“È un po’ più complicato”. Considerazioni di uno studente su DAD e criminalizzazione dei giovani

di Francesco Bercic

(illustrazione di Silvia Mengoni)

“Il governo stringe, gli italiani mollano?” titola Lilli Gruber a Otto e Mezzo nel novembre scorso (puntata del 09/11); la precede di qualche mese la straordinaria intuizione dell’ormai celebre dottor Galli: “I giovani non sanno cosa accade in Lombardia” (intervista a RaiNews24, 08/03); sempre l’infettivologo, stavolta nella famigerata estate: “Giovani irresponsabili” perché hanno “abbassato il livello di guardia sottovalutando il pericolo, ed ecco il risultato” (Giornale di Sicilia, 26/07).

Contemporaneamente, negli ultimi mesi, spinte dall’invidiabile carisma della ormai ex-Ministra Azzolina, si diffondevano brillanti riflessioni di tenore diverso, per non dire esattamente opposto: “Io attaccata ma sapevo che i risultati sarebbero arrivati” dice la ministra sempre a Otto e Mezzo, l’ormai lontanissimo 20 ottobre, con una visione profetica degna dei migliori testi biblici (puntata intitolata: “La rivincita della ministra più attaccata”). Pochi giorni dopo le scuole superiori sarebbero state chiuse, per riaprire, a mezzo regime, appena nel 2021 (in Friuli Venezia Giulia addirittura a febbraio). Si potrebbe perdere giorni a mettere in fila le affermazioni contraddittorie su giovani e pandemia che si sono registrate dall’inizio dell’emergenza.

Questa vera e propria scissione psicotica dello storytelling sui giovani in pandemia, oltre a interessarmi in prima persona, mi sembra utile anche per far emergere una domanda più ampia: che immagine si è fatto di se stesso il popolo italiano durante la pandemia? E restringendo il campo: come descriverebbe se stessa, sulla base di questi spunti, quell’originale e sfuggente parte del Paese che sono i cosiddetti “giovani”?

Un’indefinibile definizione

Da studente delle superiori non posso che sentirmi ripetutamente chiamato in causa dai titoli dei giornali. Tuttavia, non si può non notare che la categoria “giovani” non comprende un’età definita. Giovane è la parola vaga per definizione, che non circoscrive nulla di definito e che perciò permette di additare una parte di popolazione senz’altro ampia, che rimane però vaga, oscura. Nonostante l’età dei “giovani” non sia definita, a definirli, ma in un altro senso, ci hanno pensato ben presto proprio i giornali e i media.

Questa estate il giovane è stato l’amante dello spritz, o di quell’altra “bellissima” parola – movida. È stato dipinto come l’addicted della discoteca e della vita sfrenata. Da settembre in poi, invece, il giovane è diventato di colpo lo studente modello: che rimpiange la normalità scolastica, che vorrebbe ma non può… Fra queste due visioni, due autentici poli, si sono accavallate altre considerazioni – forse più intelligenti – che tuttavia non hanno avuto lo stesso peso mediatico. Tali estremi ricompaiono, in vesti diverse, anche oggi: lo studente che pensa al suo futuro e ha tanta voglia di studiare, è lo stesso di cui si pensa che abbia bisogno degli Alpini a vigilarlo perché stia a debita distanza dai suoi simili.

Se prendiamo per buona la narrazione mediatica, i giovani sono qualcosa che oscilla tra due estremi, entrambi totalmente irrealistici: la furia discotecara e il disperato desiderio di tornare alla disciplina scolastica. Ma può davvero essere questa un’idea giusta, che risponde minimamente alla complessità del reale che stiamo vivendo?

Dove si vuole arrivare?

Risposta secca: tornare alla normalità. Cioè anche allo spritz, così come alla scuola. Si vuole ottenere il massimo possibile da una situazione in cui il massimo non c’è più – e su questo siamo tutti d’accordo. Nessuno si trova bene rinchiuso in casa, in DAD, o con la mascherina perennemente sul viso. Le narrazioni mediatiche, dagli editoriali dei quotidiani ai talk politici, dovrebbero allora semplicemente “accontentarsi” di raccontare il presente per comprenderlo (e, magari, fornire delle idee per migliorarlo). Direte voi, molto semplice. Mica tanto. Quante volte si è invece accecati dall’ideologia, distolti dall’analisi critica dell’attualità, dal dibattito costruttivo e non preconfezionato in favore di discorsi di parte e con secondi o terzi fini?

Troppo spesso ciò che si ottiene è un agglomerato di informazioni quantitative e non qualitative, che riempie di elogi o insulti questa o quella posizione senza far fare nessun passo avanti a nessuno, senza criticare costruttivamente nulla di ciò che ci sta accadendo, mentre è proprio da questo che invece bisognerebbe partire, soprattutto in un momento come questo.

…e come arrivarci?

Come fare? Come criticare costruttivamente? Su cosa basare il dibattito? È più semplice, probabilmente, dire cosa non fare. Al proposito, posso limitarmi a dire che la maggior parte delle descrizioni degli ultimi mesi si allontanano sempre di più da noi “giovani”. Me ne accorgo parlandone in classe, ma anche da discussioni più leggere, dove il disorientamento ha lasciato il posto alla rinuncia, al senso di abbandono, alla sfiducia. Le astrazioni pseudo-filosofiche, della serie “la pandemia ci ha cambiati in meglio” o “ci ha lasciati uguali”, non solo non valgono a priori, ma spesso non fanno che aumentare quel triste senso di distanza e di incomunicabilità tra giovani e adulti. Purtroppo, la maggior parte delle volte, non fanno che acuire un già pesante senso di estraneità.

Filtra ormai, spesso non detta, una sensazione sempre più diffusa, quella che in fondo una risposta alla domanda “come la stanno vivendo i giovani questa pandemia?” non ci sia. E allora: non è forse meglio arrivare direttamente al punto, a quei pochi e indubitabili punti che vanno oltre le simpatie politiche o personali, per avvicinarsi a un barlume, a un osso, di verità?

Invece di perdere tempo in autoanalisi che lasciano a volte il tempo che trovano, ricordiamoci piuttosto a vicenda, appena ne abbiamo l’occasione, che esistono dei diritti – come l’istruzione – costituzionalmente garantiti. Raccontiamoci questo a vicenda, tra noi, che la scuola deve esserci per legge, che noi giovani ne siamo consapevoli o no. Sapendo questo, agiamo. Pretendiamo una struttura che funzioni davvero, non come la DAD, che non può essere nient’altro che una soluzione temporanea, emergenziale; ciò che doveva emergere è già emerso, non ci sono più scuse. Sappiamo da quasi un anno quali sono i mezzi con cui combattere la pandemia (tracciamento, adesso vaccini…), utilizziamoli in questa direzione, consapevoli di farlo per garantire questi diritti.

Raccontiamo, impostiamo su queste piccole verità pratiche la narrazione del nostro presente. Non diciamo: i giovani hanno voglia di scuola, perché nella maggioranza dei casi non è così. Si sta bene sul divano, con le medie in pagella lievitate esponenzialmente. Non diciamo: i giovani fanno questo, i giovani fanno quest’altro. Si provi piuttosto a dire di cosa avremmo bisogno, si provi a proporcelo e a confrontarsi con noi, se ne è capaci – si faccia gli adulti.

Scuola in presenza/assenza

Cosa aggiungere infine sulla ripartenza della scuola in presenza? Due sono i punti da chiarire: 1) Bisognava riaprire? Sì. 2) Bisognava riaprire adesso? Non lo so, e non penso neppure che esista una risposta “giusta”. Ma se dobbiamo parlarne seriamente, non possiamo non sottolineare, ancora, l’inadeguatezza del “risultato” ottenuto. Inadeguatezza dettata soprattutto da un’assenza di visone a lungo termine, dal fare le cose male e probabilmente nel momento sbagliato, di fermarsi alla vox populi e al consenso immediato. I problemi, per dire, non sono l’orario prolungato alle tre di pomeriggio o la mancanza degli autobus; certo, questi sono problemi. Ma da un’altra prospettiva sono solo sintomi di un sistema disorganizzato al di là di ogni colore politico o partitico; un sistema imploso e spaccato fra le sue infinite parti, incapace di dialogare e – forse proprio per questo – ancor meno capace produrre decisioni all’altezza. Un sistema che, dopo un anno di pandemia, non ha ancora un piano decente per garantire quel diritto costituzionale che è la scuola in presenza.

Infine, sull’eventualità di un prolungamento fino a luglio delle lezioni, vedo più limiti pratici che ideali. Mi spiego: idealmente, nelle zone più colpite della pandemia – ma soprattutto colpite dall’arretratezza tecnologica, dall’impossibilità di fornire a tutti gli strumenti necessari per la DAD – un reintegro delle lezioni sarebbe ragionevole. Ci sono però degli evidenti limiti pratici: come concordare questo con l’esame di maturità, ossia, come pretendere che gli insegnanti siano contemporaneamente in classe a spiegare e presenti agli esami orali? (Ma non basta spartire i prof.? No, non basta, perché non ce ne sono abbastanza, e non se ne troveranno certo adesso). Ancora: finire l’anno a giugno significa programmare quello successivo a luglio, significa che non c’è spazio per le ferie degli insegnanti; altro limite pratico.

Così si arriva all’ultima dicotomia: quella cioè dell’ideale/reale. Sono anche buone idee, lo è appunto quella di colmare un vuoto educativo durato mesi con lezioni extra, ma sono affrontate nel modo sbagliato, un modo che rende l’idea di quanto lontani siano dalla realtà coloro che queste idee le propongono.

In ogni caso, anche quest’idea sembra ora tramontata. Non lo è invece la problematica in sé: esistono migliaia di studenti che, di fatto, hanno perso mesi e mesi di lezioni a causa dell’arretratezza tecnologica e dell’incapacità dello Stato di sopperirne. Si rifletta anche su questo.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Ti potrebbe interessare