Mito e tradizione

di Eleonora Zeper

Elihu_Vedder_-_The_Pleiades,_1885

Cosa crediamo oggi che sia il mito? Quello degli ‘antichi’ ci pare qualcosa di vicino ad una favola, quello dei nostri giorni è, in genere, elemento di coesione, fattore identitario o semplice fissazione propria di una generazione o di un’epoca: mito è infatti un termine che viene spesso impiegato, ancorché nell’accezione di ‘miti d’oggi’, con una punta di disprezzo in riferimento a chi, privo di spirito critico, finisce per seguire uno di questi miti moderni.

Partiamo dall’ossimoro del titolo ‘miti d’oggi’. Il racconto mitico è per definizione un racconto di eventi che si pongono al di fuori del tempo storico. Un mito che oggi è mito e domani non lo è più, non è un mito: parlando di ‘miti d’oggi’ si fa un uso provocante di un termine volto a denunciare il rovesciamento di cui è stato vittima.

L’opposizione che viene insegnata tuttora nelle scuole è quella classica di ascendenza positivista: il logos filosofico greco si oppone al racconto religioso, al mythos appunto. Per quanto possa variare il riconoscimento del valore del mythos da parte di chi se ne occupa – da pura superstizione da popoli giovani a forma immaginifica e acerba di conoscenza – ci viene insegnato pressoché sempre che la filosofia inizia con il rovesciamento del racconto religioso, con un nuovo interrogarsi sulla sua presunta assurdità. I primi filosofi scardinerebbero l’autorità religiosa tradizionale in virtù del libero sforzo intellettuale dell’individuo. Ma si tratta solo di trasposizioni: sminuendo il pensiero mitico l’uomo moderno interpreta la storia, la giudica e, così facendo, tenta di giustificare, assolutizzandolo, il proprio modo di essere e di conoscere. L’opposizione mythos-logos – intesa come religione-filosofia, autorità tradizionale-pensiero individuale e poi perfino schiavitù-libertà – riguarda solo l’uomo moderno, è una forma di autorappresentazione legata alla pretesa di non essere nano sulle spalle di giganti. Sappiamo infatti che in Occidente la commistione fra pensiero mitico e pensiero filosofico rimane continua fino all’avvento della modernità: pare trattarsi però di un dato che nella nostra cultura sia necessario rimuovere dalla coscienza comune. Il fatto che la storia delle religioni non venga insegnata nelle scuole e quasi nemmeno più nelle università è indice di questa rimozione forzata per la quale il mito è etichettato come pensiero bambino e il fenomeno religioso deprezzato a fatto intimistico.

Il mito è invece, secondo le parole di Ananda Coomaraswami, «verità penultima di cui ogni esperienza è riflesso temporale». Il mito è quel modello eterno al quale l’esperienza umana si accosta, e quanto più vi si accosta tanto più aumenta il livello di realtà di tale esperienza. Il racconto mitico è qualcosa di simile a un’idea platonica, un’idea della quale le cose che conosciamo, le situazioni che viviamo, sono riproduzioni imperfette. Allo stesso tempo, però, i miti si discostano dalle idee platoniche, poiché, a differenza dalle tendenze dualistiche di un certo platonismo, è difficile che il pensiero per immagini che il mito dispiega condanni in qualche modo la realtà sensibile; la va, invece, facendola rientrare in un paradigma superiore, a illuminare e a valorizzare.

Facciamo un piccolo esempio, semplificando molto. Molte tradizioni parlano della lotta di un dio o di un eroe con un serpente, un drago o un mostro marino, così ad esempio Indra contro Vṛtra, Thor e Miðgarðsormr, Tiamat e Marduk, Yahweh e il Leviatan (rispettivamente facendo riferimento alla tradizione indo-europea nei primi due casi, a quella semitica nei secondi due). Questo mito è in origine un racconto cosmogonico, ci parla dell’avvento del cosmo sul caos, descrive le conoscenze degli antichi sulla nascita del mondo ab aeterno. Il dio o l’eroe demiurgo sconfigge, o tiene a bada per un determinato periodo di tempo, il mostro, con il quale in genere lo lega un certo grado di parentela. Tale mito, però, non manca di una corrispondenza con il microcosmo individuale: si tratta della lotta dell’eroe, dunque dell’uomo d’azione, contro le forze oscure che egli ha dentro, che fanno parte di lui e che è necessario sconfiggere o tenere a bada. Già Jung si è occupato, primo fra gli psicologi della modernità, degli archetipi psicologici presenti nel mito, James Hillmann ha poi proseguito il suo lavoro.

Il mito è dunque strumento di conoscenza intima e allo stesso tempo espressione delle nozioni condivise di un popolo. La lingua del mito è il simbolo, si tratta non di una narrazione allegorica, ma simbolica, non ha un falso significante letterale che vuole far diretto riferimento ad un vero significato recondito. Il grado di verità del mito in se stesso, come ricorda Coomaraswami, è superiore a quello della comune esperienza; di questa, infatti, ci parla, offrendocene un’interpretazione, uno schema di codifica. Come ricorda Pierre Hadot il mito è anche “fisica per immagini” – e in questo sta il suo essere espressione delle conoscenze dell’uomo antico sull’origine della physis – ma può essere anche strumento utile al raggiungimento di una conoscenza metafisica superiore. È descrittivo, in quanto in questo caso ci parla della cosmogonia, ma è anche prescrittivo, in quanto offre delle direttive sia per quanto riguarda le battaglie che il singolo uomo si trova ad affrontare, sia per quanto riguarda quel mesocosmo sociale che l’umanità si trova a dovere instaurare a spese delle forze del caos. Ecco perché, come ha ampiamente dimostrato nei suoi studi Mircea Eliade, ogni rito di fondazione rievoca la cosmogonia, la rappresenta, dal latino repraesentare, “rendere di nuovo presente”.

I miti cosmogonici offrono dunque un insegnamento finale: quello della corrispondenza fra i tre piani, microcosmico, mesocosmico (ossia la società) e macrocosmico. La sapienza ermetica parla così: “Come in alto, così in basso; come dentro, così fuori; come nel grande, così nel piccolo”. Allo stesso modo il Padre Nostro dice “come in cielo, così in terra”.

Il modo moderno di ragionare, come ben aveva capito Ernst Cassirer, non è più simbolico come nel mondo antico, così come la forma di espressione delle nostre conoscenze non procede più per immagini mitiche. T.S. Eliot ricorda come, per comprendere davvero la commedia di Dante, si debba entrare nella mentalità di un’epoca nella quale gli uomini erano ancora capaci di avere delle visioni: l’appello è qui lo stesso. Per recuperare il mito, ossia per recuperare la nostra identità profonda, è necessario fare nel tempo ciò che in genere fa l’antropologo nello spazio per comprendere una cultura differente dalla sua. Nel tempo e fin oltre il tempo. Per poi ritrovarsi dunque a nuovo paradosso: per recuperare la propria identità, bisogna sapersene spogliare come per comprendere il nostro tempo, il paradigma senza tempo del mito può continuare ad essere un buon aiuto.

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