Il divino Leopardi

di Eleonora Zeper

th“E gli uomini preferirono le tenebre alla luce” (Io. 3, 19)

Nella celebre epigrafe alla Ginestra, ultimo capolavoro del poeta di Recanati, si è soliti dar per scontato che a parlare sia l’illuminista Leopardi che oppone alle tenebre dell’ideologia del suo tempo la luce della propria filosofia dolorosa, ma vera. Dunque un uso funzionale da parte di un pensatore ateo che estrapola per i suoi fini questo versetto dal quarto vangelo; per lui, dunque, un testo come tanti altri. E se dietro a quest’insolita scelta ci fosse dell’altro? Sembra tanto assurdo supporre, per un uomo così grande come Leopardi, una comprensione più profonda del vangelo stesso? Una comprensione più profonda di cosa sia il coraggio del vero.

Per usare un linguaggio alchemico: Leopardi rimane alla fase della nigredo, impantanato nella disperazione più nera. La morte tanto invocata potrebbe averlo raggiunto prima che il suo percorso di uomo avesse trovato pieno compimento. Ricordo, però, che l’epigrafe ad un altro testo leopardiano riprende la nota massima del commediografo greco Menandro: “Muore giovane chi agli dei è caro”. Una rinascita inespressa sulla carta? Magari inespressa nel pensiero stesso? Una rinascita che passa attraverso alla morte, ma ci porta a vagheggiare su che cosa mai sarebbe successo se “il perfetto scrittore italiano” fosse vissuto venti o trent’anni di più? Trovo insensato servirci delle nostre logore etichette di ateo o di materialista quando parliamo di Leopardi; lascio parlare, invece, Nietzsche, che – ovviamente, aggiungerei – molto amava il grande poeta: “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità!”.

Questo è il senso tragico e meraviglioso – e non per niente l’unica parola davvero capace di esprimere insieme questi due concetti è il greco deinòs – delle illusioni di cui parla Leopardi. Questo il modo in cui Leopardi avrebbe voluto vivere, questo l’unico modo per essere davvero felici in questo mondo. Materialismo? Nietzsche parla di “Olimpo della parvenza” e non di rado lo stesso Leopardi usa nei suoi componimenti termini come divino e celeste. Celeste è la naturalezza, celesti sono i diletti della poesia, dono del ciel è l’amore, divini sono amore e morte. Se questa non è vivida sacralizzazione dell’immanenza! La parola ateo ci porta all’idea di un rifiuto di che cosa? Dobbiamo accordarci sui termini. Al rifiuto di un dio creatore e buono? Certo. Al rifiuto di qualsiasi istanza ordinatrice? In questo caso si. Al rifiuto di qualsiasi forza di natura superiore positiva o negativa che sia? No di certo. Non vedo che cosa possa esserci di più intimamente religioso delle poesie di Leopardi, ma anche qui, dobbiamo metterci ben d’accordo sui termini. Certo il melenso, ma onesto (secondo il Saba della prosa “Cosa resta dai fare ai poeti”) moralista Manzoni non lo è.

Il sentimento del sacro sprizza in quegli autori dove più è celebrata la vita nella sua meravigliosa molteplicità a partire dal primo testo religioso in senso canonico della letteratura italiana, il Cantico di frate sole, fino ad arrivare al commosso affresco cittadino della Cittavecchia di Saba, popolato da quelle sue famose e strazianti creature delle vita e del dolore. Dante e Leopardi come le due vette di questa catena. La voce della natura che dopo tanto tempo Leopardi ode nuovamente, e ne piange; il valore terribile e illuminante che conferisce il poeta all’amore “sola discolpa al fato”: è più religioso questo o la stomachevole Provvidenza manzoniana che tutto aggiusta per i peccatori pentiti? So che prendersela con Manzoni va di moda e che non è molto elegante sparare sulla croce rossa, ma in questo caso non può che esser il mio bersaglio. Lo scrittore religioso per eccellenza che del mysterium tremendum et fascinans del sacro nulla capisce e l’ateo e materialista Leopardi che lo afferra appieno con il suo temperamento tragico e caldo. Forse dovremmo rivedere un po’ i termini (e renderci conto che forse non sono termini, ma parole secondo la distinzione leopardiana) e le nostre rigide categorie.

La Ginestra è un capolavoro. Ogni riga vergata da quell’essere divino lo è. Castigato e prescelto da un dio crudele, condannato ed elevato dalla malattia, un animo sfavillante e caldo quant’altri mai rinchiuso in una prigione senza luce, in un “disadorno ammanto”.
Lo spiraglio di luce che entra nella misera cella del condannato la “social catena” non è semplicemente un riferimento di natura politica e solidaristica! Si tratta dell’evoluzione del pensiero di Leopardi come poeta d’amore, perché Leopardi – udite, udite – è il più grande poeta d’amore della letteratura italiana. L’amore è un darsi, un unirsi, un offrirsi gratuito, bello, necessario, unica possibilità di respiro, appunto “sola discolpa al fato”. E non si tratta di un eros esclusivo, del rapporto amoroso fra l’uomo e la donna, ma è un concetto più vicino a quello cristiano di agape. E anche qui mi scontro con la pochezza dei nostri rigidi schematismi e invito tutti quelli che sentano in sé quello stesso temperamento tragico che emerge dai versi del divino Giacomo a leggerlo, rileggerlo senza alcuna mediazione manualistica per comprendere appieno uno dei più grandi, uno dei più fraintesi.

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