Sogni di mappe e territori. Considerazioni a partire da “Helgoland” di Carlo Rovelli

di Giulio Blason

 

Nel suo ultimo libro, “Helgoland”, Carlo Rovelli traccia un’avvincente storia della teoria dei quanti e spiega al suo pubblico come le nozioni proposte dalla fisica quantistica sulla costituzione della realtà siano essenziali per formare una mappa sempre più precisa della nostra rappresentazione del mondo. Rovelli riesce a dipingere un vasto panorama di idee e immagini in una bellissima tela nella quale – destreggiandosi tra Einstein, Heisenberg e Nāgārjuna – non manca di menzionare il concetto espresso dal filosofo e matematico Alfred Korzybski secondo cui “la mappa non è il territorio”. Rovelli ci offre un evocativo esempio pratico di questo concetto nelle pagine in cui scrive: “fra le nostre mappe mentali e la realtà c’è la stessa distanza che corre fra le carte dei naviganti e la furia delle onde sulle rocce bianche delle scogliere dove volano i gabbiani”.

Nonostante l’autore nella sua magistrale esposizione dissuada il lettore dal perseguire una visione del mondo retta dal determinismo meccanicista, non si può fare a meno di riflettere su quanto la fiducia dello stesso Rovelli nei riguardi di una sempre più accurata mappatura del reale lasci qualche margine al sogno di poter trovare un giorno la chiave d’accesso alla totalità dell’universo. Secondo questa visione, determinista in ultima istanza (seppur non necessariamente causale), l’universo sarebbe teoricamente conoscibile nella sua totalità – a condizione di possedere gli strumenti adeguati al suo disvelamento.

A molti piace pensare che in un futuro più o meno lontano l’uomo sarà probabilmente in grado di produrre nuovi strumenti e aumentare le proprie capacità cognitive fino a rendere la totalità del reale integralmente conoscibile, ossia fino a che – per citare nuovamente Korzybsky – la mappa non coinciderà esattamente con il territorio. Questo antico ideale è in grado di muovere gli essere umani verso ambiziosi progetti e grandi azioni, mobilitando risorse e vite intere all’esplorazione e ricerca della conoscenza. Tuttavia, la sua realizzazione non è priva di complicazioni.

In un mondo deterministico, ogni futuro è già trascorso. Le tracce del passato, umane e non, sono segni che interpretiamo con diversi gradi di (in)certezza e approssimazione, consci dell’impossibilità di seguire ogni singolo movimento e interazione delle particelle che compongono la realtà. Ogni interazione futura è già scritta nel movimento di suddette particelle in sistemi e aggregazioni di diverse complessità. Stante questa condizione, possiamo esercitarci a intuire infiniti futuri possibili e giocare a influire sulla loro prossima realizzazione. Ma il realizzarsi di ognuno di questi possibili appartiene soltanto al futuro, e perciò ci sfugge irrimediabilmente, almeno fino al momento in cui si immanentizza, confermando o smentendo le nostre predizioni.

I segni con cui cerchiamo di interpretare il futuro sono infatti diversi rispetto a quelli con cui interpretiamo il passato, hanno un altro peso: sono tracce di futuri possibili. Se la ‘certezza’ nei confronti di un evento passato viene garantita dall’ammontare di segni o, più prosaicamente, dai dati che vanno a formare e corroborare una precisa interpretazione, il futuro invece non può essere accertato finché non accade. I segni infatti si prestano a speculazioni potenzialmente infinite, mentre il calcolo della loro probabilità è limitato ai mezzi che abbiamo a disposizione nella realtà vigente.

La differenza tra l’interpretazione di eventi passati e quella in gioco nella predizione di eventi futuri è che la prima vaglia le tracce del passato per esprimere nel presente un giudizio su di esso, mentre la seconda interpreta il presente e il passato per “giocare d’anticipo” rispetto a un possibile evento futuro, per tentare di predire ciò che sarà. In una visione deterministica le leggi su cui si fonda l’universo sono fisse e immutabili. In questo senso, esse ci appaiono così caotiche e a volte francamente prive di senso solo perché non le abbiamo ancora completamente scoperte, nonostante la nostra conoscenza continui ad avvicinarvisi ogni giorno di più.

Con una provocazione si potrebbe dire che, in un certo senso, l’essere umano è dotato di libertà solo in quanto non conosce a fondo queste leggi, poiché la sua libertà è vincolata ai limiti che la realtà fenomenica pone alle sue possibilità di interazione con l’universo di cui fa parte – dalle particelle microscopiche alle inconcepibili vastità del cosmo percepibili solo come astrazioni. Qualora l’essere umano fosse veramente in grado di conoscere la totalità del reale, allora con questa sua conoscenza sarebbe libero di fare ciò che vuole: è questa una delle idee che stanno alla base della ricerca del sapere e dell’erezione del mito moderno della conoscenza emancipatrice, in aperto contrasto con l’uomo medievale che di sovente aveva con la conoscenza un rapporto di timore.

Se nell’Europa di Dante le spinte verso nuovi modi di conoscere e speculare erano già molteplici e variegate, è tuttavia risaputo che ogni nozione e dottrina, per essere pienamente accettata, doveva passare al vaglio del maggior potere dell’epoca: la Chiesa. L’istituzione romana deteneva infatti il monopolio della conoscenza e non si faceva alcuno scrupolo a condannare tutto ciò che potesse mettere in discussione i suoi precetti. Il poeta, dal canto suo (quello ventiseiesimo dell’Inferno), espresse perfettamente la visione della conoscenza delle istituzioni tardo-medioevali, descrivendo la rovina a cui Ulisse andò incontro nel suo volersi spingere troppo in là. Il sapere, per essere considerato utile e non dannoso, doveva infatti restare nei limiti dei principii religiosi. L’abitante del medioevo si muoveva dunque in un mondo dove la conoscenza era garantita dalla Chiesa: tutto ciò che veniva da essa ignorato o direttamente condannato poteva essere opera del Maligno. Sulla base di ciò, ogni rapporto con una nuova conoscenza poteva dunque causare la totale rovina dell’anima.

La leggenda rinascimentale del Faust esemplifica perfettamente i timori della sua epoca (la cui concezione del mondo è basata ancora su nozioni largamente medioevali) di fronte alle nuove scoperte scientifiche e al loro scontrarsi con la visione del mondo sostenuta dalla Chiesa. Se nel Faust Marlowiano il protagonista è alla ricerca della conoscenza assoluta, in quello di Goethe aumenta invece visibilmente l’importanza della conoscenza sensuale e dell’azione sperimentale. In entrambe le versioni, tuttavia, gli autori mettono in primo piano come l’essere umano sia mobilitato dalla sua sete di assoluto. Il librarsi verso l’assoluto scientifico ha assunto, in epoca moderna, una forma laica le cui radici religiose e filosofiche possono però difficilmente essere estirpate. La conoscenza scientifica ha certamente permesso all’uomo di emanciparsi dall’idea aristotelica, che ha dominato il medioevo, del Cosmo. Lo ha condotto a esplorare un diverso rapporto con la realtà che è sia figlio, sia in netta discontinuità con il mondo medievale e proto-rinascimentale.

Nonostante la Chiesa abbia da tempo rinunciato al suo monopolio, la questione attorno alla predeterminazione dell’universo e ai limiti della conoscenza umana, permane. Potrebbe dunque esistere, tramite la conoscenza scientifica, una vera e propria libertà che permetta all’essere umano di affermare l’esistenza di una volontà propria, di un libero arbitrio che non sia il semplice prodotto predeterminato delle reciproche interazioni tra le particelle di cui siamo composti e del loro rapporto con tutto ciò che percepiamo come Altro da noi?

Le complessità a cui andiamo incontro attraverso scoperte e speculazioni sulle strutture dell’universo ci costringono a rilanciare continuamente questa domanda, pur consci che la questione potrebbe non avere alcuna risoluzione. Tuttavia, è tramite la tensione tra l’impossibilità apparente di una soluzione e il desiderio di continuare a trovarla che l’essere umano traccia la propria rotta. Un percorso che ci porta alla semplice ma non scontata scoperta del fatto che siamo parte integrante del mondo che cerchiamo di conoscere e che, di conseguenza, la mappa è – da sempre – parte costitutiva del territorio che tentiamo di descrivere.

Gli strumenti che utilizziamo per orientarci non sono quindi altro che un’estensione della nostra percezione, protesi attraverso le quali ci rapportiamo con la realtà in qualità di osservatori e agenti allo stesso tempo. È in questa relazione che la realtà si dispiega sotto e attraverso i nostri occhi, rivelando tutta la nostra contingenza e costringendoci a venire a patti con lei, rimandando, ancora una volta, l’assoluto. Non potendo dunque l’essere umano rimuoversi dalla sua posizione di osservante sull’osservato (queste due categorie esistendo e influenzandosi a vicenda attraverso la loro relazione), il sogno di una conoscenza assoluta e imparziale è destinato, in chi l’ha avuto, a rimanere per sempre una chimera.

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