Ma in fondo è anche e soprattutto in questi piccoli problemi quotidiani che ci si avvicina di più alle persone, e si sperimenta quello strano benessere, quella agrodolce capacità di sopportazione, che non si possono provare restando rinchiusi nella propria casa impenetrabile ad ogni sguardo e ad ogni rumore; una “casa” che sempre più diventa un duplicato grottesco di quello che desidereremmo essere. Cioè uno spazio protetto e interiore, sempre sgombro da ospiti inquietanti, e che per proteggersi (pur desiderando immensamente comunicare) rischia di ritrovarsi ad avere come unica finestra sul mondo solo una connessione ad internet.

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