L’esplosione della storia

di Davide Pittioni


È il 14 marzo del 1972. Esplode una bomba nella periferia di Milano. Un uomo con occhiali e baffetti – editore, militante e bombarolo – viene trovato dilaniato ai piedi di un traliccio dell’alta tensione. Secondo alcuni stava preparando un’azione di sabotaggio, secondo altri fu un omicidio politico. Incidente o assassinio. Bombe e storia. Un intreccio senza fine.

Il nostro sguardo della storia è spesso viziato da un’abitudine interpretativa che finisce per condizionare profondamente i nostri ragionamenti sul “che fare”. La storia, in fondo, è il bacino da cui estraiamo argomenti in favore di questa o quella tesi, aneddoti, esempi, conferme, smentite. In una parola insegnamenti. Pensiamo al dibattito tra fautori della crescita eterna (in cui anche i marxisti si sono fatti intrappolare) e sostenitori di un cambio di direzione che conosciamo come decrescita felice. Entrambe le posizioni sembrano condividere un assunto: la linearità della storia, la sua collocazione su una retta temporale che raccoglie, neutralizza e riporta sui proprî binari le tendenze e le forze che agiscono su di essa. Tutto ciò servendosi dell’idea dell’oggettività. “La concezione di un progresso nel genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo vuoto e omogeneo” afferma W. Benjamin.

L’eterno presente in cui viviamo, celato dietro la profetica speranza di una storia finalmente giunta al capolinea, dove l’umanità – negli assetti di mercato e nella forma politica della democrazia liberale – ha trovato la sua perfetta realizzazione, sembra solo una versione aggiornata di questa storicità neutralizzata.

Cos’è che viene rimosso in questa rappresentazione? Cosa si nasconde dietro questa presunta oggettività della sguardo storico? L’emergere della discontinuità. La rottura. Lo strappo. Le lacerazioni del corso storico. Il gioco consolante dei riconoscimenti (come lo chiama Foucault), ovvero il dissolvimento dell’evento in una continuità ideale che si riconosce sempre identica, è la conseguenza di un sapere ipocrita, o solo ingenuo, che non riconosce che “il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione” (Foucault). La storiografia non può infatti fare a meno di una dimensione, quella della scrittura, che la attraversa fin nella fasi iniziali della sua ricerca e che la presta continuamente all’interpretazione soggettiva. Selezione, scelta, ricostruzione, concatenazione dei fatti sono tutte operazioni che caratterizzano la ricerca storiografica, ma che pongono dei seri interrogativi sullo statuto di verità della narrazione storica. In fondo, esiste un criterio univoco che ci permetta di stabilire la verità di una rappresentazione storica? Risposta che può solo essere continuamente rinviata: la verità storica trova il suo fondamento nella ripetizione dell’operazione di scrittura.
Foucault, seguendo Nietzsche, considera questa illusione retrospettiva di fatalità una conseguenza della cultura occidentale, permeata profondamente dalla metafisica e dagli ideali ascetici: “Questa storia degli storici si dà un punto d’appoggio fuori dal tempo; pretende di giudicare tutto secondo un’obiettività da apocalisse”. Il giudizio, come si evince da questo passo, rimane connaturato nello sguardo della conoscenza, ma all’occhio “oggettivo” dello storico viene rimosso, in nome dell’universalità sovrastorica. Universalità che elimina il luogo da cui questo sapere viene prodotto, il crocevia in cui il “fare storia” coincide con il “fare la storia”.

Questa concezione storicista, per Benjamin, è tutt’altro che scientifica. Essa è profondamente ideologica. Il continuum della storia, dove i fatti sono allacciati da concatenazioni causali, dissolve magicamente la voce degli sconfitti. La storia è scritta dai vincitori. Ciò non significa che Churchill ha dettato la sua versione della storia direttamente agli scribacchini accademici, ma che quella presunta universalità di cui parlavamo prima è in realtà il risultato precario di una lotta che vede come momento di normalizzazione l’imposizione di certi valori, ovvero i valori del vincitore. La storia ha un’immagine che la accompagna: quella dell’assedio e della battaglia per l’occupazione dell’universale. La storia è la storia della lotta di classe, come sentenzia Marx nel Manifesto.
Ma Benjamin non si ferma a questa constatazione. Egli non teorizza una semplice presa del potere da parte della classe sfruttata, né una semplice sostituzione di valori.
Come abbiamo visto, le sospensioni della storia, in cui l’evento irrompe nel tessuto storico per squarciarlo, è il non detto del racconto ufficiale della storia. In questa sospensione balena una possibilità che nella ricostruzione posteriore della necessità del corso degli eventi perdiamo di vista, nella sua dimensione di radicale apertura. È in questo preciso momento che la giustizia fa il suo ingresso nella storia come “il segno di un arresto messianico dell’accadere, come chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso”. Essa non è semplicemente la legge del più forte, che trova la sua codificazione nel diritto, ma una fonte inesauribile collocata fuori dal tessuto storico.

Per Benjamin allora il materialismo storico non ha il compito di riprodurre una narrazione lineare della storia. Il materialismo storico è piuttosto lo strumento che ci permette di scardinare la concezione storicista. “Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso”. L’immagine del passato, agli occhi liberati dal giogo scientifico, si presenta come una costellazione carica di tensione: “La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato”.
Il punto cruciale di questo scarto tra linearità storica ed evento rivoluzionario è la sua fecondità teorica. Esso non si limita a produrre degli effetti nel discorso politico, ma assume una valenza anche nello stesso sguardo storico. Teoria e pratica, storia e politica, si condensano attorno ad una prassi narrativa che riconosce la storia come “oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità”.

La verità storica diviene quindi qualcosa di più delicato dell’accertamento dei fatti; essa diviene un concetto in bilico che rischia perennemente di scivolare nell’intollerabile deriva falsificazionista e revisionista. Lo storico da macchina conoscitiva diviene un soggetto eticamente responsabile: “Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia” (Benjamin).

La battaglia della storia rimane sempre aperta. Basta una scaramuccia, una scintilla, perché la bomba ci scoppi tra le mani.

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