Il mercato coperto della carne, i cavalli e il panetto di burro.

Di Francesca Plesnizer

Sono arrivata in città da pochi minuti e lo sto aspettando. Una fame mi si muove dentro: tutto è così grande che si smarrisce nei miei occhi, non c’è il tempo di catturare quest’anima di cemento. Non riesco a credere di essere qui, di esserci per davvero, dopo averlo sognato tanto. La città, dal vivo, è tutta un’altra cosa. Non sembra un altro mondo, anzi sembra casa: in modo bizzarro riesce a comunicare qualcosa di familiare. Alcuni palazzi sembrano quelli della mia città, certi negozi sono uguali a tanti altri visti nelle città europee. Eppure lo sento, sulla mia pelle e con l’olfatto lo avverto, che tutto è diverso, che sono di fronte a un inedito.
Ma mi sento al sicuro e i passanti che incrocio con lo sguardo mi sorridono amichevoli. Sembra un bel posto in cui vivere. Non capisco perché lui se ne sia stancato.

Eccolo, viene verso di me. Indossa una felpa grigia con cappuccio e dei jeans; è sempre lo stesso, ritroso e affabile al contempo, proprio come mi sembra questa città in cui fino a mezz’ora fa non avevo mai messo piede. È pomeriggio, abbiamo del tempo per noi prima di incontrare gli altri e io ne sono felice. Vedere il suo viso sorridente mi placa e, come al solito, mi placca allo stesso tempo, mettendomi in un angolo felicemente sconfitta. Non m’importa cosa io possa aver provato per lui in passato, ciò che conta è che lui sia qui, che io sia qui, dopo averlo tanto desiderato. La città non deve per forza avere a che fare con lui. È più che altro una cosa mia, ma mi rendo conto di come possa sembrare. Si potrebbe credere che io sia qui esclusivamente per lui, ma non sarebbe corretto dirlo. Desideravo venirci e lui è un’aggiunta piacevole e fortuita, diciamo così.

Mi spiega che tra circa due ore dovremo trovarci all’altro capo della città e che qui s’impiega molto tempo per andare da una parte all’altra. Il suo sorriso svanisce e sbuffa, mi dice che è davvero stufo di constatare ogni fottuto giorno che nulla è semplice, in questa città. Per fare qualsiasi cosa ci vuole pianificazione, bisogna agire d’anticipo. Attacca poi a parlare di casa nostra, del nostro borgo e della nostra regione, dei girasoli rigogliosi e di quelli rinsecchiti, dei campi di grano dove in autunno puoi camminare. Mi dice di nuovo di quelle lunghe passeggiate solitarie che faceva quando era a casa, la mattina presto, mentre il resto del mondo ancora dormiva. Me le ricordo, anche se non sono mai andata assieme a lui. C’era un che di romantico, in quel suo peregrinare all’alba, ma del resto lui ha sempre voluto essere un personaggio romanzesco. Forse la città ha perso, per lui, la sua magia, la sua rêverie, rimanendo solo sporca e caotica, un pasticcio di cemento zeppo di petulanti mostri altissimi di cui non vedi la testa.
Ma io sono così emozionata. Casa nostra mi sembra scontata, troppo rassicurante. Mi sento così coraggiosa, così fiera di me stessa per essere arrivata fino a qui.

Andiamo in un piccolo supermarket. Prendo una bottiglia di vino bianco perché voglio berne un po’ con lui, essere brilla e ridere e guardare la città con occhi un po’ annebbiati. Non ho altri piani particolari, sono qui, esisto qui così com’ero esistita a casa mia e la forza di questa semplice verità mi colpisce in pieno viso. Prendo anche della cioccolata fondente, una tavoletta piccola, che entra giusta giusta nella mia borsetta di cuoio a tracolla. Lui arraffa un panetto di burro, dicendo che gli serve, che a casa sua, in frigo, c’è del burro scaduto. Non ci faccio caso, lì per lì, ma poi arriviamo alla cassa e gli dico: “Ma che fai, prendi un panetto di burro? Si scioglierà, è maggio e staremo fuori tutto il pomeriggio!”.

La cassiera, un’afroamericana di mezza età, scopre i denti bianchissimi e parte delle gengive rosa e ride forte. “Dovresti ascoltare la tua ragazza” dice. Io e lui scoppiamo a ridere, nessuno la corregge. Non sono affatto la sua ragazza, sono una presenza fissa e intermittente, come la luce verde di Gatsby. Gli occhi di lui sorridono, ma è un sorriso fugace. Subito torna a sbuffare, dice brusco alla cassiera che intende comprare il burro. Poi guarda l’orologio e mi dice che sono già le cinque e mezza e che quindi, in effetti, non staremo fuori tutto il pomeriggio. Ci rimango un po’ male, sembra avere fretta e io invece voglio evitare ogni tipo di pressione. Vorrei buttare gli orologi, incontrare gli altri più tardi o addirittura domani. Ma non lo odio, è sempre difficile per me odiarlo. Inoltre, so che sta passando un momento delicato, che non è più felice qui. Spero solo che la mia visita gli possa far piacere. Spero d’infondergli un po’ di fiducia, di pacificarlo.

Usciamo da quel mini market, io con la mia bottiglia di vino incastrata sotto l’ascella, lui col suo panetto di burro in mano. Non ha alcun senso che lo abbia comprato. Non andremo a casa sua prima di due ore. Penso che vorrei vedere casa sua da soli, senza gli altri. Non ho alcuna mira sentimentale né tanto meno sessuale, voglio solo avere qualche minuto con lui, da sola. Ma mi rendo conto che siamo già da soli, anche se in mezzo alla folla. Camminiamo lungo marciapiedi interminabili. Gli dico: “Mostrami qualcosa che ami di questa città, qualcosa che amerei anch’io”. Lui mi guarda incerto, dice che non sa più se ci sia ancora qualcosa della città che gli piaccia per davvero. Ma poi sembra che qualcosa lo animi e annuncia di volermi portare a fare un giro al mercato coperto della carne. Non capisco perché ci voglia andare, ma non protesto.

Il mercato coperto della carne è davvero bizzarro. È enorme e ci sono dei cavalli vivi, in piedi, in fila indiana, addossati contro una lunghissima parete. Quasi tutti hanno il manto fulvo, ma ne vedo anche un paio neri e uno bianco con addosso un drappo rosso scuro che mi fa venire in mente il quadro “Lady Godiva” di John Collier. Noto anche delle enormi bistecche crude ammassate le une sopra le altre su delle mensole di ferro. Osservo rapita il sangue che cola e sgocciola sul pavimento. Guardo lui con aria interrogativa. Mi spiega che molta gente, qui, ama mangiare la carne di cavallo. Aggiunge che me la farà provare, durante la mia permanenza. Poi mi prende per mano – è un gesto intimo, d’affetto, sento che mi sta guidando. Mi porta lì vicino, in un magazzino grande e arioso che ha tutta l’aria d’essere una galleria d’arte contemporanea. Mi pare tutto molto, molto strano, ma ci ho visto giusto. Mi racconta che quello, forse, è il suo posto preferito della città, perché la gente ci va senza impegno, tentando di riprodurre opere d’arte che hanno per protagonisti i cavalli. Non ho il tempo di fare domande, perché vedo subito, alla mia destra, un enorme cavallo nero che mi ricorda un quadro.

“È come… Il quadro di Constable, John Constable, vero? O forse era solo attribuito a lui?” gli chiedo.

“Non lo so, sei sempre stata tu quella brava in storia dell’arte” mi risponde, e io ricordo, ancora una volta, tutto quanto. Penso che non abbiamo mai smesso di ritrovarci, che non sono più necessarie le domande, che i dubbi se ne stanno andando dalla mia mente, che tutto è come dev’essere.

Ce ne andiamo via dal magazzino e dal mercato coperto della carne. Appena usciti, scorgo davanti a me il grattacielo che ho tanto aspettato di vedere – mi accorgo che la mia mano è ancora nella sua e che lui mi sta sorridendo. Della fretta e del malanimo di prima, non c’è più alcuna traccia.
Ci sediamo su una panchina a una fermata dell’autobus. Mentre osserviamo il grattacielo il viso mi s’informicola e gli domando: “E il panetto di burro?”.

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