Sulla banlieue, Charlie e altre cose che non passano alla televisione

di Piero Rosso

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La strage di Charlie Hebdo è un’occasione per parlare di tante altre cose. Ci permette di dire che Parigi è un rapporto, prima che una città, tra il visibile e l’invisibile. Qui non ci si confonde mai: il Boulevard Périphérique dice chiaramente al Centro di stare al centro e al resto di starne fuori. Costruito sulla traccia delle vecchie mura di Parigi a confine della città, esso è ancora una muraglia che permette di passare ma non di rimanere, che ripete in continuazione il gioco del dentro e del fuori – e dunque dell’essere o non essere.

La strage di Charlie Hebdo ci fa pensare proprio al verbo essere: un attentato nell’11° arrondissement non costituisce un colpo diretto ai beaux quartiers, ma è pur sempre un attacco – il cui arrivo è stato invisibile – sferrato al cuore di una città che non ha occhi per l’esterno. È stato un movimento interessante, quello degli stragisti: prima dentro al Périphérique, poi di nuovo fuori. Seguendo questa oscillazione le sparatorie sono state trascinate in banlieue e lì si sono consumate, mentre Parigi, pian piano, ha ripreso controllo del proprio sguardo, dopo essere stata forzata a vedere ciò che ha sempre rifiutato. Le nostre televisioni ci hanno inviato più immagini delle manifestazioni che degli scontri; il video del poliziotto, freddato sul marciapiede così velocemente da sembrare una finzione, non è stato trasmesso con la stessa forza e la reazione della gente scesa in piazza per la marche du siècle è riuscita in ogni caso a calmare lo choc visivo.

La sera della prima sparatoria sono andato a République, dove era stata indetto un assembramento a supporto delle prime vittime; dopo aver fatto la fila per uscire dalla metro, tanta era la gente, mi sono ritrovato in una marea silenziosa, migliaia di persone ogni tanto rispondevano ai boati d’applauso scoppiati dall’altra parte di quella grande vasca di carne. La statua di Marianne, come in tutte le manifestazioni parigine, era stata scalata da alcuni dimostranti che esponevano con rabbia la frase Je suis Charlie su dei pezzi di cartone colorati in fretta a pennarello, poco prima che il font che tutti conosciamo si affermasse mondialmente. In basso, come a formarne il controcanto, stava la stessa scritta, composta da centinaia di candeline che una ragazza doveva continuare a riaccendere per colpa del vento. Tutta Parigi dentro una piazza per la libertà d’espressione, si dice. Un uomo parla con il suo vicino: “Sono contento, stiamo mostrando il meglio di noi, non il peggio” e finché resto lì, la manifestazione rimane una bellissima dimostrazione d’affetto. Poco prima di andare via, però, sento una signora al telefono dire: “E i musulmani, dove sono i musulmani? Dovrebbero scendere in piazza per prendere posizione contro il terrorismo!”, un’idea, questa, che si è sentita spesso nei giorni successivi. Dove sono i musulmani? Sempre là, a dieci minuti dalla piazza, a Barbès, alla Goutte d’or, a Menilmontant, ma anche nei quartieri centrali, e ce ne sono tanti, ma tanti, proprio al di fuori dal Périphérique, ma come vederli? Invisibili, adesso li si invoca, perché lo sguardo è sempre una questione di convenienza.

Ad averli visti davvero, non esisterebbe un discorso che associa l’Islam al terrorismo, non si parlerebbe delle “zone buie” della città in cui gli occidentali non dovrebbero mettere piede. Eppure, le barriere visive sembrano essere aumentate in queste ultime settimane; Parigi è sotto la protezione del servizio Vigipirate; uomini vestiti con un cappotto lungo e un po’ malandato stazionano al cancello dell’università, una volta spalancato e ora semichiuso, ci chiedono di vedere la tessera studenti e di aprire la borsa per ispezionarne il contenuto; molto spesso non ci guardano nemmeno. La stessa scena si ripete all’entrata dei grandi magazzini e dei supermercati. Eccolo, l’effetto di controllo: la città ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto e ora nuove barriere – finte, sottili, facilmente penetrabili – sono state messe in piedi: contro il terrorismo internazionale molte porte secondarie sono state chiuse con un nastrino bianco e rosso, di nylon; alla metropolitana, dove ogni giorno viaggiano migliaia di persone, si accede liberamente, mentre, davanti ad alcuni edifici, enormi fucili sono imbracciati con gesti plateali da militari e poliziotti. Ora come non mai si riproduce il discorso del dentro e del fuori, e se non è vero che tutta questa mobilitazione per la libertà di stampa è da buttare, bisogna almeno considerare i valori di verità che ha imposto.

Io sono Charlie, infatti, sembra l’insistente risposta alla domanda che ci rincorre sin dalla caduta dei grandi sistemi: Qui suis-je? (Chi sono?). Nessun parigino si è attardato al lavoro, fuori ancora buio pesto, per comprare l’eccezionale numero post-mortem del giornale satirico, allo scopo di rispondervi. Al prezzo di una marcia, di un po’ di tristezza e di tre euro ci siamo assicurati un pezzetto di identità e l’abbiamo messa in tasca, affermando ancora una volta che io c’ero, mentre i musulmani non si sono fatti vedere. Sembra che nella foga di rispondere alla domanda Chi sono? Parigi si sia dimenticata di rispondere ad altre ben più importanti. La periferia di Parigi in un certo senso non esiste proprio perché non ha avuto mai modo di rispondere a nessuna di esse.

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