Terza pagina #16. Storie di Svevo. “I giovani, la droga, ieri e oggi”

di Arturo Bandini

Cazzo Kurt…. ma come hai fatto a non capire quello che stava succedendo? Le stelle ti piovevano sulla pelle come granate, l’amore della gente, della tua gente, ti inondava come un conato di vomito. Come hai fatto a non capire che ti stavano prendendo per il culo? Come hai fatto a non capire che il tuo dolore, la tua essenza, erano solo oro finto nelle gelide mani del Capitale? E poi, quando ci sei arrivato, dovevi proprio ucciderti? Non potevi semplicemente fare altro? Forse la verità è che non ti sei ucciso affatto per quel motivo, ma perché eri un cazzo di tossico…
Ti sei ucciso perché ti sei accorto che, nonostante la tua ostinata lotta autodistruttiva, essere famoso era quello che volevi, che volevi tu, che avevi sempre voluto. Nella tua famiglia spezzata, nella tua vita alienata di provincia, nel tuo abbandono di ragazzo effemminato e gracilino… Tu lo volevi. Nei tuoi diari hai scritto “l’ho desiderato così tanto che non mi interessa più”. Così è stato anche per la celebrità. Il problema è che eri un cuore troppo semplice, una persona troppo vera, un vero tossico, un vero punk, qualcuno che doveva starsene fuori da quel mondo. Pensavi che saresti riuscito a fare capire alla gente il tuo messaggio, quel messaggio che tu per primo non sei mai riuscito a padroneggiare troppo bene. Un messaggio assurdo, che resta sincero solo fino a quando chi lo porta non ne è completamente consapevole; un messaggio che dice: la vera lotta è quella da combattere contro la parte di noi stessi collusa con questo mondo di merda, con questa menzogna al quadrato. Ma credimi Kurt, oggi che ho qualche anno più di te, ho capito che non si finisce di scoprirla, quella parte, quella menzogna… Noi che crediamo di essere i buoni – in un mondo che sta andando alla deriva; noi che giustamente gridiamo contro il nuovo fascismo – essendo nati e cresciuti nel peggiore dei fascismi, quello del capitalismo e del liberismo sfrenati, beh… anche noi non riusciamo a vedere il nemico dentro.
Kurt solleva la testa dalla chitarra che sta strimpellando, mi guarda dritto negli occhi, sospira, ripone lo strumento, si muove verso lo specchio (nel cui riflesso io appaio in secondo piano), prende una pistola dal cassetto del comò e si spara in bocca. Nello specchio resto solo io.

Mi sveglio gridando, per fortuna la bambina non se ne accorge (il beato sonno dell’infanzia!). Scappo in soggiorno, o meglio, nella cucina abitabile di tre metri per tre dove Svevo sta dormendo sul divano. Cazzo Svevo non sai cos’ho sognato. Svevo si stropiccia gli occhi, mi guarda, “e che cazzo avrai sognato, vaffanculo, non hai visto che dormivo?!”. Ho sognato Kurt, io gli facevo una filippica su quanto è stato scemo, fragile e vanesio ad ammazzarsi in quel modo. “Eh”, mi fa Svevo, “e quindi?”. E niente, lui ha sospirato, è andato davanti allo specchio, si è sparato in bocca e mi ha lasciato solo. “Cazzo vecchio mio, cosa hai mangiato ieri sera? Ti avevo detto che birra e cioccolata era un mix letale…”. Lascia stare, ti faccio il caffè… “come minimo dio cane! dopo che mi svegli così, per queste stronzate!”. Svevo è incazzato, forse sono stato un po’ stronzo a svegliarlo per questa sciocchezza, ma io sono ancora turbato. Ho bisogno di parlare. Scusami Vecchio, dai ti faccio il caffè. E comunque guarda che sono le sette, tra mezzora devi andare al lavoro, non è che ti ho svegliato proprio all’alba. “’Fanculo!”, mi fa Svevo, “se devo uscire di casa alla sette mezzo mi sveglio alle sette venticinque, lo sai! Per cosa dormo vestito secondo te?!”. Perché sei pigro Svevo, e anche un po’ sporco, senza offesa eh… . “Ma vai a cagare. No, dormo vestito perché così mi posso alzare il più tardi possibile, e non venire svegliato alle sette da una checchina che ha pisciato il letto perché Kurt gli si è sparato in muso lasciandolo solo nello specchio delle sue cazzo di brame”.

Ho capito Svevo, ti ho chiesto scusa. Ecco il caffè, ci vuoi il latte? “Lo sai che ci voglio il latte, sfigato, non fare la mogliettina del cazzo!”. Mi sorride, dopo il caffè troverò un modo per tornare sull’argomento, non riesco a smettere di pensare al sogno. Forse è meglio se gli parlo un po’ di figa, e gli ripropongo la questione sotto mentite spoglie. Senti Svevo hai presente Miriam? “La fichella giovane che lavora con te?” Sì. Ecco, l’altro giorno, in pausa cicca, mi ha fatto un discorso strano. O meglio, io le ho fatto un discorso strano. “Non avevo dubbi” – chiosa Svevo. Vabbè, insomma, sai che lei fa festa, si impasticca di brutto, va ai rave eccetera. “Sì”. Le ho chiesto se, come è stato per noi, essere dei drogati, drogarsi, spaccarsi insomma, abbia per lei un qualche significato più ampio del semplice sballo. “Madonna santa, solo tu puoi chiedere queste cose a una ragazzina di ventidue anni in pausa cicca, sei proprio stronzo!”. Forse Svevo ha ragione, ma io sono fatto così (la pausa cicca coi colleghi è un momento sacro di socialità, di contatto umano – un po’ come la fila al cesso quando sei in discoteca.). Vabbè sì, sono un rompicazzo, e sai cosa mi ha detto Miriam? “No”. Mi guarda storto e mi fa “in che senso?”. E io: Miriam, nel senso che se invece di scopare, fare shopping, fare un corso di yoga, andare alle mostre di Frida Kalo o a teatro ti spacchi come una merda ci sarà un motivo no? Ti sto chiedendo perché ti spacchi invece di fare qualcos’altro nel poco tempo che ti resta dopo essere stata schiavizzata a voucher in questo bar di merda e dopo aver studiato cose che non ti daranno mai un lavoro. E Miriam mi fa “Perché in quei momenti riesco a non avere pensieri, a essere libera, a godere della musica, a sentire davvero la gente. In quei momenti riesco a essere davvero me stessa. Non come qui al lavoro, non come a casa coi miei, non come all’università”. Ah, ho capito, e perché il resto del tempo non riesci a godere di queste cose? “No, ma poi a te che cazzo te ne frega?” Niente, scusa, era solo per dire. Quando avevo la tua età io, il mio amico Svevo e tutta la nostra banda ci drogavamo di brutto. Eravamo tanti, a volte una dozzina, colonizzavamo il bar del paese, rappresentavamo una corposa minoranza nella popolazione giovane della città. Non ci auto-ghettizzavamo nelle feste, nei rave. Non che non ci andassimo qualche volta. Ma la sensazione meravigliosa di essere tanti, di essere insieme, fatti di acido, di extasy o di eroina per le strade, i bar, i negozi della città; quella sensazione di avere il diritto di popolare la città, le sue vie, con lo stesso diritto dei non-drogati… quella era davvero una cosa impagabile! Al mattino restavamo solo noi nel pieno centro della nostra cittadina di confine, eravamo i trionfatori. A volte ci distendevamo in mezzo alla strada, altre volte ci addormentavamo nel piccolo parco di fronte alla piazza principale. Miriam mi guarda come se fossi un alieno “che pezzenti!”, dice, ma la sua voce tradisce una punta di quel rispetto che si prova per chi ha vissuto più vita di noi. Poi sorride e mi fa “cosa stai cercando di dirmi?”. Niente Miriam, solo che c’è stato un tempo in cui drogarsi, essere dei drogati, non era una semplice faccenda personale, individuale, ma qualcosa che definiva un gruppo, una setta di persone, di giovani che vivevano diversamente, secondo valori differenti; che condividevano il fatto di essere degli emarginati, degli autoesiliati dell’amor proprio. La droga era per noi un’esperienza comune in un mondo che pretendeva subolamente di ricacciarci ognuno nel piccolo buco delle nostre testoline lobotomizzate; un modo di vivere e sentire diversamente; uno dei fondamenti della nostra piccola comunità di amici, di giovani sballati. E sopratutto, noi non ci vergognavamo di essere dei drogati, anzi, ne eravamo fieri, proprio per questo, perché era una delle cose che ci rendeva un “noi”, che ci opponeva a un “loro”.

“Cristo santo”, mi interrompe Svevo, “gliel’hai tirata ancora lunga ‘sta filippica alla povera ragazzina?”. No Svevo, anche perché dopo questo discorsone, giustamente, Miriam ha spento la cicca ed è rientrata in bar a mettere su una lavastoviglie. Svevo mi guarda con disapprovazione “non capisco perché cazzo devi sempre fare il meastrino così”. Fingo di non capire, lo guardo stralunato. Non capisco Svevo… “ma sì, il maestrino del cazzo. E quando eravamo giovani noi era meglio, noi ci drogavamo meglio, eravamo una famiglia. Sei solo vecchio e invidioso. Perché adesso se fai festa una sera stai male tre giorni, e ormai pure tua figlia ti sgama il giorno dopo. Quando eravamo dei ragazzini non avevamo nessuna consapevolezza che le cose stessero così come adesso ami raccontare alle fichelle, magari perché te le vuoi scopare, e Miriam ti piace, lo so benissimo. Quando eravamo ragazzini ci volevamo solo spaccare e basta, e anche nel nostro gruppo ci odiavamo, ci picchiavamo e tradivamo come ridere. Semmai quello di cui avevamo consapevolezza, più che della tua cazzo di decantata “socialità”, era che spaccarsi, autodistruggersi, era una estrema disperata forma di resistenza: una disperata resistenza a quello che il mondo, la società, il capitalismo, chiamalo come cazzo vuoi, sei tu il professorino, voleva fare di noi. Era un modo di opporsi a quello che – in così poco tempo – il mondo aveva già fatto di noi”. Oh, Svevone mio… adesso ti riconosco, lo so che lo sai anche tu che era così… Ti ricordi quel pomeriggio di dicembre… avevamo diciannove anni, eravamo andati a suonare le nostre canzoni in un parchetto di provincia, in quel periodo mangiavamo acidi come caramelle, te lo ricordi? Svevo annuisce e sorride debolmente. Siamo tornati a casa, a casa tua, dove avevo lasciato la macchina. In quel periodo, grazie all’LSD parcheggiata nei grassi e nel fegato, ci mandava in panico la rapidità con cui il giorno trapassava nella notte. I tramonti così freddi, e così intensi, la notte che entrava nel giorno, violenta, come una coltellata nel cervello. Il cambio di luminosità dell’aria, delle cose, ci faceva temere che tutto intorno a noi non fosse altro che una perfida bugia, una brutta menzogna… Avevamo quella paura solo perché non avevamo ancora capito, accettato, che l’unica cosa che non era mai stata reale era quello che ci avevano insegnato a essere. “Oddio, mi ritiri fuori questa vecchia storia… sono le sette e un quarto del mattino… tu non stai bene”. Si, te la ritiro fuori vecchio mio, ti ricordi o no allora, cosa ci siamo detti mentre il sole moriva in pochi istanti e la notte inondava il giorno come una secchiata di pensieri? “Che avevamo paura. Che ci faceva una paura fottuta. Che quella paura non era altro che la paura di non esistere noi, io te e tutti gli altri; la paura di non riuscire più a credere di essere dove ci avevano sempre insegnato”. Già Svevino mio. “La paura di dover cominciare da zero a capire, a creare, non tanto chi siamo – che quelle sono già tutte balle capitaliste, ma dove eravamo. La paura di dover cominciare a fare i conti col fatto che non siamo nella testa… che calcola, che ragiona, al ritmo dei jingle delle publicità e delle note sul registro; l’orrore di sapere che le radici di quello che vorremmo combattere affondano nel nostro stesso pensiero. La silenziosa consapevolezza di un rettile, che striscia e che da dentro ti sussurra che, se siamo qualcosa, siamo questo corpo che parla e gode, che viene marchiato dalle luci, dai suoni, dagli altri corpi; questo corpo misterioso, inspiegabile, incalcolabile, ingovernabile, per cui il pensiero non è che un estraneo, un fluido che gli scorre dentro come la clorofilla negli alberi: un sangue ultrasottile fatto di immagini e parole”.

Sai Svevo, non ti ho parlato di Miriam per caso, una volta l’ho trovata fuori da una festa, erano le sei di mattina. “Ah, vecchio porco, e cosa ci facevi alle sei fuori da un rave alla tua età”. Lascia stare – sorrido. “Eh, insomma, te la sei scopata?”. Macché, no!, però l’ho vista che piangeva. Aveva perso il passaggio, e non sapeva come tornare a casa. Era in un brutto down, il corpo evacuato di tutto il godimento, dopo la festa e la botta, lascia molte persone in una depressione devastante. Ti ricordi, anche al Greco faceva così. “A me mai” – fa Svevo. “Io quando da ragazzo mi risvegliavo sulle panchine dei Giardini ero come commosso, grato per aver avuto la benedizione di poter godere così tanto”. Vabè Svevo, adesso sei tu che fai il maestrino della botta però… invece a molti il down scatena una depressione devastante. E lo sai perché? “No”. Perché si sentono in colpa, si vergognano di aver osato godere così tanto; di aver attentato così selvaggiamente alle leggi del “dove sono”… di aver osato lasciar sconfinare la luce nelle tenebre. In quei momenti può succederti che i più angosciosi pensieri ti invadano, per vendicare l’attentato portato da tutto quel godimento al padrone che pensa giudica e comanda dentro di te. Non solo, dopo la botta molti si sentono in colpa per non essere capaci di conservare una briciola di quella felicità nella vita reale… lo sapevi questo? “Ah, ma pensa te… .Vabé, cazzi loro… e insomma ‘sta Miriam strafatta e senza passagio…?”. E niente, l’ho riportata a casa… . “E te la sei scopata”. Ma no, cazzo!, ti ho detto che stava in questo stato, e poi dai, è una ragazzina. No, l’ho solo riportata a casa, in tre quarti d’ora di viaggio non ci siamo detti una parola. Arrivati davanti a casa mi ha detto un grazie distratto ed è scappata dentro. Io sono rimasto qualche minuto a guardare l’alba che sorgeva tra le colline, un po’ triste e un po’ felice,… e me ne sono andato al lavoro, in after, … è stato terribile. Lungo la strada non riuscivo a smettere di pensare alla droga, alle droghe, ai drogati… non riuscivo a smettere di pensare a Kurt e a quanto sia necessario rivolgere quella pistola contro se stessi per riuscire a essere almeno un po’ diversi; a quanto sia difficile riuscire a farlo il giusto, cioè senza morirne. “Fantastico, veramente profondo vecchio mio”, mi interrompe Svevo sarcastico. “Ora però, se non ti spiace, io devo comunque andare al lavoro. E tu, caro Irvine Welsh dei miei coglioni, devi svegliare la bimba per portarla a scuola. E comunque non ci vengo più a dormire da te, mi hai veramente fatto cadere le palle… Se volevo una seduta di psicoanalisi alla sette di mattina dormivo da mia morosa”. Lo so Svevo, hai ragione, sono imperdonabile.
Svevo entra nell’ascensore dalle intollerabili pareti arancioni… Va al lavoro il vecchio Svevo, lo saluto colpevole ma lui, come sempre, dopo ogni momento che viviamo insieme da più di vent’anni, scompare in un sorriso.

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