Il mio conflitto con Marina Abramovic

di Laura Vattovaz

Da quando ho dato l’esame di Estetica, il mio sguardo sul mondo dell’arte è cambiato. Non che si sia definito e neppure cristallizzato, è solo più complesso. Sono convinta che la comunicazione culturale debba essere consapevole e responsabile degli effetti che genera. E ritrovarmi a scrivere della mostra di Marina Abramovic a Firenze, a distanza di un anno, rimette in bilico le mie convinzioni.

Ero lì con la redazione di Charta Sporca per Firenze Rivista 2018, festival delle riviste indipendenti. La mostra dell’artista serba era a due passi, ma l’indecisione sul visitarla o meno era forte. Dentro di me si alternavano più voci: “Non ci vado per protesta verso la cattiva gestione delle paghe e delle ore di lavoro dei performers… Ci devo andare per forza perché è inerente ai miei studi, sia per l’allestimento che per le forme curatoriali… No, l’arte di Marina non mi va proprio a genio… E se invece meritasse?”

Mentre il mio conflitto interiore con la retrospettiva di Marina non mi stava portando da nessuna parte, Anna disse un semplice “Andiamo!”. Arrivate a Palazzo Strozzi non c’era tanta coda nonostante fosse la prima domenica dall’apertura. Parlammo delle conseguenze potenziali della censura subita dalla locandina realizzata dall’artista per la Barcolana (“Siamo tutti sulla stessa barca”, ndr) di cui vediamo una gigantografia all’esterno del palazzo che passava quasi inosservata ai passanti. Come spesso accade, la questione, vissuta come uno scandalo a Trieste, era ignota ai più. Anna mi confessò la propria ammirazione per l’artista e per la sua trasparenza.

“Guarda questa foto, non ti sembra così vera?” Effettivamente era così, Marina Abramovic non è quel che si direbbe una bella donna ma il suo fascino è ipnotico e lei ne è consapevole.

Entrando nella mostra mi colse una frenesia improvvisa, non so perché, era assurdo. Riconoscevo gli oggetti esposti che appartenevano alle performance più famose e che avevo studiato per l’esame di Arte Contemporanea. L’intento dell’artista sarebbe quello di mettere a nudo le proprie sofferenze superando talvolta il limite del dolore, invece io mi sentivo nel paese dei balocchi. Scaricai su Anna un fiume di parole, raccontandole nel dettaglio l’utilità di questa o quell’opera, o l’intenzione di quella performance. Come una bambina saccente cercavo invano messaggi nascosti sulle foto di Marina nel cimitero parigino di Père-Lachaise. 

Ci fermammo a guardare il video di una sua rappresentazione; di fronte a noi erano esposti gli oggetti di scena: un paio di pedule e un berretto con la stella rossa, una bottiglia di vino, un vasetto di miele e una lametta sopra un tavolo con una tovaglia inamidata bianchissima, a fianco una frusta e poco distante una stufa elettrica, appesa sopra un letto di ghiaccio. Alla spalle di questa scenografia inquietante venivano proiettate in loop due versioni della performance: quella originale degli anni ’70 e quella dei primi anni 2000. Marina snella e vitale, Marina lenta e meticolosa. Lo sguardo era lo stesso, intenso e determinato. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle immagini in sequenza, nonostante il mio stomaco si stesse rivoltando. Il dolore è un segnale, un avvertimento per una situazione da evitare. Lei ne fa la sua bandiera, la sua firma.

“Non devi guardare!” gridava il mio cervello ed il mio cuore non c’era più, dileguato. Appena finì la proiezione e le pareti si oscurarono mi sentivo uno schifo. Avevo le lacrime agli occhi, non volevo continuare. Decidemmo di sederci, mentre gli altri visitatori ci passavano davanti. Mi sentivo come se non fossi stata lì e mi sembrava che Anna provasse lo stesso. Non ci era rimasto più nemmeno il coraggio di parlare; sapevamo entrambe di aver vissuto un’esperienza estremamente difficile da decifrare: forse non saremmo più state le noi di prima, quelle che aspettavano in fila alla biglietteria. Avrei voluto vomitare, odiavo le persone, odiavo Firenze, odiavo l’umanità. Mi sentivo inutile a chiedermi il senso di una performance che una spiegazione forse non l’aveva affatto e questo non faceva altro che aumentare il mio tormento.

Su tutte le pareti della stanza successiva campeggiava il manifesto dell’artista e il suo pensiero. Marina ha vissuto ecletticamente, avvicinandosi alla spiritualità attraverso la conoscenza di culture disparate e questo muro di parole, che venivano ripetute anche dalla sua voce dall’impianto audio, come un mantra si incidevano nel cuore. L’angoscia di prima scomparve.

Le sale superiori erano dedicate alle opere che l’artista ha condiviso con il suo compagno Ulay. Una delle più importanti e più conosciute consiste nell’essere costretti a passare di lato tra due performers completamente nudi, appoggiati agli stipiti della porta. La coppia di artisti l’avevano ideato per fare scalpore, per sbalordire, per provocare. Ora sembrava un passatempo, un divertimento da immortalare con un selfie. Chi non se la sentiva poteva evitare l’ostacolo e passare da una via secondaria (già sbagliato secondo me, Marina perché l’hai permesso?). Anna attraversò lo “Stargate” e ne rimase folgorata. Il mio cinismo non colse subito la meraviglia e la disperazione che lei non aveva avuto paura di mostrare. Era in lacrime e l’ho abbracciata. Cosa aveva provocato quella reazione: un disagio latente? Man mano che si susseguivano le sale, il puzzo delle ossa vere esposte, il via vai di gente che indossava scarpe fatte di blocchi di minerali o contava i chicchi di riso sperimentando la percettività del tempo, mi fecero innervosire a tal punto che me ne volevo andare.

Cosa stavano facendo queste persone? Stavano cambiando il proprio modo di stare al mondo o era solo un passatempo, al pari di un Lunapark? Ero sul punto di battere le mani per destare lo sguardo tra due visitatori sconosciuti, intenti a riprodurre “The artist is present”, performance in cui Marina sedeva ad un lungo tavolo vestita di rosso e si metteva a disposizione del visitatore per uno sguardo intenso. Meglio di no, meglio andarsene.

A distanza di un anno mi domando ancora quale sia il senso di responsabilità di questa artista o l’effetto che provoca a chi entra in contatto con la sua produzione. Forse aveva ragione Anna: le reazioni ad una mostra come questa possono essere molteplici; possono intrattenere, turbare, possono farti dubitare o anche solo pensare. Sicuramente qualcosa hanno smosso, altrimenti non sarei qui a parlarne e a pensare di dedicare la mia tesi a Marina.

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