“Love my way”. Call me by your name di Guadagnino

di Xenia Chiaramonte

“1983, da qualche parte nel nord Italia” fiorisce l’amore fra Elio e Oliver, protagonisti di Chiamami col tuo nome, l’ultimo e il migliore tassello della composizione triadica firmata da Luca Guadagnino. Preceduta da Io sono l’amore (2009) e A bigger splash (2015), quest’opera si mostra più completa delle prime poiché riesce a far assurgere il desiderio, tema al quale il regista stesso dichiara di dedicare i tre film, al sentimento amoroso.

Oliver (Armie Hammer) è un giovane e statuario allievo del prof. Perlman (Michael Stuhlbarg), il padre di Elio, che arriva dagli Stati Uniti per trascorrere l’estate in Italia dietro invito del maestro. “Sicuro di sé” – come intercetta al primo sguardo Elio – snocciola l’etimologia della parola albicocca col gusto di chi sa assaporare il viaggio che possono percorrere le cose, oltre alle persone.

Elio (Timothée Chalamet) è un diciassettenne pieno di passione per la musica, i romanzi, la natura. Si respira in casa un piacere accattivante, che è quello della cultura. Non nella versione imputridita e ottusa, diffusa dal discorso corrente che inneggia all’odio per gli intellettuali, bensì in quella sublime per cui la cultura è una scoperta, un godimento tutto da condividere. Anche all’aria aperta – le scene della campagna lombarda sono di raro pregio – o negli abissi del mare, da dove emerge una splendida statua che il professore, Oliver ed Elio, vanno a osservare emozionati. Le sculture greche, i corpi scolpiti pieni di curvature, sono così vividi che è “come se ci sfidassero a desiderarli” – dice il professore, che quella sfida non l’ha mai raccolta ma sublimata. Sa bene che è una sfida che rovescia ogni certezza. “Come se si potesse scegliere in amore, come se non fosse un fulmine che ti spezza le ossa e ti lascia lungo disteso in mezzo al cortile. Tu dirai che la scelgono perché-la-amano, io invece credo che avvenga tutto all’aicsevor. Beatrice non la si sceglie, Giulietta non la si sceglie. Tu non scegli la pioggia che t’inzupperà le ossa all’uscita di un concerto” (Cortazar).

Il pregio di questo film è quello di non essere un “film gay”, di riuscire piuttosto a sganciarsi dagli stereotipi del film di genere, con le sue inevitabili cadute nell’ovvio: solite richieste di diritti, invitanti scene di sesso, drammi sconfinati, incomprensioni, paure e, gran finale: scontro esiziale coi genitori. Qui non c’è nulla di tutto questo, soprattutto perché il film non si limita alla superficie del desiderio, come invece si limitava (seppur nella ricercata versione à la Andy Warhol “sono una persona profondamente superficiale”) A bigger splash. E non cerca neanche il ribaltamento nella fuga dalla vita precedente verso la via tracciata dal desiderio, come in Io sono l’amore. Qui l’amicizia, il desiderio, la paura, l’amore e la perdita sono vissuti a pieno.

Guadagnino è il migliore erede di Visconti con cui condivide alcuni temi centrali: lo scenario alto borghese colto, il desiderio e gli sconvolgimenti che produce, l’omosessualità, come in Gruppo di famiglia in un interno o Morte a Venezia. Ma rispetto al maestro milanese non cede al pessimismo. Come nello straordinario monologo finale del padre di Elio, l’invito è quello di vivere tutto, anche il dolore, di non lasciarlo avvizzire come se avesse scritto sopra il nome del male, perché il dolore è, in verità, il segno dell’amore.

Al femminile questo film ha, forse, un solo, meno brillante, parallelo: La belle saison (2015). Ma mentre lì lo scontro familiare diventa centrale, qui è evaso. Sarebbe molto incoraggiante poter affermare che è la cultura, ad esempio quella classica, per tutti gli esempi che offre, ad agevolare la comprensione e inverare la nota massima: “sono un essere umano, nulla di ciò che è umano lo ritengo estraneo a me”.
Ma non è di certo in senso elitistico che questo va inteso. Non c’è cultura alta o bassa, apocalittici o integrati, poiché, dichiara Guadagnino in una recente intervista,

La cultura è l’elemento complesso che rende la nostra vita ciò che è, che include tutto. Un discorso. Il corpo di qualcuno che desideri. La musica dei Talking Heads. Le foglie su un albero. Qualunque cosa. Sarebbe un grande errore per noi come persone, e per me come regista, dire che essere investiti nel mondo classico significa non essere investiti nel mondo reale. Entrambi sono parte del mondo in generale

Questo intreccio Guadagnino lo sa far splendere magistralmente attraverso la musica, da Ryuichi Sakamoto (M.A.Y. in the Backyard e Germination) a Loredana Bertè (J’adore Venise), col contributo insostituibile del genio di Sufjan Stevens (Mystery of Love e Visions of Gideon) e quello di John Adams (Hallelujah Junction). Ma soprattutto con l’inno synth-pop su cui Oliver ama ballare e farsi desiderare da Elio intonando “Love my way, it’s a new road”!

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