La visione di Godard, tra chiasma e schisi

di Francesca Ruina

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“Non si dipinge né ciò che si vede, perché non vediamo più niente, né ciò che non si vede, poiché non dobbiamo dipingere che ciò che si vede, ma si dipinge il fatto che non si vede”.  È Marcel Proust a parlare – in Jean Santeuil – mentre analizza una tela di Claude Monet. Ed è esattamente questa l’operazione che compie Jean-Luc Godard nel suo ultimo film, Adieu au langage, vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes 2014. L’instancabile regista francese – ormai ottantaquattrenne – non si siede sulle ceneri della propria rivoluzione cinematografica, che ha dato vita – insieme a François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette e Eric Rohmer – alla Nouvelle Vague, ma continua ad alimentare il fuoco della sperimentazione.

Questa volta è attraverso il 3D che Godard scardina il tradizionale concetto di visione, come aveva iniziato a fare fin dalla sua prima opera – Au bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) – attraverso attori che si rivolgevano al pubblico, montaggi sconnessi e cineprese tenute a mano. Il 3D di Godard non ha nulla a che vedere con l’utilizzo che ne fanno le grandi major hollywoodiane, ma è usato come un bisturi che affetta il senso comune, una lente che mostra che c’è qualcosa che non si vede. Questo “che c’è” è tutto fuorché un “c’è che”: è un’intuizione extra-contenutistica, non un detto ma un dire, non un significato ma un significante. È quello che si rivela quando, a un certo punto del film, le immagini che il 3D sovrappone generano un senso di nausea, tanto da farti levare le magiche lenti, credendo di essere l’unica persona in sala a compiere – un po’ di nascosto – l’infausto gesto. Quando poi ci si accorge che gran parte del pubblico ha fatto – e, probabilmente, anche pensato – la stessa cosa, ci si rende conto che quella non era una mossa individuale, ma il gesto-Godard in azione: il che c’è nauseabondo della visione, la schisi tra l’occhio e lo sguardo.

Non vorrei qui fare una vera e propria recensione del film – anche perché l’intreccio narrativo, sempre che ce ne sia uno, sfuma dietro il gesto-Godard – quanto analizzare la visionarietà godardiana – intesa nel doppio senso di plasmazione della visione e di capacità di guardare sempre oltre del regista – partendo da Jean-Paul Sartre, per poi soffermarmi sul pensiero di Maurice Merleau-Ponty e Jacques Lacan.

Il primo viene direttamente citato da Godard, che mette in bocca a uno dei personaggi che gravitano sulla scena – transitano, passano, si parlano senza capirsi – una frase tratta da L’essere e il nulla: «la coscienza è un essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere in quanto questo essere ne implica un altro da sé». Alterità, dunque. Strettamente connessa al discorso della visione. Secondo il Sartre de L’essere e il nulla – in particolare della terza parte, dedicata al per-altri – lo sguardo è un punto cruciale del passaggio dal solipsismo all’intersoggettività. Lo sguardo dell’altro su di me ha una funzione reificante: mi rende oggetto, non soltanto a colui che mi sta guardando, ma anche e soprattutto a me stesso. Mi rende cosa tra le cose, parte del mondo di qualcun altro che, grazie e a causa del suo sguardo, mi fa esistere in quanto cosa da lui dominata e dominabile – ma anche denominata e denominabile. Un’alterità, dunque, che mi crea e al tempo stesso mi aliena, mi uccide.

Ma cos’è che viene ucciso? Forse, il face-à-face, ovvero una specularità orizzontale e immaginaria. Lo sguardo dell’altro spezza il dualismo dello specchio, il solipsismo monadico del Moi. Il che è ancora più interessante, dal momento che Godard fa dire a uno dei protagonisti che “le face à face invente le langage”, per poi intitolare il film Adieu au langage. Addio a un linguaggio che non può più essere Uno, che non può più incarnare né rappresentare un’orizzontalità speculare qual è quella del face-à-face.

Il perché ciò non sia più possibile ce lo dice ancora Godard, attraverso una splendida conversazione avvenuta in bagno – quale posto più intimo? – tra i due protagonisti:

regardez dans le miroir, Ivitch”
il y a les deux”
vous voulez dire les quatre”

(“guarda nello specchio, Ivitch”
“siamo in due”
“vuoi dire in quattro”)

Nello specchio non si riflettono più due singole identità solipsistiche, ma avviene la scomposizione del face-à-face, la scomposizione della visione.

Jean-Luc Godard - Leenards Foundation Cultural Prize

Maurice Merleau-Ponty si è occupato per gran parte della sua vita di ciò che dà il titolo a una delle sue opere principali, ovvero la Fenomenologia della percezione, della percezione vissuta, esperita, attraverso il corpo e l’alterità. Il corpo di cui parla il filosofo francese è un corpo proprio, senziente, fenomenico, in-carnato (la chair du monde che ci connette alle cose e agli altri), un corpo che si ha e che si è. Un corpo (meglio, una carne) che è insieme – e reversibilmente, chiasmaticamente – vedente e visibile. Ne L’occhio e lo spirito, Merleau-Ponty scrive che “siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e visibile, fra chi tocca e chi è toccato, fra un occhio e l’altro, fra una mano e un’altra mano, avviene una sorta di reincrociarsi”.

Jacques Lacan, dal canto suo, attinge – in particolar modo nel Seminario XI – al pensiero dell’amico fenomenologo, sottolineando che “la Fenomenologia ci riportava alla regolazione della forma a cui presiede, non solo l’occhio del soggetto, ma tutta la sua attesa […], la sua intenzionalità totale”, aggiungendo però che “questo occhio non è che la metafora di qualcosa che chiamerei piuttosto il germe del vedente – qualcosa di prima del suo occhio”. Cosa c’è, dunque, prima – un prima logico, non cronologico – dell’occhio? Cos’è quel “qualcosa che scivola, passa, si trasmette, di piano in piano per esservi sempre eluso in qualche grado”?

Eccoci arrivati allo sguardo, a ciò che fa sì che “io non vedo che da un punto ma, nella mia esistenza, io sono guardato da ogni parte”. Occhio e sguardo non coincidono più: lo sguardo, nel suo essere sempre eccedente rispetto all’organo visivo, diventa il significante della mia mancanza costitutiva. Ecco perché – scrive Lacan – “tu non mi guardi mai là dove io ti vedo” e, inversamente, “ciò che guardo non è mai ciò che voglio vedere”.

Quella tra la funzione-occhio e l’evento-sguardo, è una schisi che cammina sui cocci rotti degli specchi che ha prodotto. Una schisi che decentra il soggetto, che decreta il suo irrimediabile non coincidere con un fantomatico “se stesso”.

Ecco il che c’è nauseabondo della visione, che Godard in questo film – più che mai ricco di spunti e letture possibili – non si limita a mostrare, ma produce, sotto gli occhi sgomenti di un pubblico che continua – invano – a mettere e togliere quegli occhiali 3D, come se la visione fosse qualcosa di semplice, lineare e unilaterale. Come se la visione fosse un linguaggio fatto di face-à-face, eternamente rimbalzante tra solipsismi e dualismi, tra specchi che non si rompono.

Ancora una volta Godard compie un gesto rivoluzionario: infrange lo specchio, dando vita (non rappresentandola, ma creandola) a una polifonia di linguaggi diversi che si intersecano, fino a trasformarsi nel vagito finale di una nuova nascita.

 

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