Polidori, i boomerang mediatici e i doni delle fate

di Andrea Muni

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Nel celebre poemetto “I doni delle fate”, contenuto nello Spleen di Parigi, Baudelaire ci racconta che annualmente, in un fantomatico boschetto, le fate si riuniscono per tributare degli speciali doni ai nuovi nati dei loro adepti. La giornata si svolge gioiosamente: le magiche creature donano a un bimbo un’incredibile intelligenza, a un altro una straordinaria capacità di comando, a un altro ancora un genio artistico inusitato, finché – giunta la sera – arriva trafelato un ritardatario padre a reclamare un regalo per il suo pargolo. Le fate gli rispondono che ormai è tutto finito, che i doni sono esauriti e che il piccolo dovrà cavarsela da solo. Il padre allora reclama, contesta, esige che si faccia almeno uno sforzo per trovare un dono anche per il suo rampollo. Le scaltre fate allora, raschiando il fondo della loro cornucopia di abilità e fortune, trovano un ultimo regalo per il pupo, rimasto in disparte, e lo offrono al lamentoso padre: è il dono di piacere. Non l’avessero mai fatto! L’adepto si indigna, si incazza e reclama ancora. “Perché mai agli altri bimbi sono stati concessi doni tanto grandi e al mio uno così stupido e inutile?”. Le fate allora si fanno grandi, minacciose, apostrofano l’uomo con sdegno e gli gridano: “Sei uno stupido! Non hai capito che a tuo figlio avevamo riservato il dono più importante di tutti!”.

A che serve tirare fuori questa vecchia storiella? A che serve piacere? A niente, a meno che non si desideri fare politica a qualunque livello: culturale, economico o associazionistico che sia.

Piacere serve a chiunque faccia un qualunque tipo di “politica”. Il vice-sindaco di Trieste certamente non lo ignora, anche se nell’increscioso episodio che lo ha visto gettare nell’indifferenziato le coperte di un povero cristo, egli ha quantomeno commesso un grottesco errore di valutazione.

L’intento di Polidori era infatti quello di piacere, di risultare gradito alle persone che – come lui – hanno particolarmente a cuore il decoro della città, ma il “prode” non ha riflettuto a sufficienza (a causa della smania social di piacere) su quanto il suo gesto sarebbe risultato sgradevole e stupido persino a molti dei suoi simpatizzanti.

La cosa davvero interessante di questa vicenda è che ci ha permesso di constatare, di toccare con mano, un’interessante falla nella quasi perfetta macchina comunicativa leghista. Il vice-sindaco è stato infatti investito da un vero e proprio boomerang mediatico, che gli è ritornato “in schiena” sotto forma di pesanti critiche provenutegli anche da molte persone vicine alle sue idee politiche (non ultimo il suo sindaco). Anche se, certo, non sono mancati gli immancabili pasdaran e pasionarie che hanno pensato bene di fare una colletta per pagargli la multa (sic!).

Cosa ci insegna questa seconda piccola storiella? Che quando si vuole piacere agli altri bisogna essere un po’ accorti, saper un po’ stare al mondo; che non bisogna lasciarsi travolgere dalla smania, dall’ansia di piacere sempre, ovunque, a tutti i costi.

Anche dalla parte di coloro che non si riconoscono nei valori xenofobi e securitari della Lega, o in quelli (schizofrenici) dei Cinque Stelle – ossia in quel mare magnum di persone che, a titolo parlamentare o extraparlamentare, potremmo chiamare “opposizione” – è purtroppo di moda una vera e propria compulsione, una smania mediatica di piacere.

Questo desiderio, e questo tipo di comunicazione, sono molto pericolosi poiché inducono a commettere quotidiani e surreali errori di valutazione, in tutto e per tutto simili a quello in cui è incappato il vice-sindaco spazzino di Trieste.

Penso alla enorme mole di notizie ingigantite, iper-mediatizzate, rivisitate che – da quando Lega e 5 Stelle hanno preso il potere – invadono i media e il web allo scopo di criticarne l’operato a tutto campo, ogni giorno. Certo, anche loro fanno (e hanno fatto) questo gioco sporco, ma loro hanno il brand, il monopolio della seduzione becera e ideologica della gente meno colta via web e nelle piazze. Nessuno può batterli su questo campo.

A proposito di errori di valutazione che rendono “spiacevoli” alla gente la maggior parte degli oppositori del governo giallo-verde, possiamo menzionare senz’altro le critiche al reddito di cittadinanza che, piaccia o no, con buona pace di tutte le fondate obiezioni che si possono muovere per migliorarlo, rappresenta mediaticamente un sforzo welfaristico inedito negli ultimi vent’anni. Per non parlare dei recenti peana su Di Maio che solleva (senz’altro maldestramente) il delicatissimo tema del post-colonialismo francese in Africa, o su Lino Banfi all’Unesco (che ha preso la massima onoreficenza della Repubblica, nel 1998, sotto i governi Prodi-D’Alema); o ancora, sul caso della Nave Diciotti, recentemente tornato in auge e che avrà purtroppo come unico effetto reale quello di permettere a Salvini di vestire mediaticamente, una volta di più, i vantaggiosi panni del perseguitato.

Criticare a caso, sfottere, denigrare solo per rabbia e frustrazione non è un errore morale, ma strategico, che interessa in particolare anche la delicatissima questione immigrazione: un tema oggi ormai inabbordabile costruttivamente con quattro quinti dei cittadini italiani per colpa della disastrosa gestione mediatica del problema da parte dei precedenti governi.

Per piacere alla gente – a quella gente che, con buona pace di quelli che vorrebbero fare i test d’ingresso per la tessera elettorale – ha il diritto di voto e quindi il diritto di essere ascoltata e convinta, è necessario intervenire nel dibattito politico senza isteria, cercando di lavorare costruttivamente e dal di dentro temi che stanno a cuore alla maggior parte delle persone. Perché, sottolineo purtroppo, i diritti delle minoranze e dei più deboli (di qualunque tipo) passano in secondo piano quando la maggioranza delle persone si sente ignorata, impoverita, umiliata. È sempre stato così, si tratta di un fatto sociale che non si può cambiare con la bacchetta magica, o dicendo semplicemente “non dovrebbe essere così”. Penso anch’io che non dovrebbe essere così, ma dirlo non aiuta minimamente a risolvere il problema.

Lega e 5Stelle hanno intercettato in meno di un lustro qualcosa come il 60% degli elettori italiani, a cui bisogna aggiungere un altro 15-18% composto da formazioni di centro-destra (come Forza Italia) ed estrema destra (Fratelli d’Italia). La Lega ha scommesso sul senso di insicurezza e precarietà esistenziale delle persone, trasformandolo sapientemente in un odio e una paura deliranti nei confronti degli immigrati e degli ultimi; mentre i Cinque Stelle – che sono a tutt’oggi ancora attraversati da correnti e istanze (minoritarie) che non si possono definire “di destra” – hanno ottenuto consenso dando spazio e ascolto al senso di abbandono, e spesso ai vaneggiamenti, delle classi culturalmente ed economicamente più disagiate, a quei milioni di persone che hanno visto l’establishment della Seconda Repubblica orchestrare le politiche di austerità neoliberista che hanno affossato l’economia e il morale del Paese nell’ultimo decennio. In tutto questo il Pd non ha fatto altro che insultare le persone che avevano paura e si sentivano insicure, divertendosi a sfottere i poveracci che hanno osato puntare rabbiosamente il dito contro i privilegi e l’incompetenza (spesso in primo luogo umana) di un’intera classe dirigente. Ora che il povero cadaverino del Pd sta per essere truccato e imbalsamato in quello che quasi tutti si augurano sia l’ultimo congresso della sua storia, è forse giunto il tempo per un’opposizione realmente alternativa, che sia capace di riscoprire temi e rivendicazioni genuinamente “popolari”. Il danno prodotto dal Pd a una qualunque idea di “sinistra” in questo Paese è talmente devastante e traumatico che, ormai, nel vocabolario della quotidianità degli italiani questa parola si usa come sinonimo del più selvaggio e brutale capitalismo neoliberista. Nei discorsi della gente comune, ormai, la parola “sinistra” è usata per indicare un orrendo mix di saccente e arrogante paternalismo, mescolato con valori autoimprenditoriali, neoliberisti e mondialisti. Come dargli torto se, con queste premesse, la gente preferisce una qualunque altra cosa? Se preferisce credere alle scie chimiche piuttosto che alle lezioncine di editorialisti, esperti e opinionisti di area?

Smettere di farsi odiare, disprezzare o – nel migliore dei casi – ignorare, per chi si riconosce in valori differenti da quelli oggi dominanti nel Paese, dovrebbe diventare un mantra, un obiettivo minimo. Per questo motivo è necessario sfumare, o al limite evadere temporaneamente, ogni tema che possa avvicinare un qualsiasi discorso d’opposizione alla naufragante zattera del Pd.

Questo smarcamento si può produrre solo rimettendosi davvero ad ascoltare le persone, invece di sfotterle additandone l’ignoranza e la disumanità, per capire invece quali sentimenti e desideri la “gente” ha cercato di soddisfare e sublimare con le proprie recenti scelte politiche. Solo dopo questa prima operazione si potrà cominciare a elaborare e offrire delle alternative plausibili, capaci di soddisfare diversamente queste pulsioni e questi sentimenti. Ad esempio, in pochi sembrano essersi ancora accorti che ipocondria e invidia sociale sono le vere molle soggettivo-psicologiche del successo della propaganda leghista anti-immigrati. Per contrastare tutto questo alla base si potrebbe allora lavorare su temi che sembrano di scarso interesse, minoritari, lontani dalle grande politica: temi “culturali”. Come mettere in piedi dei corsi pubblici o dei seminari di auto-aiuto sull’ipocondria (che è la ragione principale della svolta xenofoba delle classi più agiate). Oppure, su tutt’altro versante, tornare ad ascoltare e divulgare (perché no?) attraverso dei servizi televisivi, dei documentari, o delle rubriche, la frustrazione, la rabbia e l’invidia della gente comune, favorendo pubblicamente la pratica dell’autoracconto.

Perché chi non si è lasciato sedurre dalla propaganda giallo-verde sa benissimo che è una bufala colossale dire che un richiedente asilo riceve ogni giorno 35 euro in mano e può farsene quello che vuole. Chi non si è lasciato stordire dalla possibilità di sfogare la propria rabbia contro una categoria più svantaggiata di persone sa benissimo che 35 euro è il costo lordo (approssimato propagandisticamente al rialzo) della complessa e necessaria gestione dei richiedenti asilo da parte delle strutture di accoglienza. Ma l’elettore leghista o grillino non ha il “dovere” di saperlo. Non solo, l’elettore leghista o grillino – questo è il punto incandescente della questione – non lo vuole nemmeno sapere. Questa persona non ti vuole ascoltare: non vuole sapere nulla da chi non ha mai fatto, per primo, il gesto di mettersi davvero in ascolto del suo lamento, della sua incazzatura, del suo impoverimento, della sua paura.

In una parola, per piacere – e se non vuoi piacere ti conviene dedicarti a passioni diverse da quella politica, come il bricolage – bisogna avere voglia di capire, di ascoltare le questioni che stanno a cuore alle persone, agli altri, senza pregiudizi. Solo dopo questo esercizio, faticoso, doloroso, masochista, si può cercare di ri-orientare certi temi “caldi” a partire da valori differenti.
Mi rendo perfettamente conto che, nel dire queste cose, anch’io mi espongo al grosso rischio di non piacere affatto alle persone che vorrei convincere. È un gioco di scatole cinesi. Ma credo di aver capito che non mi importa piacere a qualcuno che – come il lamentoso padre della storiella di Baudelaire – non ha ancora capito che il dono di piacere era il più grande di tutti.

Il nemmeno troppo strisciante il fascismo “culturale” della maggioranza di governo 5 Stelle e della Lega è vissuto dalla maggior parte delle persone come un’alternativa “interna” alla più recente e devastante esperienza del capitalismo neo-liberista, esaltato e incarnato (fino a ieri) dagli pseudo-progressisti di tutto il mondo. Anche con questo, prima o poi, bisognerà cominciare a fare i conti.

Perché la reazione c’è stata, eccome, solo che è quella sbagliata, quella che (a me, per lo meno) non piace: una reazione che si è prodotta guardando a modelli culturali conservatori, para-fascisti, vetusti. Sono questi modelli culturali da Ventennio che oggi vediamo opposti, e preferiti, a quelli autoimprenditoriali e neo-liberali esaltati all’unisono dal Pd e Forza Italia negli ultimi dieci anni. Ma come fare a ricostruire, a socializzare, modelli culturali che siano equidistanti sia da quelli che ci hanno propinato i lacché globalisti delle pseudo-sinistre (e pseudo-destre) liberal, sia da quelli para-fascisti fautori di un ritorno a un capitalismo manifatturiero e dal volto (sub)umano, sia da quelli brutalmente clerico-fascisti, autarchici e nemici dei diritti, à la Fusaro?

Credo che la risposta sia abbastanza semplice. Si tratta di ricominciare a lavorare dal di dentro quei temi fondamentali che, per qualche oscuro motivo, negli ultimi vent’anni sono stati volutamente abbandonati tra le braccia delle nuove destre sovraniste-populiste. Temi che non sono mai stati storicamente loro esclusivo appannaggio.

Dal tema della famiglia (che potrebbe essere lavorato non da destra come un antidoto all’atomizzazione e all’individualizzazione delle esistenze in chiave anti-autoimprenditoriale e anti-consumistica), a quello della cultura nazional-popolare (i registi italiani non fanno più come Amici miei, né la gente andrebbe più a vedere oggi un film come Accattone; non abbiamo più un ascolto di massa di un De Andrè, e nemmeno – come poteva essere agli inizi degli anni Duemila – dei Subsonica).

Su tutt’altro versante, si tratterebbe anche di tornare a valorizzare i particolarismi, i localismi, gli assemblearismi e i cooperativismi regionali e cittadini, per combattere gli effetti più devastanti e spersonalizzanti della globalizzazione (qualcuno ricorda di come un tempo le pedemontane, i piccoli comuni e in generale le comunità cittadine e provinciali gelose delle proprie tradizioni, costumi e dialetti fossero tutti di sinistra mentre oggi sono diventati quasi tutti leghisti?).

Non ultimo, si tratterebbe di riaffrontare esplicitamente il tema del lavoro e quello dei modelli culturali. Perché la maggior parte delle persone fa (e farà sempre) un lavoro che non gli piace, che non esalta le sue qualità e che non ha mai desiderato di fare. E questo, anche se qualcuno se ne stupisce ancora, fa sì che ormai chi fa politica, informazione o cultura per lavoro – e quindi si suppone faccia per vivere qualcosa che, almeno a qualche titolo, “gli piace” – sia percepito in generale dalla gente con invidia e antipatia. Chi fa politica, cultura o informazione deve avere come priorità il recupero di una certa credibilità e umiltà. E questo, purtroppo, vale anche per i tanti che – come molti giovani giornalisti, editor o militanti politici sottopagati – non si sono mai arricchiti col proprio lavoro intellettuale, né si sono mai macchiati di snobismo o arroganza.

Le fate hanno parlato: chi non è in grado di piacere è meglio che stia zitto, almeno finché non avrà trovato un modo, una via, per dire qualcosa di giusto e di vero che la gente – quella che, in certi ambienti, è ormai considerata alla stregua di un oggetto di studio entomologico – voglia anche ascoltare. La propaganda dell’attuale governo si nutre infatti dell’ormai congenita e inquietante incapacità di piacere di quasi tutti coloro che lo contestano; dei quotidiani boomerang mediatici prodotti da tutti coloro che, credendo di fare opposizione, non fanno altro che aumentare l’insofferenza della maggior parte del Paese nei loro confronti (e nei confronti delle categorie e delle tematiche che difendono, vedi la questione immigrati). Il governo e i partiti che lo sostengono hanno talmente bisogno di questi continui autogol d’opposizione che – se ci facciamo caso – non appena le contestazioni isteriche si attenuano e la critica si fa più accorta, più azzeccata, meno avvelenata e rancorosa, più i portabandiera giallo-verdi si sentono letteralmente mancare il terreno sotto i piedi, non sanno più che fare: si smarriscono e cominciano a fare incomprensibili e auto-sabotanti sciocchezze, storditi dalla loro incontrollata smania (social e non) di piacere. Polidori docet.

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