La Salomè di Wilde e la fiamma dello sguardo

di Eleonora Zeper

“Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della personalità con la perfezione in cui consiste la vera differenza tra il movimento classico e il romantico nella vita; ma è un fatto che la sua stessa natura era identica a quella dell’artista: una immaginazione intensa come una fiamma. Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa che, nel dominio dell’arte, forma il segreto unico della creazione. Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudele miseria di coloro che vivono non cercando altro che il piacere, la strana povertà del ricco”. Oscar Wilde, De produndis

Nel 1891 Oscar Wilde scrive in francese la Salomè, testo teatrale più noto al grande pubblico per la trasposizione operistica di Strauss che per il copione originale, poco rappresentato, per il dispiacere dello stesso Wilde. Siamo nel palazzo del tetrarca di Giudea, Erode Antipa (Eros Pagni), che ha sposato Erodiade (Aninta Bartolucci), la moglie del fratello; in una cisterna Erode ha fatto rinchiudere il profeta Iokanaan, Giovanni il Battista (Giacinto Palmarini), uomo che ha visto dio e che il tetrarca, pavido fantoccio dei Romani, teme per la sua misteriosa forza e per la sua purezza. Erode lo tiene prigioniero, ma non sa liberarsene.
Salomè (Gaia Aprea), giovane principessa figlia di Erodiade, si assenta dal banchetto, annoiata dalle lascive occhiate del patrigno e, sentite le ingiuriose parole di Iokanaan, chiede alle guardie di poterlo vedere. Sullo sfondo incombe una mutevole e terribile luna, doppio della principessa stessa.
La giovane Salomè, abituata a essere oggetto di passioni amorose che deride e sfrutta con algida vanità, si innamora a sua volta del profeta, della purezza del suo corpo, dello splendore dei suoi capelli, del colore della sua bocca; gli rivolge parole di fuoco in una cupa preghiera erotica che riecheggia in parte il Cantico dei Cantici. L’uomo di dio la rifiuta – così come fa Giuseppe con la moglie di Putifarre, così come fa Ippolito con Fedra – ed è un affronto che la donna non può tollerare. La principessa promette al profeta che sarebbe riuscita a baciare la sua bocca: “bacerò la tua bocca, Iokanaan; bacerò la tua bocca”. Il siriano Nabarroth, giovane capitano della guardia innamorato di Salomè, sentendole proferire tale giuramento, si uccide per il dolore: la luna si tinge di rosso e Salomè, preda dell’Eros e immune alla pietà, si distende, pensando a Iokanaan, sul sangue versato per lei.
Il testo indulge sul ruolo dello sguardo come origine e alimento della passione erotica: il giovane siriano guarda troppo Salomè (“La guardi sempre: la guardi troppo. Non si deve guardare la gente in questo modo… può accadere una disgrazia” così gli si rivolge l’ancella di Erodiade), il desiderio di Salomè verso il profeta nasce dagli occhi, Erodiade rimprovera Erode di guardare di continuo Salomè e la principessa, infine, costringerà la testa esangue di Iokanaan a guardarla. Un altro elemento che pare sottolineare l’insorgere e l’infiammare della passione è la ripetizione, quasi come una formula magica, del nome dell’amato: Salomè ripete nella sua preghiera quello di Iokanaan, Erode quello di Salomè.
Erode raggiunge Salomè e le chiede con insistenza di ballare per lui; la principessa, riavendosi dal torpore, accetta, con la promessa di ottenere qualsiasi cosa questa desiderasse. Salomè balla allora la danza dei sette veli, Erode la guarda. Al termine della danza la principessa chiede ad Erode la testa del Battista. Il tetrarca, dopo averla implorata di accettare doni ben più ricchi e a lei confacenti, pur temendo di macchiarsi con il sangue di un uomo simile, è infine costretto a rispettare la propria parola di sovrano. Salomè si fa consegnare la testa di Iokanaan su un piatto d’argento e lo bacia con terribile ardore.
La messa in scena di Luca De Fusco – regista che abbiamo già apprezzato al Rossetti nella scorsa stagione con Sei personaggi in cerca d’autore e in quella precedente con il Macbeth – è magistrale. Ben impiegate anche in questo caso le installazioni video di Alessandro Papa, gli attori sono sempre tutti all’altezza del ruolo, sempre ben diretti e quasi tutti ben scelti – forse, infatti, un’Erodiade un po’ più giovane avrebbe giovato all’espressione della funesta invidia generazionale fra donna e donna, fra madre e figlia.
Nei quattro protagonisti non ci sono sbavature: la profonda comprensione del testo da parte degli interpreti si avverte in ogni scena. I ricercati costumi suppliscono ad una scenografia volutamente scarna. Lo spettacolo, in scena al Rossetti dal 19 al 24 febbraio 2019, è senz’altro uno spettacolo di valore, una messinscena che, come ci ha abituati ormai De Fusco, rende onore alla grandezza del testo scelto.
È necessario però spendere qualche parola sul finale: questa volta, infatti, il regista contravviene alla sua usuale fedeltà al testo drammatico e inserisce un finale a sorpresa. Salomè bacia Iokanaan e, senza che lo spettatore se ne avveda, la testa del profeta viene sostituita da una riproduzione della testa della stessa principessa mentre vediamo, nella proiezione finale, Salomè calare nuda nella cisterna.
Salomè è la donna per cui l’uomo si uccide ed è la donna che uccide l’uomo, una donna che non può accettare il rifiuto e temibile è la sua vendetta: dell’amante si ciba, la testa le arriva infatti servita su un piatto d’argento e il bacio di Salomè è un bacio divoratore con il quale il testo teatrale si avvia alla fine. Erode infatti, inorridito dalla donna, la fa schiacciare dagli scudi dei suoi soldati. L’amore di Salomè per il Battista viene interpretato da De Fusco, sulla scorta di Renè Girard, come un amore narcisistico: Salomè amerebbe a tal punto il profeta da volersi trasformare in lui, “non può e non vuole uscire da una dimensione narcisistica dell’amore e quindi si specchia nel profeta”, così troviamo scritto nelle note di regia. Affascinante ma discutibile. L’ossessione erotica, la violenza che un tale amore porta con sé, la cecità di un amore che distrugge amato e amante: non sono motivi sufficienti e sufficientemente grandi per tenere insieme l’opera? Non basta il piatto d’argento, specchio e cibo per Salomè, per alludere a quella unione e a quella identificazione forzata di sé con l’oggetto amato che la protagonista pretende? Certo, nella morte del profeta Salomè trova non solo la propria soddisfazione, ma anche la propria morte. Temo che il finale, però, rompendo una serie ben calibrata di corrispondenze, rischi di essere un po’ troppo didascalico e incrini così l’armonia dell’insieme.
Wilde – pur rispettando le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione – non scrive una tragedia; la Salomè ha un sapore e un tono particolare a metà fra mito e racconto biblico, fra rappresentazione dell’eterno connubio di amore e morte e preghiera diabolica. È un’opera romantica, nel senso wildiano del termine, un’opera in cui la forma espressiva risulta essere perfetta espressione dell’idea immaginata, testo in cui dunque si arriva a quella “verità in arte” che nel De profundis Wilde ben definisce come “unità di una cosa con sé stessa, l’esteriore come diretta emanazione dell’interiore, l’anima connaturata con la carne e il corpo con lo spirito”. Così come il Battista annuncia la venuta di Cristo, così la Salomè, per toni e per temi, pare annunciare quella del De profundis. Nella celebre lettera scritta nel 1897 dal carcere di Reading, infatti, Wilde, incarcerato per sodomia in seguito alla burrascosa relazione con Lord Alfred Douglas, identifica Cristo come poeta e iniziatore dell’arte romantica e enuncia così compiutamente la propria teoria estetica. Cristo, infatti, professando l’amore per il prossimo e l’identificazione con la sofferenza dell’altro, diviene per Wilde il prototipo dell’artista romantico, capace di immaginare in sé il dolore di tutte le creature. Cristo realizza nella propria esperienza di vita quella coincidenza fra esteriorità ed interiorità che è quanto distingue l’arte romantica agli occhi di Wilde. La sua immaginazione è “intensa come una fiamma”, così come quella dell’autore della Salomè, lo sguardo dell’artista è intenso come e più di quello dell’amante ed è la fantasia, lo sguardo, che li muove entrambi. Il testo drammatico wildiano ci dà di conseguenza un’idea di compiuta semplicità e di fatale necessità: forse non va toccato.

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