Merleau-Ponty davanti allo specchio

di Stefano Tieri

Un uomo cammina lungo una strada assordante e affollata del centro. Che cosa vedono i suoi occhi? Sagome di persone per lui senza identità, che appaiono e scompaiono dal suo campo visivo con la stessa rapidità delle autovetture sfreccianti a lato del marciapiede.

Smosso, ad un tratto, da una forte raffica di vento, nel momento in cui respira quel soffio entra in lui, gelandogli i polmoni; barcolla e colpisce accidentalmente una passante; anche lei, camminando sulla medesima strada, ha sentito sulla sua pelle il soffio del vento (già soffio dell’uomo?), entrato e uscito da lei mentre respirava; anche lei è finita addosso ad un passante, di cui fino ad un istante prima ignorava l’esistenza. Eppure c’era, eppure c’erano entrambi, ed in quel respiro1 di vento è racchiusa la loro conoscenza.

Per Jean-Paul Sartre nessuna sintesi è possibile nel rapporto io-l’altro. Nelle pagine de L’essere e il nulla dedicate allo sguardo viene affermato piuttosto chiaramente: «l’altro può esistere per noi sotto due aspetti: se lo sento con evidenza, non riesco a riconoscerlo; se lo conosco, se agisco su di lui, raggiungo solo il suo essere-oggetto e la sua esistenza probabile nel mondo; nessuna sintesi di queste due forme è possibile»2. O divento soggetto nei riguardi dell’altro, e pertanto lo oggettifico riuscendo a comprendere di lui solamente la sua natura d’oggetto, o vengo io stesso oggettificato dal suo sguardo, vengo “conosciuto” in quanto oggetto. Soggetto e oggetto, insomma, restano nettamente separati, due universi scissi l’uno dall’altro, due prospettive non conciliabili, avversarie, ognuna in grado di affermarsi solamente nel momento in cui riesce a sottomettere l’altra.

Tutta la tradizione filosofica occidentale si è mossa sulla strada tracciata da questa contrapposizione binaria. Mi si conceda, qui, una piccola divagazione: evocando la tradizione filosofica occidentale viene chiamata in causa, di conseguenza, quella orientale. Possiamo quindi dedurne che in Maurice Merleau-Ponty siano presenti aspetti di questo pensiero? La considerazione non appare troppo errata, se è vero che – come nota Giorgio Colli nella sua tesi di laurea – «l’indistinzione tra materia e spirito» è «una caratteristica del misticismo, per esempio indiano»3. Poco più avanti affermerà che il principio capitale della conoscenza mistica è «la coincidenza del soggetto intuente con l’oggetto della sua intuizione»4. Le due opposizioni – la dualità di corpo e spirito e quella di soggetto e oggetto – sono, anche nel pensiero di René Descartes (“padre” della filosofia occidentale moderna), intimamente connesse: la soggettività, infatti, si costituirebbe sulla base e per mezzo della consapevolezza d’essere, ancor prima che corpo (la cui certezza si raggiungerà, all’interno delle Meditazioni metafisiche, solamente in un secondo momento), un ente pensante – «hæc cognitio, ego cogito, ergo sum, est omnium prima et certissima, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat»5.

Sebbene Merleau-Ponty tenga a precisare che «non c’è coincidenza del vedente e del visibile»6, e che «ciascuno attinge all’altro […], si incrocia con l’altro, è in chiasma con l’altro»7, la distanza non è poi troppa: vedente e visibile, in quanto reciproci l’uno dell’altro, formano comunque un’unità (quella che Merleau-Ponty chiama “carne”). Stesso dicasi per il corpo e lo spirito: «Definire lo spirito come l’altra faccia del corpo – Noi non abbiamo idea di uno spirito che non sia sotteso da un corpo»8.

Non a caso Merleau-Ponty, in una nota di lavoro de Il visibile e l’insibile, scrive che il problema io-l’altro (la cui formula diviene «insufficiente»9, incapace di racchiudere la reciprocità dei rapporti umani) è un «problema occidentale»10. Eppure, ci suggerisce il filosofo francese, il medesimo è «l’altro dell’altro»11, l’identità è «differenza di differenza»12: noi stessi siamo l’altro, ed in questo senso comprendiamo come l’altro sia il medesimo. C’è un modo per sperimentare il ribaltamento della dicotomia soggetto-oggetto, per riuscire a superarla nel chiasma di percipiente e percepito: guardarsi allo specchio.

Lì davanti è me stesso che vedo specchiato, l’immagine è al di fuori di me e abita la superficie riflettente: «Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne, e contemporaneamente tutto l’invisibile del mio corpo può investire gli altri corpi che vedo»13.

Lo specchio mi mostra, mostra me (il mio essere nel mondo) vedente me, mostra l’io-me al tempo stesso soggetto e oggetto di uno sguardo (il mio? quello dello specchio?). Mostrandomi nell’azione di vedere, lo specchio proietta l’immagine di me vedente (della cui azione ho esperienza diretta: so cosa vuol dire, per me, vedere) “fuori” da me, e così mi mostra come il vedere, lo sguardo (il mio che è anche quello dello specchio) si diffonda e abiti il mondo; mi mostra come ogni cosa guardi, esattamente come me: qui sta il chiasma. Al tempo stesso faccio mio lo sguardo dello specchio, poiché vedo (oltre a quello che mi è davanti, ovvero lo specchio stesso) anche alle mie spalle: sono vedente e visto, faccio mie due prospettive insieme, due sguardi.

Lo specchio proietta “fuori” da me il mio vedere, il quale al tempo stesso ritorna su di me; il movimento è doppio14 e, nonostante ciò, sincrono: il mio sguardo va allo specchio nello stesso istante in cui lo specchio mi rivolge lo sguardo (evento impossibile per un cartesiano, per il quale «l’immagine speculare non è niente di lui»15 e costituisce solamente un “manichino”). In questo modo ho esperienza diretta di vedere e di essere visto – insieme: la superficie dello specchio è la punta del guanto nell’atto di rivoltarsi16.

In ultimo il “fuori” manifesta il significato delle virgolette che lo cingono: il “dentro” è della sua stessa sostanza (quella della carne), l’uno è l’altra faccia dell’altro.

Ma torniamo ora all’uomo sulla strada. Guardandolo più da vicino riusciamo a riconoscerlo, grazie al prominente naso: è proprio Maurice Merleau-Ponty, che passeggia sul boulevard Haussmann nella Parigi degli anni ’50. Che cosa vedono i suoi occhi? Un’estensione, un prolungamento della propria carne; nel prossimo il filosofo francese vede, insomma, se stesso: «il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede ancora se stesso: c’è un narcisismo fondamentale di ogni visione»17. È se stesso che cerca nell’altro, il quale cessa quindi d’essere altro e diviene medesimo: «vedente e visibile entrano in un rapporto di reciprocità e non si sa più chi vede e chi è visto. È proprio questa Visibilità […] che prima chiamavamo carne»18.

Qual è pertanto la funzione dell’altro, se non d’essere… specchio? «l’uomo è specchio per l’uomo»19, sentenzia Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito. Sarebbe sbagliato, però, nel momento in cui si ritiene l’altro uno specchio, concepire se stesso diversamente, proprio in virtù della reciprocità che caratterizza quest’idea di visione (se così non fosse avremmo, da una parte, un soggetto di cui tutto sarebbe solamente riflesso). All’incontro di due uomini, sono perciò due specchi ad incrociarsi. Due specchi paralleli che rimandano l’uno l’immagine dell’altro, all’infinito: da quale dei due proviene l’immagine? In quale dei due bisogna cercarne l’origine? La domanda non ha senso: «su due specchi prospicienti nascono due serie indefinite di immagini racchiuse l’una nell’altra, giacché ciascuna non è se non la replica dell’altra, che quindi fanno coppia, una coppia più reale di ciascuna di esse»20.

Ecco la Visibilità «anonima»21 (senza nome e che pertanto non costituisce soggetto) la quale abita entrambi, l’apertura all’essere (un essere «che contiene anche la sua negazione, il suo percipi»22): con la reversibilità del visibile (e, analogamente, del tangibile) «ciò che ci è aperto è […] un essere intercorporeo, un ambito presuntivo del visibile e del tangibile, che si estende oltre le cose che io tocco e vedo attualmente»23.

La visibilità, nella nostra società, è però un’altra cosa. L’invisibile non costituisce più la profondità del visibile: i due aspetti, nettamente separati, mettono in moto quella macchina ottica i cui meccanismi sono stati così bene dispiegati da Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Siamo all’interno di un Panopticon, strumento di prigionia che dissocia «la coppia vedere-essere visti»24: da una parte la visibilità totale (nella quale è collocato il detenuto), dall’altra l’invisibilità totale (da cui sorveglia il guardiano). All’interno di questo regime di visibilità (a cui potremmo accompagnare, oggi, l’aggettivo “mediatico”), nel momento in cui cerchiamo questa stessa visibilità (poiché non riusciamo, da drogati quali siamo, a farne a meno), ne siamo – al tempo stesso – assoggettati.

Questa visibilità ricercata ad ogni costo è doppiamente assoggettante: poiché da una parte la partecipazione costante e attiva dell’individuo (il quale continua ad essere soggetto e oggetto, con i due aspetti compresenti ma separati l’uno dall’altro), fa sì che egli si formi quale eternamente visibile e, al tempo stesso, “panottico”; dall’altra, in un circuito di visibilità diffusa, la partecipazione al gioco è fortemente richiesta – quasi obbligata – da quella altrui, in una pressione che si fa eccessiva nel momento in cui finisce per imporsi la “verità” che essere è essere visti, essere presenti. La dimensione dell’intersoggettività, lungi dal permettere un superamento del soggettivismo in cui è vincolato l’individuo occidentale moderno, si mette così al servizio della soggettivazione e del dominio “volontarî”, l’uno per mezzo dell’altro.

Un esempio emblematico di questo processo può essere individuato nel funzionamento dei social network: qui i legami di soggettivazione, mascherati da richieste d’amicizia, poke, tweet, assumono consistenza visibile, laddove a questo visibile viene dato il carattere della propria vita. Ogni esperienza risulta essere tale solamente se comunicabile in un determinato numero di caratteri, racchiuso in una fotografia di una certa risoluzione, se la sua colonna sonora può essere rintracciabile su youtube – e da lì condivisa con il circuito di “amici”. Ultimo (ed estremo) risultato di una concezione che ritiene il visibile (anche se virtuale) l’unico esistente possibile, o piuttosto ulteriore propulsore di questa concezione (sempre che un’ipotesi debba escludere l’altra)?

Questo modo di pensare il vedere (che potremmo accostare al «pensiero di vedere»25, proprio della filosofia cartesiana messa in discussione da Merleau-Ponty26) ha come carattere preminente – come unico ed assoluto carattere? – non la visibilità, l’immersione nella carne, bensì il sapere. Ritorna la domanda già precedentemente posta: può essere diversamente all’interno di una filosofia occidentale? Ci risponde Derrida: «Idein, eidos, idea: tutta la storia, tutta la semantica dell’idea europea, nella sua genealogia greca, lo si sa, lo si vede, assegna il vedere al sapere»27. È il voler sapere (il quale si manifesta tramite il voler vedere) che ci spinge a prendere parte al gioco perverso dei social network, ed è sempre il desiderio di sapere che ci obbliga ad un monitoraggio continuo e costante delle operazioni altrui (le quali, come si diceva, racchiudono – o hanno l’intenzione di racchiudere – la vita di ognuno).

Quello che possiamo fare, seguendo il pensiero di Merleau-Ponty, è ribaltare la concezione di visibilità “pura” e “positiva”, per scoprirvi l’invisibilità sottesa ad essa. Siamo sempre all’interno del campo di visibilità (siamo visibili proprio perché vediamo), sia quando recitiamo sul palcoscenico della nostra vita che quando ci rinchiudiamo nella solitudine delle nostre stanze: non occorre perciò cercarla in modo spasmodico, costruire artificiosamente un’immagine di noi persino quando siamo “assenti” dal mondo (è sempre tramite i social network, ad esempio, che la nostra assenza può trasformarsi in presenza), per divenire in seguito schiavi di questa immagine costruita.

No: noi siamo anche la nostra assenza, il nostro silenzio, il buio di una notte senza stelle. Siamo anche il “soggetto” che rifiuta lo statuto ontologico di soggetto.

Tramite l’idea di visibilità messa in gioco da Merleau-Ponty, nella quale non sappiamo più chi vede e chi è visto, noi non “usciamo” dalla visibilità (sarebbe, come si diceva, impossibile) ma la impariamo ad abitare in modo diverso: «non c’è problema dell’alter ego perché non sono io a vedere, non è lui a vedere, perché ci abita entrambi una visibilità anonima, una visione in generale, in virtù della proprietà primordiale della carne di irradiarsi ovunque e per sempre pur essendo qui e ora, di essere dimensione e universalità pur essendo individuo»28. Lo sguardo non mi assoggetta poiché non c’è più un soggetto dietro a quello sguardo. O, meglio, non c’è un soggetto a me alieno, che non faccia parte cioè di quella stessa carne cui appartengo anch’io.

Note

1 L’apologo non è scelto a caso: Merleau-Ponty, descrivendo l’opera dei pittori (molti dei quali hanno detto di essersi sentiti guardati da ciò che stavano ritraendo), parla di «inspirazione ed espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere» (Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Salerio Editore, Milano, 1989, p. 26).

2 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano, 2002, p. 350.

3 Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2009, p. 65.

4 ibidem, p. 66.

5 «Pertanto questa conoscenza: io penso, dunque sono, è la prima e la più certa di tutte che venga alla mente di chiunque filosofi con ordine» (René Descartes, I principi della filosofia, in Opere filosofiche di René Descartes, UTET, Torino, 1994, vol. II, p.72).

6 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2009, p. 272.

7 ivi.

8 ibidem, p. 270.

9 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 234.

10 ibidem, p. 235.

11 ibidem, p. 275.

12 ivi.

13 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 27.

14 «il corpo sentito e il corpo senziente sono come il diritto e il rovescio o, anche, come due segmenti di un unico percorso circolare che, in alto, va da sinistra a destra e, in basso, da destra a sinistra, ma che è un unico movimento nelle sue due fasi» (Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 154).

15 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 30.

16 Alludo qui ad un ulteriore esempio di chiasma messo in gioco da Merleau-Ponty, stavolta inerente non al senso della vista ma a quello del tatto: «Reversibilità: il dito del guanto che si rivolta – Non c’è bisogno di uno spettatore che sia dalle 2 parti. Basta che, da una parte, io veda il rovescio del guanto che si applica sul diritto, che io tocchi l’uno mediante l’altro (doppia “rappresentazione” di un punto o piano del campo) il chiasma è questo: la reversibilità» (Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 274).

17 ibidem, p. 155.

18 ivi.

19 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 27.

20 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 155.

21ibidem, p. 158.

22 ibidem, p. 262.

23 ibidem, p. 159.

24 Micheal Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, p. 220.

25 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 225.

26 Descartes, per Merleau-Ponty,“sorvola” il visibile, rinuncia ad abitarlo e lo ricostruisce secondo il modello che se ne crea: il suo vedere è in realtà un «pensiero di vedere».

27 Jacques Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano, p. 23.

28 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 158.

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