La rivoluzione “impossibile” e il cambiamento che non cambia

di Sara Nocent

“Facciamo la rivoluzione! Spacchiamo tutto!” Anzi no, è meglio cambiare. Pensandoci bene, in effetti, non si può demolire un sistema che non è solido né visibile, non si può ribaltare un potere che ormai è diventato assoluto. E guai a dire che si vuole rottamare, perché sennò si rischia di risvegliare renziane memorie e ricordarsi che, qualche anno fa, molti italiani sono stati sedotti dall’ennesimo finto rivoluzionario in camicia bianca.
Ma scacciare certi pensieri dalla mente non basta: l’elettorato, questa entità mistica a cui ancora i governanti populisti attribuiscono la sacrosanta volontà generale, alla Rousseau, c’è cascato di nuovo.
Ed eccoci qui, con un “governo del cambiamento” nel 2019, anch’esso definito dal vicepremier pentastellato “l’anno del cambiamento”. Hanno ragione, quelli del governo. Anzi, il 2019 non è l’unico anno che si merita questo appellativo: dovremmo renderci conto che stiamo vivendo nell’epoca del cambiamento costante e che questa dinamica, che ha poco a che fare con il miglioramento delle condizioni sociali delle persone, è talmente radicata nella nostra bitcultura che perfino i politici sono stati costretti ad adattare la loro propaganda cinguettante ai tempi.

Prima di ipotizzare i motivi per cui si preferisce il cambiamento alla rivoluzione a livello sia comunicativo che pratico, è opportuno chiarire che essi rappresentano due atteggiamenti completamente diversi di fronte ai problemi del presente: mentre la rivoluzione implica un radicale stravolgimento del sistema attuale e quindi una rottura, il primo termine allude a un rimpasto delle regole esistenti che tenta di operare un miglioramento, senza tuttavia prendersi il pesantissimo impegno di intaccare le grandi architetture della struttura del potere.
Ma ora, nella società dei consumi, tutto è già nuovo, tutto è già migliore. Chi penserebbe di ribellarsi?
Ormai, la rivoluzione è impossibile. O quasi.
La cultura delle merci ci abitua alle novità, rendendo impensabile qualsiasi forma di opposizione. Se ci fate caso, non facciamo in tempo a comprare l’ultimo modello di smartphone che subito ne esce un altro pubblicizzato come “il più rivoluzionario di sempre”, che promette di fare più velocemente e meglio tutto ciò che faceva il vecchio prodotto, con il vantaggio di offrire dei servizi alla cui utilità il consumatore non aveva mai pensato. E poi costa di più, il che lo rende un irresistibile strumento per affermare lo status di consumatore modello, sempre sulla cresta dell’onda – di un mondo liquido.
Alcuni di voi avranno già sentito in queste righe un sussurro di Bauman, per cui ora non posso fare a meno di citare un passaggio del suo Consumo, dunque sono che affronta proprio il tema della tacita repressione della critica collegata all’avvento del capitalismo avanzato:

La società dei consumatori ha sviluppato, in misura senza precedenti, la capacità di assorbire il dissenso di ogni e qualsiasi tipo che essa (come altri tipi di società) inevitabilmente genera, trasformandolo in una risorsa fondamentale per riprodursi, rafforzarsi ed espandersi

Dalla genuina ribellione di giovani e lavoratori, il sistema-vampiro ha succhiato tutto il senso, conservandone gli aspetti accelerativi e violenti che, una volta privati di qualsiasi finalità, vanno a integrarsi in quella velocità assoluta da cui siamo travolti e sedotti, come negli scenari prospettati dal filosofo Paul Virilio.
Ma come è possibile riconvertire l’energia della contestazione in frenesia consumistica? Forse, già la ripetizione sistematica delle parole “rivoluzione”, “innovazione” e “cambiamento” nelle pubblicità contribuisce a questa missione, abbinata al costante invito a essere unici e alternativi (in modi, chiaramente, già stabiliti dal mercato) e alla diffusione della trasgressione attraverso film, social e musica (si noti, per esempio, l’enorme successo della trap tra i giovani).

La rivoluzione giovanile, in particolare, sembra essere impossibile, perché siamo di fronte allo schiacciante successo del potere applicato alla vita, che risulta indebolita e svuotata. La retorica dell’autoimprenditorialità, l’ultima frontiera del sistema neoliberale, diffonde tra i giovani l’identificazione totale del valore della vita con il valore di ciò che fanno per vivere: è il trionfo della cosiddetta “tecnica” in un mondo in cui sei competitivo (e quindi sopravvivi socialmente) solo se sei dotato di quelle caratteristiche che ti permettono di stare sul mercato, come, per esempio, la capacità ad autosfruttarti. Costituendo il cambiamento come moda, inoltre, si è offerta una facile soddisfazione alla necessità di rendersi unici che giovani di ogni epoca condividono, senza andare in contraddizione con la tradizione culturale che li vede come dei “ribelli” per antonomasia, coloro ai quali tradizionalmente una società asfittica delega il compito di cambiare se stessa. Per effetto di questa conciliazione, posso sembrare ribelle (e magari convincermi di esserlo) comprandomi le scarpe nuove di quella marca che costa, andando in giro sempre con le cuffiette tanto chissenefrega del mondo e sputando per terra ogni tanto il veleno che mi porto dentro, non mi interessa se quelli sfigati si scandalizzano. Sembrerà un paradosso, ma comportandosi così i giovani di oggi diventano quello che erano i vecchi di ieri, ovvero l’omeostato, l’organo di conservazione della realtà esistente.
Il mercato è riuscito nello scopo di far desiderare il proprio desiderio agli elementi potenzialmente più pericolosi della società. Ma chi pensa in modo diverso, per fortuna, esiste e resiste ancora, nonostante l’aspra discriminazione di cui è quotidianamente il bersaglio. Inoltre, se è giovane, e quindi totalmente travolto dalle dinamiche del consumismo, diventa anche l’unica speranza che abbiamo, almeno in potenza, di avere una rivoluzione dal cuore del sistema.
Comunque, per poter iniziare, la rivoluzione deve essere avvertita come una necessità, una pulsione scabrosa che arriva dall’inconscio e che mette in crisi la coscienza, oggi più che mai simile a un non-luogo psichico in quanto si presenta come prodotto ultimo dell’ideologia capitalista, nonché l’operatore fondamentale di tutte le cosiddette logiche di mercato. Tuttavia, è proprio questo il punto in cui diventa evidente che la rivoluzione non si può fare: il potere ha superato perfino l’auto-sorveglianza descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e punire arrivando a un controllo puro, rendendoci macchine desideranti al servizio di quello che è il desiderio per eccellenza, ovvero il capitale. Risulta quindi difficilissimo non solo opporsi al sistema, ma prima di tutto rendersi conto della gravità della repressione a cui siamo soggetti quotidianamente.

La rivoluzione non può nemmeno essere pensata. Eppure vorrei provare a suggerire un’idea impossibile, di quelle che non bisogna capire, ma solo intuire. Una domanda scomoda, spaesante: “E se fosse la vita a chiedere una rivoluzione?” La vita? Sì, proprio la vita, quell’energia sempre più soffocata da un potere che, non a caso, Foucault chiamava “biopolitico”. Contro e dentro questo potere potremmo allora, in maniera del tutto anacronistica, disperata e coraggiosa, provare a ritrovare nel nostro corpo e nella terra proprio quel ronzio di natura abbastanza fastidioso da contrapporsi con tenacia al dominio dispotico della coscienza. Per secoli, quella vita che Nietzsche ha identificato con la volontà di potenza, intesa come forza creativa che supera costantemente se stessa, è stata imbrigliata grazie all’impalcatura coercitiva di cui tutte le civiltà hanno bisogno per darsi un ordine. Tuttavia, tra i molti inevitabili modi in cui le società hanno cercato di governare questa volontà, la nostra società è l’unica che abbiano osato razionalizzare l’irrazionale fino a dirottare tutti gli istinti in funzione della propria autoconservazione . L’affermatività spesso caotica e incomprensibile della vita è, fin dalla più tenera infanzia, impercettibilmente e continuamente soppiantata nella nostra società da una nichilistica – e quantomai profittevole – volontà di nulla, altrimenti conosciuta come consumismo.
Eppure bisogna partire proprio dalla vita. Niente di più semplice, niente di più difficile. Potremmo iniziare a stare dalla parte della natura, ascoltando ciò che da anni la Terra ferita ci urla e facendo nostre le sue necessità rivoluzionarie. A tal fine è necessario sentire di essere parte di un tutto, sentirsi coinvolti non come umani che potrebbero fare qualcosa, bensì come animali in pericolo, animali nel senso più etimologico del termine, ovvero esseri connotati dalla vita. Una rivoluzione interiore, quindi? Forse sì. Una rivoluzione che ci chiede di comprendere che la natura non è altra da noi e che ci attende sul confine dell’”animale che dunque siamo”, per parafrasare Derrida. Una rivoluzione difficilissima, certo, ma non impossibile.

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