Fotografare la pandemia: gesto, esperienza, visione

di Laura Rossi

In questo articolo desidero concentrare l’analisi sulla forza dirompente della pratica fotografica, o meglio, del gesto fotografico, come forma extra-linguistica di consuetudine giornaliera; il periodo pandemico, infatti, affrontato attraverso tale strumento può assumere contorni meno scontati, o addirittura creare una nuova visione del mezzo fotografico come strumento di crescita pratica e fenomenologica.

Il ruolo della comunicazione, fin dall’inizio di questo periodo pandemico, è stato certamente centrale; sia dal punto di vista grafico sia da quello linguistico, essa ha decisamente accompagnato i fatti quotidiani in ogni parte del mondo. La comunicazione gestita dai media (I dieci discorsi sulla pandemia, www.ilpost.it, Aprile 2020), è centrata sul riconoscimento dei sacrifici della popolazione, sullo sforzo nel sentirsi parte della propria nazione e, in definitiva, nel valorizzare un futuro tutto da costruire, per sollecitare nuove sensibilità verso i più deboli come anziani e bambini. Senza voler imporre a simbolo assoluto della pandemia le immagini del papa in profonda solitudine in piazza San Pietro, esse hanno raggiunto ogni parte del mondo.

La desolazione della piazza e, al contrario, la fermezza del significato del discorso papale nel ribadire di non avere paura nonostante l’eccezionale senso di vulnerabilità che ci accomuna, sono riassunti efficacemente nell’immagine che viene registrata. Non ci possiamo dimenticare, comunque, dello sforzo continuo del personale sanitario, degli addetti ai supermercati e di tutti coloro che hanno reso possibile continuare la quotidianità di tutti, pur con le note restrizioni.

Il gesto fotografico: l’approccio semiotico

La ricerca che trovo interessante, legata all’atto della registrazione, è nel focalizzare il processo che produce l’immagine, ovvero il gesto che qui si intende fotografico. Più in generale, sia il gesto (dal latino gestus –us, der. di gerĕre: compiere) che l’immagine sono parte imprescindibile dell’atto comunicativo; infatti, noi possiamo comunicare appunto per immagini, ma anche attraverso o con il supporto della gestualità. Il gesto, comunemente, viene considerato come un movimento del corpo con il quale si esprime un pensiero, ma anche un sentimento o un desiderio, a volte in senso involontario e che spesso si accompagna alla parola per renderla più espressiva. Assimilare il gesto e la gestualità all’azione non è fuorviante; ancor prima di affrontare la specificità del gesto fotografico, quindi, rivolgo l’attenzione all’approccio semiotico-pragmatico proprio riferito all’azione.

Più dettagliatamente, seguendo l’intuizione di Giovanni Maddalena (Philosophy of Gesture, 2015), un’azione (un atto) può essere considerato gesto quando “porta” ad un significato.

Gesture is any performed act with a beginning and an end that carries on a meaning, from gero = I bear, I carry on

La caratteristica di una tale affermazione è nella comprensione dell’apporto gestuale, all’interno di un concetto spazio-temporale, con una tensione all’azione che conduce ad un significato; inoltre il soggetto principale dell’azione diventa il protagonista responsabile della stessa che viene “portata avanti, condotta” – to carry on – presumendo un’origine attiva e continua. Azione e dinamicità, quindi, caratterizzano un contesto non solo teorico bensì fenomenologico e di natura pragmatica. Infatti, secondo tale assunzione filosofica, il termine di un atto, o di un pensiero o della conoscenza in genere, non viene inteso come chiusura definitiva; anzi, il tema della continuità e del cambiamento divengono parte essenziale e premessa della nostra esperienza di vita quotidiana. In questo senso la definizione del gesto primariamente considerata deve essere ri-compresa in un continuum d’azione. Sempre seguendo Maddalena, un’azione gestuale è in grado di trasformare il senso di vaghezza di un segno, cioè l’esperienza vaga non ancora divisa tra soggetto e oggetto, nella comprensione di un significato. Focalizzare il passaggio da uno stato di indeterminatezza ad uno generale attraverso una determinazione, segnala Maddalena, è stata una caratterizzazione teorica di Charles Sanders Peirce (seguendo la logica di Peirce, soprattutto negli ultimi scritti, si parla in realtà di necessità, contrapposta a vaghezza).

Vago per Peirce significa un segno che è oggettivamente indeterminato e richiederebbe un’ulteriore determinazione da parte di chi emette il segno stesso.

L’azione è quella condizione che conduce, in un processo di cambiamento, lo stato di vaghezza ad uno determinato; tale passaggio processuale ci rende partecipi e consapevoli di un cambiamento e della costruzione dell’esperienza. Azione e gesto, così, divengono parti di una stessa medaglia e soprattutto sono una pratica fenomenologica.

Considerando la fotografia come pratica gestuale, è proprio la caratterizzazione di una modalità processuale e continua, che ritengo elemento sensibile e dinamico. A questo punto, tuttavia, l’analisi mi sembra mancante di una caratteristica che, negli approcci fenomenologici, conduce a determinazioni più generali e certe. Infatti, la sfida è quella di creare una possibile filosofia del gesto – in questo caso fotografico – basandomi sull’assunto che ci sono azioni che sono pensieri, e che essi, grazie alla loro struttura fenomenologica e semiotica – hanno potere di sintesi, cioè di farci conoscere qualcosa di nuovo. Il gesto diventa quindi uno strumento della sintesi conoscitiva, in pratica si delinea un synthetic turn.

La conoscenza quindi poggerebbe il suo fondamento sulla relazione continua tra Icon, Index e Symbol che garantisce lo sviluppo del pensiero e dell’azione; Peirce, inoltre, inquadra tale logica anche in termini fenomenologici di Firstness, Secondness e Thirdness. Tale processualità relazionale si attiva considerando la forza generatrice del cambiamento, ovvero che il ragionamento generalmente si attiva per e all’interno di una variazione. Fino a qui ho legato, attingendo alla tradizione peirciana, la dinamica processuale di un gesto al cambiamento e alla determinazione considerando ciò conoscenza. Quando si attiva questo equilibrato dinamismo relazionale si forma un gesto completo; in aggiunta, anche nella pratica fotografica, si rimanda ad una determinazione di possibili combinazioni gestuali che hanno nel significato il senso ultimo del loro agire.

Ora, l’esempio delle immagini in periodo pandemico, non vengono più o solamente assunte come visualizzazione di un momento determinato, bensì ricomprese in un ambiente più vasto: di azione e relazione, di determinazione gestuale e di significato anche in una fase di cambiamento.

L’esperienza nella formazione del gesto e della conoscenza: l’influenza pragmatica

In tale ottica, divengono centrali sia la funzione pratica del fotografo referente che il ruolo del pubblico osservatore, il quale, nell’accezione pragmatica di John Dewey viene definito correttamente perceiver. Colui che riceve un messaggio – anche visivo – viene incluso nella fase sintetica di un gesto; ovvero determina, con la sua comprensione, una ulteriore possibile azione-ricomprensione che apre ad una diversa esperienza, o abito di azione. In questa probabile infinita serie di pratiche esperienziali di senso pragmatico, si fonda la nostra conoscenza e attitudine all’azione.

Nel dettaglio, quindi, il gesto fotografico può consapevolmente assurgere a motore propositivo di altre formazioni conoscitive; così gestita, la pratica fotografica non si concentra solo sull’immagine finale, bensì sul ruolo del fotografo ed il significato che viene sintetizzato dal pubblico. Sono convinta che tali assunzioni di senso pragmatico e semiotico se strumentali all’approccio conoscitivo di una pratica fotografica oggettivantesi nel percorso pandemico, trovano un terreno completante nel concetto di esperienza che ben riassume il senso ed il significato dell’azione stessa. Ritornando ad un esempio visivo, la sua determinazione esce dal senso di vaghezza anche attraverso la formazione della nostra esperienza di perceiver– osservatore.

Non è più solo vedere un’immagine ma fare esperienza di essa, che ci porta ad acquisire un significato dell’azione gestuale fotografica. Se attiviamo questa logica si può ricomprendere un cambiamento nella nostra capacità ricettiva che a sua volta innova e costruisce, appunto, la nostra esperienza comune. L’immagine, determinata come prodotto del mezzo fotografico, è la sintesi di un fare gestuale ed un intendere esperienziale; tuttavia è nel gesto originario, nell’accezione indicata da Maddalena dove centrale è il significato nella continuità e nel cambiamento, che si evince la forza relazionale di una pratica che rimane agganciata al sociale come sguardo nel e verso il mondo. L’assunzione che la pratica fotografica ci connette col mondo e ci fa accedere ad esso, si carica ulteriormente di senso pragmatico allorquando si concepisce l’esperienza umana come non divisione tra atto-materia e soggetto-oggetto. Ed è proprio tale assunzione, concepita da Dewey in Experience and Nature (1925), che ci indirizza verso un’analisi pratica e centrale dell’esperienza, che a sua volta abbiamo determinato come parte attiva della pratica gestuale. Secondo il filosofo americano, esperire non significa marginalizzare le emozioni, ma riscattare e recuperare la concretezza corporea dell’organismo che si relaziona col suo ambiente tramite forme passive ed attive, un mondo da vivere e col quale relazionarsi. Seguendo la teoresi deweyana l’ambito per eccellenza dove si vive tale dimensione relazionale, è il mondo dell’arte. In essa si rigetta il gap incolmabile tra teorico e pratico: i dualismi e le polarizzazioni estreme devono lasciare il campo a un’unitarietà che renda godibile qualsiasi esperienza ed esperienza artistica. Perché non considerare la pratica fotografica come non sganciata dall’interazione col mondo? Ciò significherebbe anche la costruzione di un’esperienzialità condivisibile ed, inoltre, non diventerebbe centrale un giudizio estetico sulla forma (qui si intende in relazione all’immagine), ma l’accettare l’esperienza come costitutiva di un passaggio estetico godibile, con contenuto che sia apprezzato o anche patito dall’esperienza stessa. Infatti, secondo Dewey, la configurazione formale dell’esperienza è sia il fare che il subire della stessa, concetti questi che ne rappresentano i suoi momenti costitutivi.

Ritornando al tema centrale di questa analisi, tale costruzione esperienziale fotografica può attivare nel perceiver una visione più completa, non routinaria, bensì relazionale e continua del gesto completo; in tal modo vorrei ribadire come centrale non solo il prodotto finale del godimento o, al contrario, della sofferenza insita in un’immagine, bensì chiarire che l’attività gestuale considerata nel suo procedere senza escludere elementi, è arte. L’insegnamento di Dewey (Art as Experience, 1934) qui diventa primario: infatti è rilevante non porre troppa attenzione esclusiva solo alla parte iniziale di un’attività o di un’esperienza, né nella fase finale, definita come consumatory experience, perché in tal modo non si interpreterebbe né l’arte né l’esperienza. È l’analisi del processo nella sua interezza che produce e si interconnette con momenti positivi e negativi che costruisce esperienza e che ha nell’azione gestuale la sua peculiarità fenomenologica e conoscitiva. In aggiunta, la forza costruttiva del continuum, che si è già considerato essenziale nell’analisi semiotica e fenomenologica del gesto, risulta centrale anche per la teoresi deweyana proprio perché scandito all’interno della pratica esperienziale.

Verso la costruzione di rimbalzi culturali

Il senso e il significato delle immagini diffuse in epoca pandemica, in questa logica, assurgono a momenti di esperienza con accentuate connotazioni sociali, perché condivise in tutto il mondo. La conseguenza di ciò è la creazione di passaggi e formazioni culturali; infatti, lo sviluppo di una memoria pandemica, creata dalla pratica fotografica non impedisce il soffermarsi su temi comuni generando rimbalzi culturali. Tale concetto potrebbe favorire una comprensione antropologica del gesto e dell’esperienza umana non escludente una continua relazione uomo-ambiente rilevata, in tutte le sue sfaccettature positive-negative, dalla visione pragmatica di Dewey. Per concludere, la visione gestuale della pratica fotografica rimanda non solo alla centralità del significato, ma prende forza e origina un’esperienza condivisibile che, in tempo pandemico, deve essere rivalutata per non creare unicamente momenti ipertrofici di assoluta negatività e impotenza. Il fare esperienza ed esperienza estetica si intreccia, definitivamente, con la nostra storia e memoria umana: socialmente distanti, ma culturalmente vicini.

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