I bambini, la filosofia e il gioco del “fare finta di”

di Francesca Plesnizer

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Quando si parla di “Filosofia per bambini” non si può non pensare a Matthew Lipman, il docente della Columbia University che – resosi conto negli anni Sessanta della lacune logiche e delle incapacità di ragionamento dei suoi studenti – ideò un metodo educativo capace di sviluppare il ragionamento filosofico fin dalle scuole elementari: la Philosophy for Children, meglio conosciuta come P4C. L’obiettivo di Lipman era creare dei futuri adulti consapevoli, capaci di “porsi le domande giuste nel modo giusto” in tutta autonomia, abili nel problem solving ed educati a pensare. Lipman scelse così di dare fondamenta filosofiche al suo edificio pedagogico mettendo al centro non solo il domandare, il porre in questione, il dubitare, ma anche degli strumenti logici dei quali i suoi studenti erano, nella maggior parte dei casi, del tutto privi. Lipman pensava quindi, per così dire, “in prospettiva”: educare i bambini nel modo corretto per avere futuri adulti capaci di pensare ad un alto livello. Così facendo però, egli si lasciava forse parzialmente sfuggire quanto c’è di più interessante, e ancora inesplorato, all’interno del binomio bambini-filosofia: i bambini stessi. Infatti, forse, non dovrebbero essere i bambini ad adattarsi a strumenti e background filosofici, ma piuttosto dovrebbe essere la filosofia a modellarsi sulla loro maniera di essere e di pensare, uscendone arricchita e magari addirittura soddisfatta del suo essere riuscita a “lasciar essere” i bambini.

Per noi adulti la filosofia può essere tante cose diverse, come la ricerca di nuovi pensieri e orizzonti oppure lo studio di un pensatore specifico, che sentiamo affine a noi, e del quale condividiamo il punto di vista sul mondo. Ma che cosa può essere la filosofia per un bambino? La risposta che più mi piace è che la filosofia può essere un gioco. A un bambino, naturalmente, non interessano le speculazioni dei filosofi, non gli si può fare storia della filosofia, né tanto meno si possono squadernargli sotto il naso gli strumenti della logica modale, pretendendo di istruirlo sul loro uso. La mente del bambino ha infatti un che di “complicata semplicità”: è pregna di curiosità e rapidissima nelle associazioni. Alcuni bambini sono capaci di apprendere in fretta e senza sforzo le regole di un gioco, riuscendo addirittura a farne astrazione e rimodellarle.

L’intelligenza dei bambini, in questo senso, è ancora “incontaminata”, se è permesso usare questo termine forse per alcuni troppo romantico e pregno di reminiscenze pascoliane. Eppure, io qui lo utilizzo consapevolmente, per indicare un fatto preciso, cioè che nel bambino non è ancora avvenuta l’assimilazione delle speciali regole che presiedono alle forme accettate dill’interazione sociale (che sono diverse dalle regole della socialità in generale). Durante l’infanzia la mente dei bimbi possiede infatti ancora una buona dose di libertà, che permette loro di pensare soluzioni diverse e inusuali (inusuali per noi adulti, certo); di stupire e stupirsi con poco e addirittura di arrivare ad immaginare mondi diversi, dotatii di leggi fisiche e spazio-temporali inverosimili.

Questa facoltà, che potremmo definire immaginativa, è a mio avviso quella più importante, perché permette di giocare a un gioco del tutto speciale, il “fare finta che”. Penso che in questo senso la filosofia possa aiutare moltissimo: da sempre essa insegna a guardare dove di solito lo sguardo non indugia, guidandoci in territori inesplorati dove possono essere trovate soluzioni “altre”. In fondo, la filosofia è un gioco anche per noi adulti – seppur un gioco “da grandi”. Ecco perché quando, qualche mese fa, ho scoperto il metodo educativo “FilosofiaCoiBambini” (nato nel 2008 ad opera di Carlo Maria Cirino e Cecilia Giampaoli nella zona di Pesaro-Urbino) l’ho trovato subito interessante e originale. Ho deciso così di seguire il loro workshop tenutosi a Trieste all’inizio di settembre. Il metodo di Cirino e Giampaoli, pensato per bambini tra i 3 e i 10 anni, proviene da una corrente della P4C, dalla quale Cirino stesso aveva preso le mosse, scegliendo però poi di percorrere una strada diversa.

Il progetto di Cirino – fatto di laboratori che vengono proposti nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole elementari di tutta Italia – si fonda sull’idea che, nel mondo odierno, la qualità dell’immaginazione nei bambini si stia abbassando sempre più. I bambini di oggi sono spesso coinvolti in tante – troppe – attività extra scolastiche, hanno vite capillarmente organizzate, programmate e, come i loro genitori, tendono a non avere tempo: il tempo per giocare “facendo finta che”. L’attività immaginativa è tuttavia troppo importante perché la si perda per strada. Come sottolinea Cirino, la possediamo solo noi esseri umani, ed è centrale nella creazione e nello sviluppo della capacità di immedesimazione (che, se manca, renderà difficile al futuro adulto perfino comprendere appieno un romanzo, un film, o, cosa più grave, gli altri). Per Cirino infatti c’è differenza fra “immaginare” e “fantasticare”: la prima è un’attività che dà vita a simboli e immagini che saranno per il bambino necessari nel corso del suo sviluppo, mentre la seconda è attività fine a se stessa. Immaginando, il bimbo gioca con ciò che non possiede né conosce direttamente (pensiamo per esempio a quando, seduto sul suo letto, finge di trovarsi su un’astronave), mettendo insieme l’immaginario e il reale, il passato e il futuro, pensieri e ricordi felici ma anche tristi. Questi elementi sono le caratteristiche del gioco infantile, che pian piano rendono la piccola persona in grado di formulare giudizi, prendere decisioni, analizzare una situazione e così via.

I laboratori di “FilosofiaCoiBambini” sono dei giochi, dei momenti e degli spazi in cui non ci sono veri e propri insegnanti (almeno non come la scuola odierna li concepisce), ma solo un adulto – il filosofo coi bambini, che si pone come una “guida” – e i bambini, che in un’ora di tempo hanno la possibilità di esplorare, dialogare, conoscere meglio se stessi e gli altri, riflettere su ciò che hanno imparato a scuola o a casa, senza che ci sia la fretta tipica della giornata scolastica, senza che si debba per forza “arrivare da qualche parte”. Come in ogni gioco che si rispetti sono però presenti delle regole – semplici e basilari, che servono più che altro a facilitare e incanalare il transito delle idee e dei pensieri dei bambini.

Nel primo laboratorio (base di tutti gli altri che vengono in seguito proposti) si gioca per esempio con le parole, cercando tra di esse dei collegamenti. Le parole sono proposte dai piccoli, che in tal modo non solo scoprono autonomamente che “casa” si collega – fin troppo facilmente – con “tetto” o con “porta”, ma soprattutto azzardano presto collegamenti più “complessi”, come ad esempio “amico”. I bambini infatti associano spesso la paorla “amico” alla parola “casa”, e quando gli si chiede di motivare la loro scelta (regola imprescindibile di questo gioco: i collegamenti vanno motivati sempre e devono essere plausibili) spiegano che in casa vedono i loro amici, o che la casa stessa è per loro come un amico. Ecco come, con un semplice gioco, è possibile liberare la loro immaginazione e verbalizzazione. Possono addirittura dire “fungo” e trovare una spiegazione più che accettabile: la casa dei Puffi è infatti un fungo. Dopo le parole si passa (via via che i bambini crescono e sono “allenati”) a giocare prendendo in considerazione gli oggetti, cercando di scoprire tutte le loro proprietà; poi vengono gli eventi ed infine i concetti.

Se in tutte le scuole ci fosse ogni settimana un’ora di “FilosofiaCoiBambini”, sarebbe tanto di guadagnato: i bambini potrebbero imparare – con i loro tempi – a far respirare il loro cervello in modo diverso, approdare a lidi sconosciuti, magari sulle prime spaventosi, proprio poiché ignoti e non scontati (come il collegamento che intercorre fra le parole “casa” e “amico”), ma alla lunga certamente fruttuosi. Sarebbe loro permesso di spalancare finestre su un “altrove” che nella scuola, fatta di ritmi frenetici, verifiche, valutazioni e prove invalsi, non c’è il tempo di aprire. In uno spazio così strutturato verrebbe data rilevanza alle peculiarità e particolarità di ogni bambino, mettendo in primo piano la sua storia concreta e il suo pensiero, evitando di inserirlo e classificarlo in un’asettica statistica. Verrebbe educato a dare peso alla sua unicità, diversità, insostituibilità, lasciando che esplori e prenda le direzioni che sente di voler prendere, lasciandolo essere tutto ciò che è o che potrebbe diventare, incentivando in tal modo anche la sua capacità di rendersi pienamente responsabile delle proprie scelte. Anche l’adulto, infine, potrebbe – dalla sua indebolita posizione di “guida” – apprendere dal bambino quella spontanea e irriflessa capacità di passare, giocando, da un personaggio all’altro, senza fissarsi su nessuno in particolare e senza irrigidirsi in una delle tante monolitiche e rigide identità offerteci dal pensiero unico. Questo metodo potrà davvero contribuire un giorno a formare degli adulti che saranno stati dei bambini a cui è stato dato il tempo e lo spazio di immaginare e di esplorare in libertà; degli adulti che forse – anche se ormai cresciuti – saranno ancora capaci di “fare finta di” essere il bambino che non sono più.

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