“La profezia dell’armadillo” di Emanuele Scaringi

di Francesco Ruzzier

“Probabilmente conoscete la storia di quelle due capre che mangiano la pellicola di un film tratto da un romanzo di grande successo. A un certo punto una capra dice all’altra: ‘era meglio il libro””. Fu così che Alfred Hitchcock rispose a François Truffaut durante l’intervista più famosa della storia del cinema. La domanda, ovviamente, traeva origine da uno dei dilemmi cinefili maggiormente ricorrenti quando si discute di adattamenti: “meglio il libro o meglio il film?”. L’ironia della risposta con cui il regista di Vertigo demoliva il quesito, sottolinea, se ce ne fosse davvero bisogno, di quanto in realtà, parlando di media e linguaggi diversi, sia domanda assolutamente priva di senso.

Nonostante questo, il confronto viene sistematicamente messo in piedi, dando vita a riflessioni che non possono portare da nessuna parte. Finché però il tutto si limita ad una semplice discussione post visione, il problema non si pone. Quando invece a commettere l’errore sono gli autori del film, ecco che la questione si complica un po’.

Purtroppo bisogna iniziare con questa premessa per parlare de La profezia dell’Armadillo, opera prima di Emanuele Scaringi che adatta per il grande schermo l’omonima graphic novel del fumettista Zerocalcare. Un’operazione che commette l’errore di prendere alcune parti del testo originale riproponendole senza un minimo di rielaborazione. Il risultato è abbastanza prevedibile: non può funzionare. Una soluzione narrativa che a disegni, come spesso accade nell’opera di Zerocalcare, riesce a far ridere perché ha i tempi giusti, diverte con le espressioni caricaturali dei personaggi o con i rimandi ad altri elementi della cultura pop, non è trasportabile senza modifiche al cinema perché nel passaggio al live action tutte le peculiarità delle tavole si perdono per strada e quel che ne esce è qualcosa di simile ad una lettura a voce, senza alcun sentimento.

E il film di Scaringi non trova mai l’intonazione giusta per “leggerle”, quelle tavole. La regia, infatti, pecca di personalità nel non provare a riadattare il materiale di partenza o nel cercare una propria chiave di lettura. La sensazione che si ha continuamente durante la visione è quella di un prodotto costruito a tavolino per far rizzare le antenne ai fan della graphic novel e nulla più.

Oltre a questo, La profezia dell’Armadillo prova a proporsi come ritratto di una generazione di trentenni cresciuta quando ancora i trentenni erano visti come adulti, con un preciso posto nel mondo, e che invece oggi chi si trova sospeso in un limbo: in bilico fra un lavoretto e l’altro, a vivere con i genitori o a reinventarsi continuamente. Vorrebbe raccontare della fine di un’adolescenza prolungata, interrotta dalla morte di una vecchia compagna di scuola e amore giovanile mai dichiarato, che costringe il protagonista a fare i conti con la propria vita, con l’incomunicabilità, i dubbi e la mancanza di certezze della sua generazione di “tagliati fuori”. Anche in questo senso, però, il racconto sembra procedere per tavole e parentesi quasi autoconclusive, che non riescono mai a dipingere quell’affresco generazionale, malinconico e disilluso, che vorrebbe essere.

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