Il fascismo non è causa di sé (Lettera a un progressista)

di Andrea Muni

(Articolo del 2018, rivisto e attualizzato il 6 ottobre 2022)

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È successo, può succedere ancora. Il fascismo è tornato. Il cancro ha infestato i linfonodi e si diffonde, attraverso il sangue mediatico, aggredendo tutti gli organi bersaglio del corpo sociale. Già… ma perché?

Mi è capitato questa primavera, grazie a una imprevista supplenza di storia e filosofia in un liceo, di compiere una full immersion obbligata nel periodo storico tra le due guerre. Ho dovuto spiegare ai ragazzi come e perché, tra gli anni Venti e Quaranta in tutta Europa – il franchismo in Spagna, Salazar in Portogallo, la nascita della Action Francaise in Francia, in Scandinavia, nei Balcani e persino nella “democraticissima” Inghilterra – sono nati dei movimenti fascisti. La dinamica macro-storica è nota: la miseria nera lasciata in tutta Europa dalla guerra, la crisi del ’29, la minaccia sovietica, le insostenibili spese di guerra (e le abnormi perdite territoriali) patite dalla Germania, la vittoria “mutilata” dell’Italia. Ma proviamo ad allargare un po’ le maglie di questo periodo storico.

Il fascismo nasce in Italia come inquietante e imprevista alternativa rispetto ai due orizzonti politici che precedevano la Grande guerra: il vecchio liberalismo autoritario-borghese e i nascenti movimenti socialisti. Le classi dirigenti che avevano portato il Paese alla guerra erano in crisi totale di credibilità, mentre dalla Russia soffiava il vento della rivoluzione. Il popolo, specialmente quello delle province, si trovava in una situazione complessa poiché, da un lato, non nutriva più alcuna fiducia nei confronti dei liberali borghesi che l’avevano mandato a morire in trincea per difendere interessi economici e coloniali, ma al contempo, dall’altro, temeva l’azzeramento culturale e identitario minacciato dalla rivoluzione bolscevica (tanto più che la Terza Internazionale è presieduta a Mosca da Lenin nel 1919 e rigetta – giustamente – ogni forma di gradualismo e riformismo). Così durante il “biennio rosso” (1919-1920) possiamo vedere un’Italia che inizia a spaccarsi: mentre da un lato un giovane Gramsci agita le fabbriche e gli operai nella città di Torino, dall’altro (soprattutto) nelle province nasce, e si propaga minacciosa, l’idea che fosse possibile una terza via. I Fasci da combattimento – fondati a Milano da Mussolini quello stesso anno – fanno il loro ingresso in scena (due anni dopo si tramuteranno, nel 1921, nel Partito Nazionale Fascista).

In un celebre documentario Alberto Moravia racconta di aver assistito, da ragazzo, alla Marcia su Roma. Ora siamo nel 1922, il 26 ottobre, Moravia racconta di decine di migliaia di fascisti che giungono nella capitale da ogni parte del Paese (a suo dire si tratta principalmente di piccoli-medi proprietari terrieri delle campagne e delle province, armati del proprio fucile da caccia). Da lì la storia è nota: il nostro ridicolo reuccio – rifiutandosi di riconoscere lo stato d’assedio richiesto dal Primo ministro Facta – concede a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo. Mussolini in questo momento, mentre assedia Roma, è un parlamentare del Blocco Nazionale, listone nazional-liberale voluto nientemeno che da Giolitti nel 1921 per arginare l’ascesa comunista e socialista. Le élites nazional-liberali dell’epoca, in accordo con il re, ritenevano infatti che Mussolini e il fascismo potessero essere sfruttati per riportare l’ordine in un paese in piena guerra civile. Entrambi infatti avevano un nemico comune: il socialismo. Ma come sappiamo Mussolini si rivelerà ben presto qualcosa di molto diverso da un burattino nelle loro mani.

Con questo non abbiamo però ancora provato a spiegare come il fascismo abbia potuto ottenere un così grande, e innegabile, consenso popolare. Per rispondere a questa domanda dobbiamo forse tornare alla sua archeologia, vale a dire alle tre anime, apparentemente incompossibili, che è stato acrobaticamente capace di fondere sotto un unico nome: quella anarco-sindacalista e anticlericale, quella agricola e piccolo borghese (provinciale, tradizionalista e cattolica), e quella della grande borghesia industriale bisognosa di ordine e pace sociale per prosperare. Il fascismo nasce, giunge al potere e ottiene un ampio consenso popolare (che sarebbe miope negare essere inizialmente davvero esistito) non solo con la violenza, ma anche grazie alla creazione di un fronte capace di tenere insieme queste tre anime, coalizzandole contro le istanze socialiste/rivoluzionarie da un lato, e dall’altro contro riformisti, “democratici” e liberali giolittiani (di cui – in pura teoria – erano ancora inizialmente alleati, con l’alleanza elettorale del Blocco Nazionale, appositamente creata da Giolitti quello stesso anno, nella disperata speranza di conservare il potere e profittare della scissione socialista del congresso di Livorno, dello stesso anno). Le cose non andranno così, Giolitti si suiciderà politicamente, aprendo per di più la strada a Mussolini. All’effimero governo Giolitti V del ’21, segue infatti quello altrettanto breve di Bonomi (riformista centrista, già espulso dal partito socialista nel 1912), finché nel 1922 la palla passa al “povero” Facta (I e II), di cui abbiamo già visto la rapida e triste parabola.

Una cosa che si dimentica spesso, e che troppo spesso a scuola non si insegna, è infatti che a partire dal 1917, in tutta Europa, socialisti rivoluzionari (in Italia divisi a loro volta dal ’21, dopo il congresso di Livorno, tra i PCI di Gramsci e Bordiga e il PSI di Serrati) e i cosiddetti socialisti democratici o riformisti sono tra loro ferocemente nemici, non meno di quanto non siano nemici i riformisti stessi e i fascisti (abbiamo appena visto che una parte di questi riformisti sostiene il governo Giolitti e quello di Bonomi, nella cui coalizione elettorale era stato eletto lo stesso Mussolini).

Qualcosa di molto simile accade anche in Germania (oltre che in Ungheria), dove il governo che reprime nella “settimana di sangue” la rivolta spartachista di Rosa Luxembourg e Andreas Liebknecht è guidato proprio da un socialista riformista. Non bisogna dimenticare che lo stesso Hitler – dopo gli iniziali tentativi di golpe – ebbe un’ascesa “democratica” favorita dai partiti nazional-liberal-centristi (certo in un atmosfera sociale di violenze irrespirabili e soprusi perpetrati metodicamente dalle SA di Röhm, corpi anarcoidi del primo nazismo di cui durante la famosa Notte dei lunghi coltelli Hitler sarà costretto dalle élite liberali, nazionaliste e pseudo-riformiste a liberarsi), mentre i socialisti riformisti si rifiutavano di appoggiare il partito comunista lasciando il Paese in mano a nazisiti e centro-nazionalisti.

Sarà solo a partire dalla metà degli anni Trenta – che possiamo con un’immagine figurarci nella sconfitta del Fronte popolare/Esercito Repubblicano nella Guerra civile spagnola – che i “riformisti” inizieranno a realizzare l’irreversibilità del loro tragico errore, o la loro tragica malafede (a seconda delle interpretazioni), ossia di aver letteralmente permesso, quando non favorito, l’esistenza del nazi-fascismo, per timore della rivoluzione proletaria.

Ogni riferimento all’oggi è puramente (non) casuale…

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Ma venendo all’oggi, cosa ci insegna questa storia? Cosa è cambiato a distanza di un secolo rispetto alla dinamica che ha visto nascere quel fascismo? La guerra è alle porte, la crisi economica pure. Il fatto che le élites professionali e intellettuali borghesi lo avvertano meno di altri strati della società non è una scusa. La grande differenza sta invece nel fatto che, in questa nuova montante dinamica fascista (che oggi in molti chiamano rosso-bruna), non esiste più alcuna minaccia sovietico-rivoluzionaria. La minaccia avvertita e propagandata dai nuovi “fascisti” è piuttosto quella della globalizzazione, degli Usa, dell’Ue: questi sono gli attori dei nuovi fenomeni omologanti e disidentificanti che hanno rimpiazzato il “terrore” rosso del bolscevismo.
La scomparsa dal continente delle istanze socialiste-rivoluzionarie ha infatti generato la possibilità logica, e storica, di un fascismo ancora più aggressivo e pericoloso di quello di cent’anni fa. Se infatti un tempo una parte del popolo (specialmente di quello “operaio” e delle grandi città) aveva a disposizione la scelta socialista (e poi comunista), ad oggi non esiste alcuna alternativa popolare al dilagante fascismo. Tutto questo perché, a sinistra, ormai da mezzo secolo, la partita è stata vinta da quel “riformismo” che, mutatis mutandis (la storia politica recente lo ha dimostrato), si è rivelato non essere altro che la “faccia pulita” di un altro “fascismo”: quello neoliberale, pseudo-progressista, guerrafondaio, finanziario e globalizzato.

Nel nuovo dilagante fascismo europeo possiamo ritrovare in effetti senza sforzo, anche se con i dovuti distinguo storici, tutte e tre le anime del primo: quella “provinciale”, tradizionalista e identitaria, che teme l’immigrazione e vota Lega e FdI, quella anarco-sindacalista dei disoccupati e dei 5 milioni in povertà assoluta (per tacere della povertà “relativa”), che specialmente al sud vota compattamente 5 Stelle (nonostante la virata riformista impressa al partito da Conte), e quella delle piccole e medie imprese nostrane (al posto di quella delle grandi industrie) oppresse da tasse oggettivamente esose, surclassate dalla concorrenza sleale delle multinazionali e alla mercé degli umori dalla grande finanza (ancora fedele al Berlusca).

Tutto questo per dire che il fascismo non è causa di se stesso. Il fascismo – quello nuovo – non è solo “colpa” del fascismo, ma anche di chi negli ultimi decenni ne ha ricreato, con la propria miopia a la propria incapacità di ascoltare la gente, le condizioni di possibilità storiche e politiche. Se oggi la borghesia professionale e intellettuale (e la sua discendenza) si indigna per la mostruosità e la disumanità dei provvedimenti che potrà prendere il nuovo governo, ebbene questa borghesia che osa ancora dirsi di “sinistra”, non può stupirsi se il “popolo”, cioè in sostanza tutti gli altri (operai, disoccupati, piccoli e medi imprenditori), le fa notare rabbiosamente la strana sproporzione tra la passione e l’insistenza con cui solidarizza giustamente con il dramma dei migranti, e la relativa indifferenza che prova per le condizioni disastrose di vita in cui si trovano sempre più italiani.

Il marxismo, il socialismo, sono nati perché delle persone sfruttate, che vivevano e lavoravano insieme, si sono compattate e organizzate per rivendicare diritti e giustizia sociale. Ma se oggi la maggior parte di coloro che ancora osano dirsi di sinistra preferisce dispiacersi per la tragica sorte dei migranti piuttosto che per quella del vicino di casa disoccupato o del fornaio indebitato (che diciamocelo, gli sta pure un po’ sul cazzo perché è ignorante e pure un po’ evasore perché spesso non ti fa lo scontrino), come possiamo stupirci se la gente torna a essere fascista? Se sotto una certa soglia di reddito, di istruzione o sotto un certo status sociale-lavorativo, nessuno si dichiara più “di sinistra”, questo dovrà pur voler dire qualcosa…

Un invito, allora, potrebbe essere rivolto a tutti i progressisti che davvero hanno a cuore le sorti del Paese: lasciate (o, meglio ancora, date) spazio alle molte altre iniziative esistenti che in questo momento oscurate con la vostra ingombrante presenza mediatica. Lasciate spazio alle organizzazioni sindacali di base (che stanno provando a ricostruire dal basso una coscienza di classe); a chi fa cultura in perdita (senza dover rendere conto a nessuno); a chi vive e lavora quotidianamente fianco a fianco non solo con i migranti, ma anche con quegli ignoranti “fascisti” e “provinciali” che disprezzate. Date voce a chi prova, nel suo piccolo, nonostante il vostro “prezioso” fuoco di fila mediatico, ad ascoltarli – questi ignoranti, “stupidi” e “malvagi”; a chi prova a ragionarci insieme, senza considerarli razzisticamente degli inferiori, essendogli davvero amico, parente, compagno di lavoro. Cari amici progressisti, col cuore in mano, ve lo chiedo umilmente, prendetevi – e dateci – una pausa. Il nuovo fascismo è appena cominciato, e quello che credete sia stato finora un modo di resistergli, in realtà, è parte integrante della dinamica storico-politica che lo ha rigenerato.

Perché, vero o falso che sia, è da voi che la gente si sente tradita. L’odio insensato, paranoico, mostruoso per i migranti – in qualche perversa maniera – non è che la maschera dell’odio che la gente prova nei vostri confronti. Perché la gente crede, vede, che non la amate, non la aiutate, che – nel silenzio della vostra coscienza – le preferite di gran lunga i migranti. Lo so, è un discorso assurdo, che personalmente non condivido affatto, ma è esattamente questo che “la gente” prova. Lo so che è durissimo da accettare, ma prima ci farete i conti e prima, forse, riuscirete a mettere in campo una nuova strategia comunicativa (ancor prima che politica).

Il fascismo nasce, e rinasce, quando la gente è incazzata, abbandonata, povera e sente minacciata la propria identità. Bisogna stare attenti a non farla incazzare, la “gente”, perché – in un modo o nell’altro, democrazia o no – superato un certo livello di incazzatura e di frustrazione la “gente” reagisce. E se non ha a disposizione una tradizione, forze politiche e modelli culturali davvero di sinistra e popolari per incanalare questa frustrazione, lo fa senza problemi guardando a destra. Lo fa perché non gliene frega niente dell’universalità e dell’umanità astratte che tanto stanno a cuore alla borghesia progressista; a quelli – non facciamo finta che non ce ne siano – che preferiscono solidarizzare pubblicamente con i drammi di un’umanità sofferente e lontana (i migranti), piuttosto che con quelli vicini, vicinissimi, del loro conoscente povero ignorante ed elettore della Lega o dei 5 Stelle. Con quell’“altro” che ha già speso tutta la propria riserva di umanità e solidarietà “concreta” per aiutare il proprio figlio che non riesce ad essere indipendente a causa della crisi e della criminale neoliberalizzazione del mercato del lavoro; quell’“altro” che, viceversa, è costretto a mantenere con il proprio lavoro precario la madre (o il padre) che sopravvivono con la pensione minima.

Non è facile essere umani, o accoglienti, quando non si ha per sé; è difficile essere ospitali quando ci si percepisce costretti a esserlo. È questo, cari amici progressisti (e vi dico amici senza la minima arroganza o ironia) che non riuscite a capire. Non lo capite semplicemente perché, essendo rimasti gli unici ad avere ancora abbastanza, vi immaginate che, come voi, tutti gli altri dovrebbero nutrire questi nobili (anche se troppo spesso solo “teorici”) sentimenti di accoglienza e “umanità”. Ma purtroppo le cose non stanno così, e far sentire in colpa chi già è incazzato, abbandonato e impoverito non è certamente il modo migliore per fargli cambiare idea. Se essere di sinistra significa senz’altro stare dalla parte degli ultimi, al contempo non può voler dire dimenticarsi dei penultimi – o peggio ancora dipingerli mediaticamente come dei malvagi ignoranti a cui contrapporre gli ultimi come gli unici veri “buoni”. Troppo spesso infatti, cari amici progressisti, dagli abissi del vostro amore per gli ultimi riluce oscuramente l’antipatia profonda, il rancore, che istintivamente provate per quei penultimi che non sanno cosa farsene delle vostre verità e della vostra umanità. E questo non aiuta né gli uni né gli altri,… né voi.

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