Malati di terrore

di Stefano Tieri11.9

A un certo punto la figlia del re si azzarda a sedersi sul dorso del toro, senza sospettare di chi sia in verità. Allora il dio, allontanandosi con fare indifferente dalla terra e dalla spiaggia asciutta, comincia a imprimere le sue false orme sulla battigia, poi va più avanti, poi si porta via la preda sull’acqua in mezzo al mare.
Lei è piena di spavento, e si volge a guardare la riva ormai lontana. La destra stringe un corno, la sinistra è poggiata sulla groppa. Tremolando le vesti si gonfiano alla brezza.
(Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, libro II, vv. 868-875, trad. Piero Bernardini Marzolla)

I versi del poeta latino raccontano, con agili pennellate, la storia di Europa, figlia del re fenicio Agènore, rapita da Giove, re degli dei, dopo aver assunto forma taurina per riuscire ad avvicinare (e rapire) la fanciulla, di cui si era infatuato. Ostaggio, nella narrazione mitica, del padre degli dei, oggi l’Europa – a ben vedere – è rapita e ostaggio di se stessa: preda di paure che ne ridisegnano i confini, ne ripensano le politiche comunitarie e nazionali, normalizzando giorno dopo giorno gli stati di emergenza e puntando a garantire la sempre più invocata “sicurezza”, quale che ne sia il costo in termini di libertà. La paura sembra allora essere connaturata al vecchio continente fin nella sua dimensione mitica: se Giove, tramite il rapimento di Europa, mostrava il suo volto più spaventoso, oggi è invece il terrore proveniente dagli attentati jihadisti a venire “divinizzato” – in un meccanismo che porta infine a considerare dèi gli stessi terroristi.

Si sono date molte letture delle motivazioni che hanno spinto questi giovani jihadisti a rinnegare i paesi in cui erano spesso nati e cresciuti, giungendo al gesto estremo di togliersi la vita al fine di uccidere più persone possibili: si è voluto vedere nella loro scelta una “rivolta generazionale” che li ha messi contro i genitori (musulmani moderati); o ancora una ribellione contro una società che non era in grado di offrire loro un futuro né di integrarli nel tessuto sociale; si è puntato il dito sulla loro opposizione nei confronti della cultura laica occidentale (soprattutto francese); oppure verso il loro profondo nichilismo, così lontano dalla narrazione che i jihadisti danno di sé, nel momento in cui si identificano come il braccio armato di Allah; c’è stato poi chi, ancora, ha voluto scorgere nei terroristi disturbi di natura psichica.

In questa pluralità di interpretazioni le motivazioni profonde restano, in larga parte, oscure: quasi che l’Occidente secolarizzato fosse destinato a rimanere bloccato – terrorizzato – dinanzi a una simile dimestichezza con la morte. Forse perché il suo campo d’indagine risulta estraneo a questo genere di situazioni: “Il sacrificio non è altro, nel senso etimologico della parola, che la produzione di cose sacre”, osservava il filosofo George Bataille nel celebre saggio sulla nozione di dépense. Ed è recuperando questo concetto che forse potremo iniziare a chiarire il perché un simile sacrificio ci terrorizzi. “L’attività umana – scrive Bataille – non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione”: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, i giochi, le arti, l’attività sessuale (almeno quella che non abbia finalità riproduttive), sono tutte attività improduttive, che disperdono energia e che si fondano su una perdita (la dépense, appunto), la quale “dev’essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il suo vero senso”. Un simile dispendio non rimane, però, senza contropartita: il guadagno riguarda beni tutt’altro che materiali – come la nobiltà, l’onore, il rango della gerarchia. Nel momento in cui, nell’ambito del potlàc, un capo tlingit si presenta davanti al rivale per sgozzare qualche suo schiavo dinanzi a lui (una distruzione che dovrà essere “ricambiata” successivamente, in un rilancio continuo), con un tale gesto distruttivo si vuole dimostrare la propria forza, il proprio valore, in una forma che così raggiunge – osserva ancora Bataille – il “sacrificio religioso”.

Rispetto a questo genere di pratiche, il sacrificio terroristico compie un ulteriore passo: quando lo jihadista si fa saltare in aria non sta sacrificando solo dei beni materiali, ma la sua stessa vita – quel bene ritenuto, dalla cultura secolarizzata in cui ci troviamo, il bene maggiore, poiché il senso delle nostre esistenze, avendo abolito ogni “mondo dietro al mondo”, si racchiude tutto nella vita stessa. Un simile gesto, letto secondo le nostre griglie interpretative, non può che portare – paradossalmente – alla divinizzazione dei jihadisti: nel momento in cui si è disposti a sacrificare se stessi, in un gesto che rimane in fondo oscuro e senza chiara o sufficiente motivazione (al punto da scomodare negli “esperti”, come abbiamo visto, la scusa sempreverde della follia), ci si sta collocando in un senso che va oltre la vita, oltre la dimensione strettamente umana. Si diventa protagonisti di un disegno divino, e al tempo stesso dèi: la figura di Cristo, disposto a sacrificare la propria vita per affermare in ultima istanza la verità che diceva di essere (Giovanni 14:6), torna qui alla mente in tutta la sua forza simbolica.

L’errore di fondo forse sta, come accennato prima, al modo in cui leggiamo e interpretiamo simili gesti: il terrore deriva soprattutto dal vedere persone disposte a tutto (al sacrificio di sé) pur di uccidere l’altro. Il problema sta in quel “tutto”: se inseriti in una narrazione che considera questa vita soltanto la pallida copia del vero o, per dirla in termini escatologici, l’anticamera di un’ulteriore esistenza (secondo una tradizione che viene fatta risalire al mondo platonico delle idee e che ingloba anche il cristianesimo), la nostra vita, quella che viviamo ogni giorno, ne esce infinitamente svalutata – specie se già condotta in assoluta precarietà, senza garanzie sociali ed economiche, con in più lo stigma della discriminazione, come è accaduto per molti di quegli “immigrati di seconda generazione” divenuti poi terroristi. La forza esercitata su di noi, allora, proviene anche da una deformazione nel modo di interpretare le esistenze e le decisioni dei jihadisti, nel sopravvalutare il valore dato loro a questa vita – il che porta ad aumentare gli effetti psicologici sul loro obiettivo principale, noi: noi benestanti, laici occidentali, abituati ormai a vedere guerra e devastazione in maniera filtrata e distante, soltanto su web e televisione.

È infine proprio ai mass media (ai social network senza dubbio, ma anche a televisione e giornali) che ci dovremmo rivolgere se volessimo identificare un’altra causa di questo processo psicologico: se il terrore attecchisce è anche in virtù dello spazio e dei toni assegnati agli attentati all’interno delle narrazioni giornalistiche, in un circolo vizioso che produce dal terrore ulteriore terrore, fino a portare a psicosi collettive che finiscono per vedere jihadisti e pacchi-bomba un po’ ovunque. Una soluzione potrebbe allora essere (anche se in questo caso la finalità era diversa) quella prospettata dal quotidiano francese Le Monde, che ha deciso di auto-censurarsi, non dando risalto alle figure dei terroristi, per non contribuire alla loro glorificazione postuma. Ma siamo poi sicuri che, “silenziando” il discorso, i suoi effetti perversi cesserebbero?

In fondo, come ha osservato Marshall McLuhan, i media sono estensioni di noi stessi: se le notizie degli attentati vengono tanto seguite, non è solo per l’enfasi e lo spazio loro assegnati all’interno di quotidiani e telegiornali. C’è qualcos’altro che ci riguarda da vicino, e coinvolge i nostri desideri e paure. È allora forse verso di noi che dovremmo rivolgere la nostra attenzione, interrogandoci sugli stati d’animo a cui siamo soggetti mentre guardiamo il video di uno jihadista in azione (o ne leggiamo le gesta), e alla pulsione – quasi una fame di sapere – che ci spinge ogniqualvolta veniamo a conoscenza di un nuovo attentato. Esiste in noi una pulsione che aspetta, messianicamente, la nuova disgrazia? Come se le narrazioni sul crollo inevitabile dell’Europa, infine, ci avessero profondamente convinto, e non aspettassimo altro che l’ennesimo simbolo tangibile della fine del “vecchio continente”.

6 COMMENTS

    • No, esattamente come la gran parte di coloro che si “radicalizzano” nel giro di un fine settimana – e che ugualmente decidono di compiere un attentato pensando di interpretare nel modo corretto un testo complesso e sfaccettato quanto il Corano. Questo per dire che l’oggetto dell’articolo non riguarda il testo sacro dei musulmani: credo, insomma, che lo jihadismo abbia poco a che vedere col Corano, e concordo con Olivier Roy quando afferma che siamo dinanzi a una islamizzazione (compiuta in fretta e furia) del radicalismo, e non a una radicalizzazione dell’islamismo.
      Detto ciò, come mai questa domanda?

        • Sabrina, ha letto quanto ho scritto in risposta alla sua domanda? O si è fermata alla prima parola della risposta, o non è stata in grado di comprenderne i contenuti. Qui nessuno ha voluto parlare (nemmeno lontanamente) del Corano, per i motivi già detti.
          Lei forse potrà pensare che i giovani jihadisti che vanno a radicalizzarsi in Siria e in Iraq abbiano alla base dei loro comportamenti una spinta profondamente religiosa (in questo caso leggere il Corano potrebbe avere qualche senso per comprendere le loro gesta); io (e non solo io, prima per esempio avevo riportato il parere di Olivier Roy) credo invece che le cose stiano diversamente.

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