Narciso e Medusa: lo sguardo creatore e lo sguardo pietrificante

di Stefania Damiani

L’idea del Panopticon nasce, nel 1787, nella mente del padre dell’utilitarismo classico, Jeremy Bentham, come “una semplice idea architettonica” capace di attuare grandi progressi: “La morale riformata, la salute preservata, l’industria rinvigorita, l’istruzione diffusa, le cariche pubbliche alleggerite, l’economia stabile come su di una roccia, il nodo gordiano delle leggi d’assistenza pubblica non tagliato, ma sciolto – tutto questo con una semplice idea architettonica.” 1

Già Bentham sembra intuire qual è la vera posta in gioco del Panopticon, analizzata poi in tutta la sua portata da Foucault, quando afferma che esso può divenire “un nuovo modo di ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente”. 2

Lo sguardo del sorvegliante è perennemente presente a controllare, giudicare e punire: questo sguardo che sorveglia (molto) e punisce (poco) crea nei carcerati una nuova “coscienza”, rendendoli uomini che non solo non compiono il male, ma che non vogliono (o non possono) più compierlo.

Bentham stesso aveva rilevato come lo sguardo del sorvegliante, nonostante dovesse essere effettivamente presente nella maggior parte del tempo, potesse essere tuttavia una semplice supposizione da parte dei carcerati. Non importa che l’occhio del sorvegliante sia sempre rivolto verso i detenuti, ciò che è importante è che i carcerati lo ritengano tale.

Foucault attua il passo successivo: lo sguardo del sorvegliante non esiste. La terribile realtà del Panopticon consiste nel fatto che esso funziona anche quando nella torretta non c’è nessuno. Lo sguardo diventa incorporeo ma ottiene concreti effetti di potere.

Quello che Foucault ci dice è che questi effetti di potere sono nientemeno che la creazione della soggettività, dell’interiorità degli individui: nella società disciplinare la soggettività dell’uomo è creata a partire dalle discipline in cui è immerso: la sorveglianza, la confessione, la medicalizzazione, creano quel soggetto che è invece convinto di rivolgere loro la proprio interiorità pre-esistente.

Ma lo sguardo del Panopticon è davvero uno sguardo che soggettivizza? È quindi uno sguardo creativo, che crea l’interiorità degli individui allo stesso modo della confessione?

Il Panopticon è indubitabilmente un dispositivo di individualizzazione: “tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzabile e costantemente visibile”. 3 Eppure in Sorvegliare e Punire Foucault parla di silhouettes 4 che il sorvegliante vede dalla torre centrale; questo più che a un soggetto la cui interiorità viene continuamente creata, fa pensare ad un manichino a cui si chiede solamente una conformità esteriore alle regole cui è sottoposto.

Lo sguardo del Panopticon sarebbe in questo caso medusizzante, più che creativo, uno sguardo coercitivo, che controlla il comportamento senza poter entrare nell’”anima”.

Eppure, nel passaggio dalla sorveglianza all’autosorveglianza è inevitabilmente in atto un forte processo di soggettivazione: viene creato un soggetto capace di autocoercizione, di autocontrollo, di autodisciplina.

Lo sguardo del Panopticon è creativo, in quanto crea una soggettività, ma pietrifica in quella creazione, i detenuti non potranno mai essere altro da quello.

I detenuti del Panopticon possono rendersi conto che nella torretta che li sovrasta non c’è nessuno? Se scoprissero l’inesistenza del sorvegliante, se si accorgessero che il posto di dio è vuoto, cosa accadrebbe? Forse si accorgerebbero che in quel posto non ci sono che loro stessi: nessuno li sorveglia, semplicemente si auto-sorvegliano.

Possono allora liberarsi dallo sguardo medusizzante che, sorvegliando ogni loro comportamento, li crea a suo piacere, pietrificandoli in determinate soggettività?

Se il sorvegliante non esiste, l’occhio di Medusa perde ogni potere di pietrificazione, e il proprio sguardo su se stessi può davvero divenire creativo.

Ma il detenuto può davvero occupare il posto del sorvegliante e guardarsi continuamente, creandosi? Non diviene questo uno sguardo puramente narcisistico, e quindi in qualche modo nuovamente pietrificante, in quanto rinchiude il soggetto in un gioco solipsistico con la propria immagine?

NARCISOLacan insegna che l’immagine unitaria che lo specchio ci riflette è un’immagine con un alto potere di fascinazione ma, per quanto necessaria, totalmente illusoria, catturante, e per questo pericolosa. Io-nello-specchio sono sempre fasullo, perché appaio come un’unità laddove invece non sono che scissione e mancanza. L’uomo che rimane catturato nella propria immagine allo specchio è condannato alla stessa sorte di Narciso, condannato alla perdita di sé, alla follia. Come ricorda Paolo Gambazzi,5 in Ovidio l’oracolo annuncia che l’unica possibilità di salvezza per Narciso è quella di non conoscersi. Ma in realtà, sottolinea Gambazzi, Narciso non si perde nel momento in cui vede la propria immagine riflessa; Narciso “si perde perché incontrandosi non si vede”6.

Nello specchio ti crei, sì, ma ti crei in un’unità che tu non sei.

Il vero sguardo creativo deve quindi passare attraverso lo sguardo dell’altro, che non può quindi essere lo sguardo pietrificante di Sartre, del passante che sorprende il voyeur abbassato verso il buco della serratura.

Sebbene l’idea benthamiana, che un solo sguardo possa rendere virtuosi, sia un’illusione tipica dell’illuminismo, la funzione deterrente e di coercizione dello sguardo è evidenziata molto bene da Sartre quando spiega come lo sguardo altrui ci pietrifichi nella vergogna, perché ci rende oggetto per un soggetto che noi non siamo. Lo sguardo altrui non è però necessariamente legato ad un soggetto esistente, può rivelarsi da un frusciare di foglie, o da un rumore di passi, dalla scatoletta di sardine di Lacan o dalla montagna del pittore di Merleau-Ponty.

Quello che Foucault sembra non tenere presente è questa “schisi tra occhio e sguardo”: non è necessario che ci sia un occhio che guarda, perché vi sia uno sguardo.

L’occhio del sorvegliante non ti guarda, perché nella torretta il sorvegliante non c’è, ma questo non significa che tu non sia guardato: è la torretta stessa che ti guarda.

In questo senso Merleau-Ponty parla di uno sguardo della “carne del mondo”, in cui l’uomo è immerso, di uno sguardo che precede il nostro, di uno sguardo del mondo che avvolge ogni cosa, e di cui l’uomo non è che una protuberanza; lo sguardo dell’uomo emerge da questo sguardo onniavvolgente, non come uno sguardo soggettivo che si pone di fronte all’oggetto-mondo, ma come un oggetto tra gli oggetti, uno sguardo tra gli sguardi, è uno “sguardo che non proviene da nessun luogo e che quindi mi avvolge da ogni parte”7, per cui il pittore può dire che mentre dipinge la montagna è la montagna che lo guarda.

I due termini della coppia soggetto-oggetto, alla base dell’analisi di Sartre, in Merleau-Ponty non solo sono presi in un continuo rovesciamento l’uno nell’altro, ma cadono, vengono meno, seppur in una reversibilità che è “sempre imminente ma mai realizzata di fatto”.8

Io non posso vedermi vedere come non posso toccarmi toccante. Se tocco con la mia mano sinistra la mia mano destra che sta toccando un oggetto, io non sono più toccante, ma toccato. Ma sono toccato dal toccante, che sono sempre io. Questa circolarità rappresenta il “narcisismo fondamentale di ogni visione” per cui “il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede ancora se stesso”,9 e lo può fare perché appartiene egli stesso a quella “carne del mondo” che non può contemplare da una posizione distaccata, ma in cui è completamente immerso.

La possibilità per il soggetto di vedere si fonda sulla visibilità che gli preesiste: posso vedere solo perché sono visibile. Lo sguardo dell’altro (lo sguardo, in generale) è quindi qualcosa di cui non ci si può liberare, è anzi ciò che ci costituisce. Lo sguardo dell’altro è lo spazio che il soggetto dovrà sempre abitare in quanto lo costituisce in quello che esso è per l’altro.

Davanti allo sguardo dell’altro, io non posso che assumere “il mio corpo e lo sguardo altrui posto su questa esteriorità che è me”.10 L’esteriorità che l’altro guarda, questo è quello che sono.

Nello sguardo dell’altro sono racchiuse entrambe le dimensioni: una dimensione creatrice, in quanto l’altro crea un’immagine di me (un’immagine di me per l’altro), e una funzione medusizzante, in quanto quest’immagine che l’altro ha di me, io la sono. Ne sono limitato, la devo abitare.

Ma nell’abitarla mi costituisco anche come libertà. Al di là dello sguardo, non c’è il noumeno, c’è di nuovo lo sguardo: lo sguardo dell’altro su di te e lo sguardo di te sull’altro. L’uomo “isola la funzione dello schermo e ci gioca. L’uomo, infatti, sa usare la maschera come ciò al di là della quale c’è lo sguardo.”11 L’uomo può quindi giocare con le proprie immagini, con le proprie maschere, con i propri travestimenti, non è mai “interamente preso da questa cattura immaginaria”.12

È interessante qui notare la reversibilità dell’espressione “farsi vedere”: io mi faccio vedere da qualcun altro; ma anche: io divento vedere, divento sguardo. La “pulsione scopica” di cui parla Lacan ha infatti due dimensioni: è la pulsione a vedere, ma anche la pulsione a farsi vedere, è il desiderio che là fuori ci sia qualcosa da guardare, ma è anche il desiderio che ci sia qualcosa da guardare, per l’altro, in me (o su di me).

Ritornando quindi al Panopticon, ha forse poco senso per i detenuti cercare di raggiungere la torretta, perché se è vero che tutti vorrebbero ottenere il posto di dio, che tutti vorrebbero farsi puro sguardo, è vero anche che tutti desiderano essere guardati, pena la cancellazione di sé.

Da questo punto di vista forse il Panopticon non è in grado di rappresentare appieno la dimensione della visibilità così come è trattata da Merleau-Ponty e da Lacan: noi non siamo mai sempre sorveglianti e non siamo mai sempre detenuti, ma siamo da entrambe le parti; bisognerebbe abbattere le pareti che impediscono ai detenuti di vedere il sorvegliante, e immaginare una situazione in cui un singolo individuo non solo può vedere da tutte le parti, ma è anche visto da tutte le parti.

La dissociazione della coppia vedere/essere visto, che è alla base della struttura del Panopticon, deve forse essere superata perché si possa comprendere il tema della visibilità in tutta la sua portata, che va ben oltre la dimensione del Panopticon stesso. Lo sguardo non può essere purificato dalla pulsione che gli attribuisce Lacan, uno sguardo puro e assoluto non è possibile.

Zizek in L’universo di Hitchcock afferma che “il vero desiderio di godimento è in funzione già nell’apparato burocratico di Stato che si occupa del soggetto”,13 ricordando come non sia possibile pensare un Panopticon svuotato della pulsione e del desiderio. Lo sguardo puro non è possibile perché, come ricorda sempre Zizek, noi non siamo mai assolti o deresponsabilizzati di fronte a quello che vediamo: tutto quello che si svolge davanti ai nostri occhi è messo in scena solo per soddisfare il nostro desiderio.

Cos’è allora questa società della visibilità, questa società dello spettacolo in cui viviamo? Qual è la visibilità che permea questa società?

Se in un primo momento potrebbe sembrare che teorie come quelle di Merleau-Ponty o di Lacan in qualche modo giustifichino e fondino una dimensione come quella attuale, in cui se non appari non sei, è d’altro canto vero che oggi sembra essersi avviato uno strano processo, per cui la visibilità che costitutivamente avvolge l’uomo sembra non essere più sufficiente. Sembra che si cerchi parossisticamente una nuova e superiore visibilità, una visibilità ossessiva, che non lascia alcuno spazio all’invisibile, alcuno spazio al gioco.

Se è indubitabile che le attuali pratiche di creazione di sé davanti agli specchi e ai palcoscenici che la società offre sono profondamente criticabili, è anche vero che non ci si può sbarazzare facilmente del problema della visibilità che ne sta alla base, che ci costituisce come uomini vedenti e uomini visibili. È facile la critica alla società in cui viviamo, è facile l’elogio dell’ombra e dell’invisibilità, ma nel far questo si dimentica troppo facilmente una cosa, che è invece sottolineata da Zizek: la vera angoscia non è data dallo sguardo del Grande Altro, la vera angoscia non è quella di un mondo panottico che ci guarda in ogni momento, ma nasce dalla sensazione che non ci sia nessuno che ci sta guardando.

Lo spettacolo che noi siamo e che mettiamo in piedi di fronte al mondo perde ogni valore se nessuno lo guarda. Saremmo solo dei “buffoni senza pubblico”.

In fondo, come ricorda Lacan, il “lato onnivoyeur si segnala nella soddisfazione di una donna che si sa guardata, a condizione che non glielo si mostri”.14

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi, meglio ancora se ci guarda senza mostrarcelo; meglio ancora se percepiamo uno sguardo senza vedere l’occhio da cui proviene.

E se l’ossessiva ricerca di visibilità attuale dipendesse dal fatto che l’uomo si è reso conto, infine, che nella torretta non esiste alcun sorvegliante?

D’altronde, l’isteria è possibile solo con un pubblico. Sai cosa ti occorre fare per mantenerla viva. La gente ti incasina con le sue reazioni su come è tanto orribile quello che è accaduto. […]

Vai a come era la vita quando eri una bambina e potevi mangiare solo omogeneizzati. Cammini vacillando fino al tavolino del caffè. Sei sui tuoi piedi e devi barcollare su quelle gambe a salsicciotto, oppure cadere giù. Poi arrivi al tavolo da caffè e sbatti la tua testolina soffice contro lo spigolo. Sei per terra e cavolo, o cavolo, fa male. Però non è niente di tragico fino a che non accorrono mamma e papà. Oh, povera, coraggiosa piccolina. È solo allora che piangi”.15

NOTE

1 J. Bentham, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, Marsilio, Venezia 1982, p.103

2 Ivi, p. 33

3 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 218

4 Ibidem.

5 P. Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 1999

6 Ivi, p. 53

7 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 85

8 Ivi, p. 163

9 Ivi, p. 155

10 Ivi, p. 94

11 J. Lacan, Il seminario, libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Einaudi, Torino 1979, p. 106

12 Ibidem.

13 S. Zizek, L’universo di Hitchcock, a cura di D. Cantone, Mimesis, Milano 2008, p. 31

14 J. Lacan, Il seminario, libro XI, cit. pag. 75

15 C. Palahniuk, Invisible Monster, Mondadori, Milano 2003

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