Psicopolitica e panottico digitale (ovvero il manicomio 3.0)

di Piero Cipriano

Questo intervento è stato pubblicato nel nostro fascicolo “Distopie”, che potete leggere e acquistare cliccando qui

Essere psichiatra critico significa sapere scovare il doppio della follia, saper scovare la iatrogenia dove neppure sembra esserci, evidenziare là dove medicina e psichiatria creano ulteriore disagio, sofferenza, saper vedere i manicomi dove si creano anche se non hanno le sembianze di lager, di grandi contenitori, di panottici fisici benthamiani.

Questo pensiero critico è debitore della lezione basagliana, del suo sguardo lungo, del suo pensiero lungo, di un’azione che, per quanto mi riguarda, non si è ancora esaurita. A volta me lo immagino, se fosse qui, ora sarebbe novantaquattrenne, sarebbe stato al passo con le nuove tecnologie, col web, coi social network? Cosa avrebbe fatto? Ci sarebbe stato dentro o fuori? In che termini avrebbe parlato del medium digitale? L’avrebbe definito oppure no un manicomio, il nuovo manicomio: il manicomio digitale? Se il più lucido narratore del manicomio ottocentesco creato da Pinel è stato Michael Foucault, da cui Basaglia ha preso la vocazione a storicizzare il manicomio, a me pare che il miglior narratore di questo manicomio del duemila creato dall’American Psychiatric Association e dalle aziende dei farmaci sia Byung-Chul Han. “La libertà sarà stata un episodio”, così inizia Psicopolitica, il libretto dell’apocalittico filosofo tedesco-sud coreano. Han si smarca da Foucault e prova a superarlo. Foucault racconta un potere che dal Settecento non è più “potere di morte” nelle mani di un “sovrano simile a dio” ma potere disciplinare. Non più potere di morte ma di vita. Non più potere di morte cioè di uccidere il corpo ma potere di disciplinare questo corpo ingaggiandolo in una serie di norme obblighi divieti, riducendo il soggetto all’obbedienza alla disciplina. Ecco, secondo Han, che a sua volta si richiama a Giorgio Agamben, la “morte precoce” avrebbe impedito a Foucault di passare dalla biopolitica alla psicopolitica. Di lasciare la biopolitica, ovvero politica dei corpi, per la psicopolitica, ovvero politica delle menti. Il soggetto moderno non è più il soggetto disciplinare il cui corpo è incastrato in obblighi e in luoghi del sorvegliare e del punire e i cui luoghi della massima punizione sono galere e manicomi. Il soggetto moderno adesso è tenuto a una prestazione, la sua psiche è incastrata in un imperativo performativo e i luoghi della cura per ottimizzare questa necessità prestazionale sono il lettino dell’analista o lo studio dello psicoterapeuta o la farmacia dello psichiatra.

Il soggetto di prestazione raccontato da Han non ha bisogno più di un padrone perché il suo padrone è egli stesso, egli stesso è padrone e schiavo, sfruttatore e sfruttato. È libero, ma libero di sfruttare questo suo eccesso di libertà. Questo suo eccesso di libertà è patologia della libertà. Questa troppa libertà determina eccesso di lavoro autoimposto. Questo eccesso di lavoro senza padrone determina stanchezza. Questa stanchezza, ogni forma di stanchezza, i nuovi codici diagnostici la rubricano ansia o insonnia o tristezza o depressione o bipolarità o anedonia eccetera. Perché mai il neoliberismo, in quanto evoluzione estrema del capitalismo industriale, sarebbe il modo più efficace che sia mai stato inventato per sfruttare la libertà? Ma perché sfruttare i soggetti, contro la propria libertà, non rende. È solo lo sfruttamento di soggetti liberi a determinare il massimo della resa. Il neoliberismo – e questo nessuno come Han ce lo semplifica; anche Mark Fisher tratta questo tema, in Realismo capitalista, ma non con la chiarezza di Han, secondo me – è una mutazione del capitalismo, e come tutte le mutazioni è più forte, è più resistente agli antidoti, non c’è un vaccino per ora, il neoliberismo è quella cosa per cui ogni lavoratore si appresta a rendersi imprenditore di sé, destinato a sfruttare se stesso finché non crepa. L’esempio del Giappone è paradigmatico. Il Giappone è il paese quintessenza di questa deriva. In nessun posto, ancora, come nel Sol levante, i ragazzi vengano allevati, fabbricati, addestrati per essere perfetti imprenditori di sé. E chi non ce la fa soccombe. Sotto questo punto di vista il Giappone è una sorta di neo-Sparta. Dove gli incapaci di essere al passo col proprio autosfruttamento si gettano sotto la metro invece che dal monte Taigeto. I ragazzi, tra scuola del mattino, compiti a casa e di nuovo scuola serale studiano dalle sette fino a mezzanotte. Ogni giorno tre adolescenti non reggono questo ritmo e si uccidono. Ogni anno sono trentamila i suicidi. Moltissimi sono i divorziati. Domina l’astinenza sessuale tra le coppie sposate. Impera la pornografia. Non è praticata la compassione né il perdono. Vige la pena di morte. Non c’è un laureato che non sia sicuro di ottenere un lavoro, certo, ma questo non è un bene, è il contrario, perché non è contemplato il riposo, non parliamo dell’ozio, tale è la competitività che i lavoratori non prendono le ferie per il timore, al ritorno, di essere demansionati. L’identificazione del lavoratore con l’azienda è totale.

I giapponesi non hanno una parola per la depressione, ma ne hanno una per la morte da eccesso di lavoro: karoshi. Sono diecimila le vittime di karoshi ogni anno – che si aggiungono ai trentamila suicidi – a cui scoppia il cuore (infarto) o il cervello (ictus) per orari lavorativi fino a diciotto ore al giorno. E non basta loro il conforto religioso, ovvero credere che reincarnandosi, come promette il buddismo, possano prima o poi trovare il meritato nirvana. Ecco esemplificato un diverso tipo di lavoratore, non colui che si percepisce sfruttato dal padrone, e dunque si incazza, si insubordina, si solleva, magari anela alla rivolta. Intendo il lavoratore – chiamiamolo ancora così – rivoluzionario. No. Questo, il lavoratore tipo il giapponese, è colui che si autosfrutta, e con chi se la può mai prendere questo lavoratore masochista responsabile della propria stanchezza, del proprio esaurimento? Con se stesso, solo con sé se la può prendere. Dunque non può essere un rivoltoso ma un depresso. Ecco che se la rivolta era la cifra del lavoratore che viene e si sente sfruttato, e la conseguenza repressiva era la galera o il manicomio, la depressione è la cifra del lavoratore che si autosfrutta, e la conseguenza terapeutica è la psicoterapia, oppure – meglio – il doping psichico. Quindi il nuovo manicomio è l’etichetta diagnostica che si appiccica come un tatuaggio indelebile, salvo attaccare accanto una seconda e poi una terza etichetta (le etichette non si neutralizzano, sono additive: il mondo è pieno di soggetti dalla personalità borderline, che sono anche in certi periodi depressi oppure euforici, e che sono abusatori di droghe: tre etichette). Nuovo manicomio è il farmaco, nuovissimo prossimo manicomio sarà – o già è – il medium digitale. Il panottico di Bentham che consentiva di tenere sott’occhio tutti i prigionieri al tempo stesso separandoli l’uno dall’altro, da cui ha preso ispirazione il modello manicomio di Pinel coi suoi padiglioni, con la sua esasperante separazione tra folle e folle, tra normale e anormale, sta per essere superato. Il nuovo panottico è la rete, il medium digitale. Dove non solo non vi è separazione, non solo è auspicata e incentivata la comunicazione, dove non solo c’è esibizione spontanea ma perfino denudamento di sé. I nostri dati sono condivisi, messi a disposizione, senza coercizione. Giorno dopo giorno immettiamo in questo mare digitale parti che ci appartengono, la nostra identità, ottenendo lo scopo di una sorveglianza reciproca. Ognuno è sotto lo sguardo di ogni altro. Questo significa il panottico digitale. Questo è il manicomio digitale. Si veda Black Mirror. Nella terza serie c’è un episodio in cui lo smartphone diventa l’oggetto di controllo sugli altri che ci capita di incontrare. Il like è l’indice di gradimento. Vali quanti like ricevi. Sotto una certa soglia di like il punteggio, che rappresenta quanto vali, non ti consente neppure di partecipare in qualità di testimone al matrimonio della tua migliore amica perché lei, nel frattempo, non la vuole un’amica che non raggiunge la sufficienza di like. E non si pensi che il manicomio digitale non si sappia embricare con il manicomio chimico. I diversi livelli di manicomio sono in grado di convivere. I reparti bunker con le fasce convivono con diagnosi e farmaci – tant’è che l’acronimo SPDC sta per Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura-farmacologica. Ebbene il manicomio concentrazionario si embrica con quello diagnostico e chimico e adesso con quello digitale. Vedasi il progetto Proteus. Affatto casuale chiamarlo così. La psichiatria è proteiforme come il Proteo. Il mostro cangiante della mitologia. Sono le metamorfosi della psichiatria, appunto, di cui sto scrivendo.

Cos’è Proteus Digital Health? Un sistema mica da ridere che la Food and Drug Administration americana sta prendendo in considerazione. Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso del farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psicotico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere gli antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute – la teoria della psicosi da ipersensibilità sostiene il contrario, ovvero che anni di terapia continua con bloccanti d2 porterebbe ad aumento dei recettori per la dopamina, e a conseguente maggiore sensibilità del cervello alla dopamina, e a riacutizzazioni psicotiche appena si sospende l’antipsicotico, vale a dire: la terapia antipsicotica a lungo termine è una via di non ritorno – con aumento dei costi sanitari dettati dalla crisi e dai ricoveri in questo modo evitabili. Io dico che tutto ciò non avrebbe senso, e non sarebbe etico neppure se i cosiddetti antipsicotici fossero davvero l’antidoto alla psicosi. Anche in questo caso la persona dovrebbe poter decidere giorno dopo giorno se vuole ingoiare la pillola oppure no. Siccome non è così, voglio dire non è provato che prendere ogni giorno puntualmente l’antipsicotico scongiuri le crisi psicotiche, e se è vero che l’uso continuo e a dosaggi alti induce psicosi piuttosto che il contrario – la psicosi da ipersensibilità, ripeto – e se poi è anche vero che l’uso a lungo termine di antipsicotici riduce le aspettative di vita, allora capite quanto questo ipercontrollo, digitale perfino, rappresenti un ulteriore perfezionamento della restrizione di libertà della persona che viene espropriata una volta per tutte della possibilità di poter decidere, negoziare, giorno dopo giorno, la sua cura, e l’assunzione di farmaci. Tutto ciò sempre se consideriamo che avere un disturbo psicotico – mettiamo la schizofrenia – non è come avere il diabete. Ma anche se lo fosse io dico che una persona con questo disturbo ha comunque il diritto di scegliere. Io penso che già la sempre più capillare prescrizione di antipsicotici depot – quelli a lunga azione, quelli che si iniettano circa una volta al mese e rimangono nei lipidi e nel cervello della persona – sia non etica e sia la quintessenza del manicomio chimico. Avere in corpo un farmaco di cui per alcuni mesi non ti potrai liberare. Mettiamo nel frattempo sopravvenga una sindrome maligna da antipsicotico: sei morto. Figurarsi avere la pillola col sensore il cui segnale viene rilevato in tempo reale sul tablet dello psichiatra. E che alla prima infrazione, alla prima pillola non assunta dall’internato digitale il tablet dello psichiatra emette l’allarme e lo psichiatra provvede a dar luogo al trattamento sanitario obbligatorio del suo paziente riluttante. Già mi vedo centinaia di pazienti che si rivoltano allo psichiatra persecutore. Le violenze contro gli psichiatri. Attribuite alla follia dilagante dei pazienti. Molti gesti violenti – lo sappiamo – non sono dettati dalla follia, ma sono reazione alla quotidiana violenza e prevaricazione delle istituzioni psichiatriche. Quanto è violento un depot subito mese dopo mese? Recentemente uno specializzando che frequenta il reparto in cui lavoro, di ritorno da uno di questi convegni sponsorizzati dalle case farmaceutiche, mi racconta che uno di questi psichiatri obbedienti al marketing delle case farmaceutiche ha concluso la sua relazione con un triplice imperativo: credere, obbedire, combattere! Gli domando cosa volesse dire. E lui: credere nei nuovi antipsicotici depot detti LAI (long acting injectable) – quelli che costano centinaia di volte i vecchi depot –, obbedire alla missione etica di iniettarli a tutti gli psicotici, e combattere i nemici di questa salvifica cura totalitaria. Quelli come me, insomma. Quelli che scrivono queste cose. Quelli che non sono sul libro paga delle case farmaceutiche.

Torno a Black Mirror. A volte ha ragione Philip Dick a sostenere che nella vita la sincronicità junghiana la fa da padrone. Ieri pomeriggio prima di scrivere questo pezzo sul manicomio digitale, tornato dal SPDC, avevo voglia di rilassarmi, e ho convinto mia moglie a vederci una puntata della quarta serie. Inizia, e subito comprendo che se volevo rilassarmi avrei dovuto scegliere altro. Ma ormai è fatta, l’episodio comincia, è tardi per cambiare idea. Sala parto, cesareo. Una bambina nasce, da una donna, senza padre. Il cordone viene reciso ma non nella testa della donna. La bambina cresce con questa madre, senza padre, c’è il nonno in compenso. La regista è Jodie Foster, che davvero ha avuto due figlie con inseminazione eterologa. Due figlie cresciute da questa madre, regista, senza sapere chi sia il padre biologico. Il titolo all’episodio è Arkangel, dove Arkangel è una specie di microchip, in fase di sperimentazione, che viene impiantato, senza costo alcuno – proprio perché è in fase di sperimentazione – se i genitori lo desiderano, nel cervello dei figli. Per mezzo di un tablet, il genitore può vedere in ogni momento ciò che vede il figlio, di più, può attivare una sorta di filtro per oscurare le immagini violente, o spaventose, o semplicemente stressanti. Che l’immagine sia stressante il tablet lo rivela con un allarme, che si attiva quando aumenta il cortisolo, l’ormone dello stress. Per cui quando, intorno ai tre-quattro anni di vita, questa madre apprensiva perde di vista al parco sua figlia, decide di farle applicare Arkangel. Con una semplice iniezione, indolore, fatta nel cranio. Da questo momento in poi compulsare il tablet, per osservare tutto ciò che fa sua figlia, per questa madre insicura diventa una rassicurazione e un’ossessione al tempo stesso. Appena la bambina vede qualcosa di spaventoso, sia pure una goccia di sangue o un cane che abbaia, lei glielo oscura. Questa figlia vive una realtà virtuale, dove tutto ciò che di spaventoso vi può essere nella vita le viene censurato. Il racconto velocemente ci mostra il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, mostrandoci come questo chip detto Arkangel rappresenti un cordone perverso, un legame fatale, tra questa madre helicopter parent – così vengono definiti, in America, i genitori che si frappongono tra i figli e le loro difficoltà esistenziali – e una figlia che non sa di essere sotto controllo. Nonostante a un certo punto la madre metta a conoscenza la figlia di questo dispositivo di controllo che le ha modulato la realtà, e le prometta di disfarsi del tablet, questa ragazza continua a essere sotto controllo materno, anche quando ha il suo primo rapporto sessuale, anche quando inizia ad avere attrazione per tutto quanto c’è di violento e trasgressivo, visto che fino a quel momento ne è stata privata. Anche quando, quindicenne, decide di provare, per la prima volta, a tirare cocaina. Finché sua madre, succube di Arkangel, ricatta il giovane fidanzato di sua figlia, costringendolo a non vederla più. A quel punto la ragazza scopre di essere ancora sotto controllo, e riappropriandosi di tutta quella violenza che per quindici anni le è stata oscurata, fracassa il tablet sul cranio di sua madre, e fugge in autostop verso il Messico. Ah, mi sa che ho fatto quella cosa scortese detta spoiler. E va be’, ormai l’ho scritto, è tardi per tornare indietro. La prossima volta starò più attento. In realtà il chip Arkangel è ciò che il sistema Proteus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia, in cui tuttavia, scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitorizza l’assunzione del farmaco, e il profilo Facebook – o qualcosa di simile se nel frattempo Zuckerberg sarà andato in malora – della persona stessa. Il prendere il farmaco premiato dal like, il non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, oppure wow, il disattendere l’assunzione sanzionato dal sigh o, peggio, dal grr. Lo so, sembra ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo. Una specie di idiot savant si è inventato questo social network, e di anno in anno come un dio bambino inventa nuovi codici, nuovi lemmi, nuove semplificazioni per narrare le relazioni. Per un verso allora sembriamo avviarci verso una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da George Orwell in 1984, la semplificata neolingua incaricata di sostituire l’archilingua perché l’archilingua è articolata, complicata, la neolingua è semplificata e ciò è funzionale a semplificare il pensiero. Se hai sempre meno parole per dire le cose, immagina Orwell, ovvero “chi parla male pensa male”, per dirla con Nanni Moretti, vedi che la coscienza si restringe. E pure i testi scolastici fascisti o nazisti erano dotati di un lessico semplificato, apposta per semplificare il pensiero. Per un verso allora, nota Han, in questo panottico digitale, a cui ci siamo nel volgere di pochissimi anni abituati al punto da non saperne più fare a meno, sembra incentivata la comunicazione e lo sproloquio lessicale. Per un altro verso c’è un invito alla sintesi e alla semplificazione, scrivere post laconici ed essenziali la cui reazione o gradimento viene semplificata da quattro o cinque stupide emoticon: love, grr o wow – non vi sarà sfuggito che nel padroneggiare questa stupida neo-lingua i nuovi governanti sulla scena mondiale, da Trump a Salvini, sono dei veri e propri talenti. Ecco dunque perfezionato il dispositivo panottico di Bentham come lui non avrebbe mai potuto immaginare, e neppure noi fino a vent’anni fa, a dire il vero. La sorveglianza, reciproca, che ognuno si fa, in questo panottico, è a 360 gradi. Un panottico gigantesco, oltretutto. Facebook conta oggi due miliardi di iscritti, che accedono al panottico più volte al giorno, ha seguaci più del cristianesimo e dell’islam. È una chiesa tutto sommato più influente di tutte le altre. I cui praticanti sono continuamente connessi o raggiungibili per mezzo dello smartphone. Smartphone che tocchiamo in media 2617 volta ogni giorno. Non c’è rosario, bibbia o corano che venga compulsato con questa frequenza. Facebook è una chiesa che per amen ha un like. Un like come primitivo sistema di gratificazione a breve termine, a base di dopamina. Fatemi semplificare e fare il riduzionista, adesso. Questo è il sillogismo che propongo. La psicosi, secondo la teoria più accreditata, sarebbe biochimicamente causata da un eccesso di dopamina. Il neurotrasmettitore edonico. I like, si dice, aumentano la dopamina. Gratificazione a breve. I like, dunque, producono psicosi. Ecco. Il manicomio 3.0, il manicomio digitale, produce psicosi. Non è un caso che coloro che nel 2009 hanno ideato il bottone del like – Justin Rosenstein e Leah Perlman – siano ora i più accesi sostenitori di una sorta di vangelo apocrifo contro la chiesa di Facebook. Si sono disconnessi, insomma. E così ieri, dopo aver visto l’episodio di Black Mirror, sono andato con mia moglie in un teatro scalcagnato di Tor Pignattara, a vedere L’unica cosa possibile, diretto dal mio amico Francesco Prudente, due donne mezze nude, non ci abbiamo capito molto ma loro erano brave, ho dovuto googlare per capire il riferimento alla favola di Esopo della cicala e della formica la cui morale è che chi nulla fa nulla ottiene e chi compie determinate azioni viene poi ripagato nel giusto modo. E se l’unica cosa possibile da fare in una situazione di pericolo fosse un omicidio? Ecco, per riprenderci dal disumano sforzo esegetico siamo poi andati a berci una cosa al Pigneto. Al tavolo accanto due donne si sono fatte un selfie, e di certo sono venuto pure io nella foto, visto che miravano verso di me. Poi ho visto che la postavano su Facebook, avranno indicato il luogo, l’ora. Ero tentato di oppormi, non fatelo, di sicuro sono venuto pure io, volevo dir loro, avrò dei diritti? Insomma, in un clic la mia uscita era stata messa a protocollo, era stato certificato che alle 22.30 di ieri ero in quel luogo con mia moglie, c’era la foto e tutto. Vedi? Le dicevo, siamo fregati. Ora tutti sapranno che siamo usciti, che io e te ci vediamo, usciamo insieme, abbiamo una relazione, ma ti rendi conto? E lei: lo vedi che faccio bene io, che non sono su Facebook, che resisto a tutti i social network? Ma sei un’idiota allora! Ecco perché ti salvi! Davvero, non ti offendere, non sto scherzando. Sai che dice il filosofo di cui mi sono invaghito ultimamente? Chi, il coreano?, fa lei. Sì, mezzo sud-coreano, non nord, mi raccomando, mezzo tedesco, un talento, prende da tutti, rumina e restituisce a suo modo. Un po’ come fai tu? Un po’ come faccio io, sì. Han dice che solo se sei un idiota ti salvi. Aspetta, capiscimi. Lo riporto integralmente: “Una funzione della filosofia è giocare a fare l’idiota”. Insomma, la filosofia, e sembra controintuitivo, lo so, ma è fatta da idioti. “Ogni filosofo che realizza un nuovo idioma, un nuovo linguaggio, un nuovo pensiero, sarà necessariamente un idiota”. Socrate, per dire, che afferma di sapere di non sapere, se così è, è un idiota. Rovatti, per dire, che sostiene la forza del pensiero debole, dell’epochè, del rifuggire i saperi forti, le certezze, le idee potenti, e propone la pratica di un’etica minima – etichetta, la potremmo dire, l’unica etichetta che mi piace – lui pure è un idiota. Basaglia, il nemico della tecnica secondo Benvenuto, colui che secondo il bilioso Vittorino Andreoli “non sa la psichiatria” – e, ammesso sia vero, forse è per questo che l’ha saputa sovvertire – è un idiota. L’idiot de famille, si definisce lui stesso. Oggi – ancora Han – “la figura dell’outsider, del folle o dell’idiota sembra essere scomparsa dalla società”, perché “la connessione digitale”, l’esserci di nostra sponte internati in questo panottico digitale ha aumentato straordinariamente la “coercizione alla conformità”. L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci. L’idiota è colui che non si connette e dunque non si informa al modo dell’informazione totalitaria della rete o dei social. Il non trasparente, colui che non sciama nella rete. In questi giorni tutti, nei social italiani, come pecore digitali, belano intorno ad alcuni argomenti: tra questi soprattutto i migranti: ovvero gli invasori, i barbari, difenderci dai barbari, casa loro, casa nostra, pacchia, finita la pacchia, così via. Aizzati da un ministro basico bineuronale e mono-sinaptico che maneggia con talento da idiot savant i social e la comunicazione fatta di slogan. È la nuova psicologia delle folle. Siamo ormai oltre “l’età delle folle” descritta da Gustave Le Bon, siamo nell’epoca del gregge digitale, o per dirla sempre con Han, nell’epoca dello sciame digitale. Ma lo sciame non è folla. Perché i connessi sono soli pur sentendosi insieme. L’uomo digitale resta solo, hikikomori schizoide, pur sentendosi parte delle cinquecento o cinquemila amicizie contatti che il social mondiale ti mette a disposizione. I greggi digitali, gli sciami digitali non sanno marciare, non sanno organizzare rivolte, sanno al massimo indignarsi per la causa del momento – ora sono i migranti, chi li difende chi li vorrebbe morti, domani saranno di nuovo i vaccini, e così via – sanno indignarsi mediante quella scarica emotiva che rapidamente si esaurisce, la shitstorm, la tempesta di merda. L’idiota disconnesso non lo sa cos’è una shitstorm. Non ne è stato contaminato. Non ne ha mai subito gli schizzi. L’idiota disconnesso, non sa, non bela. L’idiota disconnesso, non comunica, e non è raggiungibile. L’idiota a-digitale è apolide. È in una sorta di esilio. Potrebbe perfino non esistere, nonostante l’anagrafe. È in una dimensione pirandelliana. L’idiota non si farà prendere dall’imperativo della prestazione, la sua idiozia è un antidoto alla stanchezza, e quindi è immune dalla depressione. È l’idiota, nell’era della trasparenza e del panottico digitale, il soggetto in salute.

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