La proprietà non è più un furto?

di Marta Zannoner

petri vol

La proprietà non è più un furto, di Elio Petri, è un film  del 1973 che potrebbe essere benissimo uscito in sala qualche giorno fa; i temi che vi sono espressi sono feroci, cinici, crudelmente veri e attuali. Petri è ricordato come un regista impegnato, uno di quei molti registi che la fine di una certa stagione politica ha relegato nel dimenticatoio, o peggio nei bassi fondi di una presunta sottocultura cosiddetta “sinistrorsa”. Ma sarebbe sufficiente guardare i suoi film per accorgersi di quanto queste banalizzazioni siano lontane dalla realtà. L’interesse di Petri per le questioni sociali è fuor di dubbio, ma quel che egli era capace di fare, nei suoi film, in maniera forse unica nel suo genere, era di penetrare il vertiginoso punto di intersezione tra le questioni più macroscopicamente politiche di quegli anni e la vita degli individui intesa nel suo senso più privato, banale, quotidiano.

Senza scadere in facili psicologismi, ma restando piuttosto in una surreale e grottesca sospensione, la maggior parte dei film di Petri costringono lo spettatore a identificarsi con personaggi e protagonisti che ideologicamente tenderebbe a rigettare, con figure grottesche che entrano ripugnantemente in risonanza con le nostre più intime, attuali e inconfessate nevrosi. La proprietà non è più un furto, insieme a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso, fa parte di quel “momento” della filmografia di Petri che è ricordato dalla critica sotto il nome di “trilogia della nevrosi”. La proprietà non è più un furto in particolare affronta la nevrosi del denaro, mentre le altre due pellicole trattano rispettivamente della nevrosi del potere e di quella del lavoro.

Il film racconta di un giovane impiegato di banca, Total, interpretato da un eccellente – quanto fisiognomicamente angosciante – Flavio Bucci. Total è un contabile bancario che inizia un bel giorno a manifestare sintomi psicosomatici ossessivi nel suo rapporto col denaro, cioè con l’oggetto che – per lavoro – maneggia quotidianamente. Il sintomo della sua nevrosi si produce come un prurito, un’allergia, che si scatenano a contatto con le banconote. È l’inizio della sua “follia”. Stanco della miseria che lo circonda, Total decide di cominciare a rubare, non tanto per bisogno quanto piuttosto come secondo stadio della nevrosi che lo sta travolgendo. Come vittima preferita Total sceglie qualcuno che è sempre stato un carnefice, sia in senso figurato che letterale.

Sceglie infatti di perseguitare il ricco Macellaio, un Ugo Tognazzi il cui personaggio è reso ancor più grottesco attraverso un marcato accento romano che stona volutamente con la sua celebre mimica, e gestualità, tipicamente settentrionali. Il personaggio del Macellaio, oltre ai suoi affari in macelleria, svolti con disonestà, possiede diversi edifici e pare controllare altri numerosi traffici. Il Macellaio – diversamente da Total – sembra in grado di soddisfare i propri desideri e le proprie smanie grazie al denaro; il denaro infatti gli permette di possedere beni, reputazione e persino la donna con cui vive, che pur ricopre la funzione di semplice oggetto sessuale, funzione a cui quest’ultima si piega volentieri, pur non senza la consapevolezza della sua condizione (attestata in uno degli agghiaccianti monologhi su fondo nero con cui Petri interrompe lo sviluppo della trama): lei sa di essere una cosa, e le va bene così, sa che l’affetto del Macellaio nei suoi confronti è direttamente proporzionale al ritenerla propria, e infatti a quest’ultimo basta il sospetto che Total, durante una razzia in casa sua, possa averla posseduta per abbandonarla senza troppi complimenti. Forse è proprio questo che spaventa maggiormente dell’intera narrazione: la consapevolezza di ogni singolo personaggio della propria malattia, della propria ossessione, e il suo totale bisogno di assecondarla, come se lucidamente ogni personaggio si vedesse gelidamente percorrere – attraverso vie antitetiche – la propria strada verso l’autodistruzione.

Punti focali della pellicola , come anticipato, sono i monologhi recitati dai personaggi principali, che ben riassumono le tematiche di base del film: le nevrosi, la lotta di classe e, ovviamente, il possesso. Io ho quindi sono. Avere e possedere assumono i connotati dell’essere, si impongono come la sua unica definizione possibile e come il solo modo per potersi riconoscere e soddisfare nella vita, per avere delle prove del fatto che siamo. Ed è proprio questo il punto, che Petri centra, e che rimane, in  maniera ulteriormente intensificata, ancora il nostro: il bisogno, la smania di possedere, terrorizzati dal restare senza oggetti, senza potersi riflettere in essi, e quindi senza potersi riconoscere.

Il vuoto del niente e del non essere spaventano a tal punto da non poter smettere di desiderare intensamente di colmarli con “cose”, con immagini di sé, o con persone. Non si tratta solo di oggetti, di ideali dell’io o di partners, ma anche di “saperi” e di “esperienze”. Per fare un salto nell’attualità, alle funzioni del possesso dipinte da Petri all’altezza dei primi anni settanta, potremmo aggiungerne forse una nuova: il possesso di esperienze e di conoscenze. Dai viaggi agli stage, dalle relazioni di sei/otto mesi consumate senza soluzione di continuità agli indefiniti aggiornamenti tecnologici e professionali: c’è l’urgenza, la coazione a fare quantitativamente il più possibile, ad accumulare esperienze belle, piacevoli, gradevoli, ad ammassare conoscenze formative per un futuro che potrebbe non arrivare mai. A questa coazione si associa la necessità di rendere noto al pubblico quello che si sta facendo; inutile specificare che si sta parlando dei vari social network e del loro incessante lavorio politico che contribuisce ad alimentare l’equazione “ho = sono” in cui si traducono le formule più capillari dell’alchimia della soddisfazione neo-liberale, al punto tale che queste forme di comunicazione – teoricamente nate per incentivare i rapporti tra persone lontane – da semplice svago si sono trasformate in un quasi obbligo sociale, celato da divertimento.

Ad accompagnare la volontà del possedere, vi è quella del potere, ossia del fare e del non fare e anche della forza. Più si possiede e più si può. Più si può e meno si accetta che anche altri possano. Perché quando si ha, si ha anche il potere di attendersi la subalternità altrui, più o meno consapevole, più o meno evidente. Il fatto che Total non sia interessato ai beni materiali, il fatto che rubi per vocazione, è proprio ciò che fa impazzire a sua volta il macellaio, al punto tale che questi alla fine della pellicola ucciderà Total – non prima di aver cercato di corromperlo offrendogli buona parte di tutto quello che ha, offerta di fronte a cui Total vacilla, influenzato dal tremendo personaggio del padre, ma che alla fine eroicamente rifiuta. L’intensità della scena della tentata corruzione di Total da parte del Macellaio è veramente sconvolgente: l’inimicizia e l’aggressività tra i due, per un istante, paiono quasi caricarsi eroticamente, in uno strano transitivismo, dove per un istante possiamo quasi cogliere che in fondo – al fondo della loro nevrosi e della loro infelicità – entrambi si immaginano che l’altro abbia qualcosa che gli manca. Il fatto che il Macellaio uccida poi Total ci suggerisce forse quella che è la prospettiva del regista riguardo a chi, in fondo, tra i due, fosse il vero innamorato, vale a dire il più mancante.

Connessa alla questione dell’avere e del potere è anche quella sorta di invidia, su cui Petri si sofferma, e a cui Bucci fa riferimento nel monologo di apertura; quell’invidia che è all’origine dell’odio di classe, un sentimento destinato a non esaurirsi mai e che – decomponendosi specularmente in egoismo al livello del cosiddetto proletariato – è la vera ragione per cui, fintanto che le forme di soddisfazione individuale non saranno più centrate sull’avere, non sarà mai possibile nessuna sovversione politica dell’attuale sistema politico-economico. Si tratta di una gelosia malsana, che spinge l’uomo a disprezzare ciò che è in nome di ciò che non possiede, volendo sempre di più per il semplice fatto che vedi altri avere di più di ciò che egli, a sua volta, possiede. Potrebbe non essere un caso che alle lauree si facciano regali preziosi, così come ai matrimoni e in altre occasioni particolari, come se si trattasse di un premio quantificabile per il valore e le qualità di una persona.

La proprietà non è più un furto si conclude con l’assurdo monologo/orazione funebre del ladro Albertone (Gigi Proietti), un personaggio che mai ha cercato di nascondere la sua reale occupazione dietro a lavori universalmente riconosciuti come onesti e che si produce in una commovente apologia della “ladritudine”. La spiegazione dell’enigmatico titolo ci è forse svelata in una frase di Total quando questi si trova a confrontarsi con dei tentativi seduttivi del Macellaio: “La proprietà più che un furto è una malattia… essere o avere… Io vorrei essere… e avere, ma so che è impossibile… è questa la malattia”. Questa è la matassa che Petri stava cercando di risolvere. Un nodo che incita a domandarci cosa ci abbia spinto così in là nella ricerca del presunto benessere, e che ci mette una pulce nell’orecchio: si può davvero parlare di benessere se questa ricerca produce in fondo solo ossessione e nevrosi? Ci sarà mai un punto d’arrivo?

Forse. Ma la cosa veramente malata di tutta questa missione accumulatrice di senso, di esperienze, di benessere, è piuttosto il fatto che sembriamo aver rimosso persino il sospetto che il valore di queste “cose” si fonda a livello politico, che esso è condizionato alla soddisfazione di imperativi superegoici che sembrano aver molto poco a che fare con quel miraggio che potremmo chiamare felicità (che pur essendo particolare per ognuno, certamente è qualcosa di molto lontano da queste forme telecomandate ed autoaccusatorie di soddisfazione).

Poco importa se qualcuno si dichiara felice diversamente: non avendo determinate caratteristiche sociali di prestigio, quali un buon livello di educazione, una bella casa, una relazione appagante, un individuo è destinato al fallimento all’interno della comunità. Ed essere felici quando il mondo ti compatisce, ti disprezza o ti medicalizza, pur non essendo impossibile, è certamente molto più difficile. Questo è il vero deterrente politico ritorto quotidianamente contro le forme alternative di soddisfazione individuale. il punto è che noi tutti, anche se non lo ammettiamo, consideriamo queste alternative come dei ripieghi rispetto all’avere, al realizzarsi, all’accumulare esperienze “personali”. Proprio a causa di questa feroce e dissacrante competizione, chi rifiuta i binari preformati della soddisfazione neo-liberale, se non abbastanza temprato, potrebbe trovarsi afflitto dalla nevrosi – tutta contemporanea – della vergogna di se stesso. Un po’ perché non ha raggiunto gli obiettivi impostigli da un’entità superiore invisibile che si muove tra la folla, e che in fondo non è altri che l’occhio con cui scruta se stesso, o forse soltanto perché – chissà per quale motivo – potrebbe sentirsi svanire perdendo quest’occhio che è il vero il motore della gara.

Il venir meno di quest’occhio auto-valutante rischia di produrre una sorta di annullamento negli individui che lo rifiutano, o che semplicemente non riescono più a riconoscervisi, un annullamento che però – come in un lascia o raddoppia – potrebbe significare al contempo tanto la loro definitiva rovina quanto una nuova, rivoluzionaria – apparentemente masochistica – esperienza della soddisfazione individuale.

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