Il Maestro e Margherita al Rossetti. Missione impossibile: riuscita

di Andrea Muni

Rappresentare Il Maestro e Margherita a teatro è a mio avviso una missione semplicemente impossibile. L’incredibile fecondità immaginativa di Bulgakov, il suo caleidoscopio di colori, i repentini cambiamenti di luogo e di tempo rendono l’intero romanzo non soltanto “difficile” da inscenare a teatro, ma oserei dire letteralmente irrappresentabile. Il fatto che la regia di Baracco sia riuscita con originalità in questa impresa impossibile basterebbe, di per sé, a fare notizia. La scelta di calare il dramma in un’atmosfera scarna e surreale è stata vincente (oltre che obbligata). L’unico punto debole di questa scelta è stato forse quello di penalizzare un po’ chi non conosceva già la storia. I costumi, aderenti alla moda dell’epoca, svolgono un ruolo complementare a quello della scenografia, decisamente futurista e priva di qualsiasi riferimento alla Mosca magnificamente dipinta da Bulgakov nel romanzo. Il trucco di Woland (Michele Riondino) lo rende un po’ simile al fascinoso joker Heath Ledger del Batman di Nolan, mentre è stata forse un po’ meno azzeccata la scelta di far indossare a Giordano Agrusta (il bravissimo interprete di Behemot, il decadente – e parlante – gatto satanico al seguito del diavolo) una pur simpatica vestaglia color beige… Non si è mai visto un gatto satanico color beige.

La scenografia, dal sapore mistico e al contempo sub-urbano, è fissa. Gli attori entrano ed escono attraverso una mezza dozzina di porte laterali. La rappresentazione dell’acqua, nel quasi-annegamento di Ivan Bezdonminy, fatta semplicemente per mezzo di una corda ondeggiante, e la splendida trovata dell’altalena su cui Margherita a seno nudo vola posseduta sopra la città di Mosca a fianco della luna (rappresentata da una specie di lampadario messo in oscillazione al suo fianco), sono senz’altro due soluzioni riuscite che, per di più, hanno esaltato le doti (non solo mimiche) degli attori. Un’altra cosa affascinante sono stati i cambi d’abito degli attori (che interpretano tutti due o anche tre personaggi), in particolare è stato stupefacente, all’inizio, quello “sulla scena” dell’attore Oskar Winiarski, trasformato da Ivan Bezdominy nel profeta Jehoshua Hanozry in un batter d’occhio.

Credo che la compagnia abbia veramente fatto il massimo dal punto di vista della messa in scena dell’opera, la storia inoltre – dopo le difficoltà di annodare i mille fili iniziali – regge magnificamente senza cali di tensione, al punto tale che persino mia figlia di nove anni ha seguito le quasi tre ore di spettacolo con grande interesse.

Come dice la sceneggiatrice della piéce Letizia Russo, Il maestro e Margherita mette in scena, tra le altre cose, anche una domanda fondamentale intorno alla verità, mostrandoci come per l’essere umano essa non possa coincidere semplicemente con la “realtà” e con la sua banale scoperta/descrizione. Mi è un po’ dispiaciuto che, probabilmente per mancanza di tempo, siano state tagliate nel finale alcune delle scene che personalmente ricordo come le più delicate, poetiche e commoventi. Il finale della storia, almeno così l’ho sempre percepito, è infatti tragico ma al contempo paradossalmente gaio. Giocando coi temi del fantastico Bulgakov ci sta infatti dicendo che, anche se forse solo per finta, solo nella sua testa, l’al di là esiste davvero (così come il diavolo è davvero venuto a Mosca). La regia di Baracco, forse per mancanza di tempo, ci restituisce un finale molto più tragico, che lascia in bocca un sapore differente da quello del romanzo (molto più dolce, sognante, stordente). Il Maestro e Margherita infatti, nel finale di Baracco, dopo essersi suicidati, scompaiono dal palco in un tetro momento riscaldato appena dalle stupende note di Magneto di Nick Cave. Mentre l’ultima scena viene dedicata a uno splendido piccolo monologo di Riondino-Woland sull’umanità del diavolo, del male e del peccato opposti all’indifferenza e al disgusto che dio prova verso gli uomini, verso la loro follia, la loro tenerezza e il loro dolore.

La delicatezza delle immagini che ci restituiscono alla fine il Maestro e Margherita trasfigurati, finalmente felici nella loro casetta sulla luna, e la tenera nostalgia di Pilato che – con li suo cane – attende sotto la luna l’imminente ritorno e il perdono di Jehoshua, sono due scene – a mio modesto parare – imprescindibili di questo piccolo capolavoro della letteratura fantastica/grottesca. Anche se è una questione di gusti, mi è parso a volte che il dramma insistesse troppo su atmosfere cupe e/o goticheggianti, pur ben spezzate da momenti ironici, che hanno a tratti mancato (anche se non di molto) il vero e proprio “grottesco” di cui Bulgakov è stato maestro in questo romanzo. Il grottesco è infatti la capacità di fondere, mescolare, l’inquietante e il ridicolo, è riuscire a tenerli continuamente in tensione, e non banalmente di alternarli.

In ogni caso lo spettacolo, andato in scena dal 12 al 16 dicembre al Rossetti di Trieste, è senza dubbio uno splendido lavoro, che merita di essere visto sia dai “fan” di Bulgakov e de Il Maestro e Margherita, sia da coloro che non conoscono la storia.

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