“The silence of animals”: i falsi miti del progresso

di Cristiano Carchidi

Il nuovo libro, ancora inedito in italiano, di John Gray The silence of animals, come il precedente Cani di paglia, è una critica senza quartiere al mito del progresso, e insieme un’indagine sui limiti del linguaggio e sul suo al di là: il silenzio.
Il primo capitolo, “Un antico caos”, è intermezzato da lunghe citazioni del bellissimo romanzo di Joseph Conrad Un avamposto del progresso. La storia di Conrad si svolge in Congo e ha come protagonisti due mercanti belgi, Kayerts a Carlier, inviati nel paese africano con il compito di trattare lo scambio di schiavi con partite di avorio. I due, inizialmente sotto shock per essere stati coinvolti nello smercio di uomini, riescono a trovare una giustificazione delle loro azioni proprio nel vantaggio economico ricavato dall’impresa. Una volta concluso il lavoro i due mercanti si ritrovano però senza occupazione, nell’attesa che una nave mercantile inglese li venga a recuperare.

Durante questo periodo di stallo ai due capita di leggere sui giornali europei le molte notizie che glorificano la missione di chi, come loro, portava “luce”, fede e commercio in quelle terre buie e desolate. I due trovano, in queste letture quotidiane, il modo di riabilitarsi di fronte a sé stessi. L’attesa però cresce, la nave non arriva, la mancanza di lavoro li deprime e la mancanza di cibo li porta, affamati, a lottare tra di loro fino al punto in cui, nella baraonda, Carlier rimane ucciso dal suo stesso amico. Non potendo sopportare il dolore Kayerts, sconvolto, lega un cappio a una croce e si impicca proprio mentre la nave mercantile si avvicina al porto.

Gray alla fine del racconto riporta una frase-chiave di Conrad – il quale ha tratto ispirazione per il romanzo dalla sua storia personale, che lo portò in Congo sul finire dell’Ottocento con una nave mercantile – in cui l’autore confessa di aver capito che fino al momento del suo arrivo in Congo, in quella parte così profonda dell’Africa, lui stesso non era stato altro che un animale: l’animale europeo che smerciava schiavi come fossero oggetti in nome del progresso e della civiltà.

La citazione è esemplare perché la storia narrata simbolizza perfettamente il senso del testo di Gray: il progresso è un mito moderno che – finché rimane convincente e santificato – dà senso e soddisfazione alla vita dei “credenti”, ma anche che – nel momento in cui crolla – trascina con sé tutto il resto gettando i non-più-credenti nella più cupa disperazione.

Si fa spesso l’errore di equiparare il mito del progresso alla religione in generale, mentre, come nota l’autore, in molte delle religioni più antiche esso non è minimamente contemplato. La maggior parte delle religioni più antiche ha infatti il proprio fondamento nella continuità assoluta e nell’identità piena del tutto con se stesso, nella ciclicità del tempo e non nel suo “progresso”. Fa eccezione la tradizione profetica ebraica, coronata nel primo cristianesimo dell’“apostolo” Paolo, che introduce per primo nella storia il pensiero del tempo progressivo, logicamente necessario per poter postualre l’avvento del regno del suo Cristo alla fine dei tempi.

La visione paolina del cristianesimo, che sarà vittoriosa e conquisterà Roma – e con essa l’occidente – si fonda infatti sull’escatologia del tempo a venire, il tempo del Cristo, l’apocatastasi in cui il povero sarà ricco e in cui il pazzo sarà savio. Ma essa da sola non avrebbe potuto reggere l’idea di progresso, dato che ad un certo punto è apparso evidente che il “Regno” non sarebbe arrivato o forse, come credevano Lutero e Calvino, che esso non è di questo mondo. Il mito paolino del progresso ha potuto evolversi e resistere alla secolarizzazione solo grazie alla Scienza moderna (la cui genealogia risale a Socrate-come-mito), alle sue scoperte, alle sue vittore e al senso di controllo e sviluppo che essa ha generato nell’Uomo almeno fino alle Grandi Guerre e, in particolare, fino alla tragica conclusione della Seconda Guerra Mondiale (che ha evidenziato, oltre alle sue capacità costruttive, anche tutta la sua potenza distruttrice).

Il problema affrontato da Gray è quello di capire cosa produce la caduta del mito nelle persone che in esso credono fermamente, indagando al contempo l’effetto che il crollo di questo mito potrebbe significare per l’umanità. Il problema è infatti che – finché il mito regge – un soggetto ha la sensazione di camminare verso il progresso tenendo per mano l’intera umanità; ma quando invece il mito crolla il suo tonfo vorticoso trascina con sé chi marciava con esso. E tutto ciò perché, come ci ricorda Gray, “l’umanità non è che una finzione composta da miliardi d’individui per ognuno dei quali la vita non è che singolare e caduca”.

Il libro è una sorta di collage di storie e teorie (eterogenee e molto interessanti) che nell’ottica dell’autore dovrebbero riuscire a indicare qualcosa che il discorso non è capace di descrivere fino in fondo: la vertigine creata dal crollo millenario del mito del progresso e l’ancora più vertiginosa immagine del silenzio assoluto, che il linguaggio non è in grado di avvicinare e descrivere.

La conclusione del primo capitolo è dedicata alla critica di un altro mito, quello della ragione, esemplificato nella famosa formula 2+2= 5, usata variamente da Orwell nel suo 1984 e da Dostoevskij nelle Memorie del sottosuolo, per descrivere il rifiuto alla razionalità come possibilità fondante di un futuro migliore (con riferimento esplicito al sogno marxista-leninista di un progresso “pianificabile”), ed esemplificata nella stupenda conclusione dell’uomo del sottosuolo:

Sono d’accordo anch’io che il due per due quattro è una cosa eccellente; ma se proprio si ha da lodar tutto, anche il due per due cinque a volte è una cosuccia graziosissima.

Il secondo capitolo del libro, “Oltre il pensiero ultimo”, si presenta come uno spettro delle possibili reazioni all’impensabilità del progresso e all’incapacità pianificatrice della ragione. Per far questo Gray si affida alla filosofia freudiana del disincanto e alla tragica consapevolezza di Freud (ma non di gran parte della scuola da lui fondata) dell’incurabilità assoluta dell’essere umano, della sua irrimediabile lotta tra un principio di vita e un principio di morte. La rassegnazione, che Gray definisce stoica, del padre della psicoanalisi di fronte alla necessità di questa lotta straziante ci viene restituita dall’autore attraverso l’immagine di un Freud morente che non vuole e non può rinunciare al proprio sigaro nonostante la dolorosissima protesi mandibolare applicatagli a causa del tumore. Gray ha grande interesse a sottolineare, con questo apologo, il rapporto di Freud con il dolore, la lenta rivalutazione che egli ha fatto di questo termine lungo tutto il corso della propria vita e – legato a questa revisione – il grandioso lavoro di rimaneggiamento del significato dei termini “salute” e “malattia” propiziato dalla sua dottrina.

Gray cerca di scovare i miti della modernità che si nascondono sotto il sicuro mantello della razionalità, della perfettibilità e del progresso morale e civile di cui l’uomo moderno sarebbe divenuto capace. Freud sembra essere per Gray il pensatore che, oltre ogni possibile consolazione, pone la domanda: “Come possono gli esseri umani moderni vivere senza miti?” La risposta a questa domanda è paradossale: il mito è necessario ed è proprio nell’accettazione della necessità del mito per l’uomo, che può fondarsi un modo di essere basato sulla finzione consapevole, o meglio, su una continua creazione di finzioni necessarie per l’uomo al fine di proseguire la sua strada senza meta.

Il terzo e ultimo capitolo del testo, “Un altro raggio di sole”, è angusto per sua stessa costituzione: si cerca attraverso il linguaggio di parlare dell’impossibilità del linguaggio stesso. L’autore cerca di “avvicinarsi all’indicibile” da diverse prospettive, alla ricerca chimerica di quel punto-limite oltre il quale solo il silenzio è possibile. Il silenzio è infatti un concetto liminare e utopico, specialmente per l’uomo, che senza volerlo (e a volte addirittura senza accorgersene) parla sempre, specialmente quando – da solo con se stesso – “subisce” quell’incessante monologo interiore che chiamiamo pensiero.

Molto diverso è il silenzio dell’animale, privo di linguaggio, capace di sperimentare il silenzio “interiore” delimitato dalla semplice azione, ovvero da una successione di atti che non si auto-configurano come un sé unitario e continuo. In questo punto preciso Gray individua l’inevitabile tragicità dell’animale-umano, costretto dal linguaggio all’impossibilità del silenzio e alla credenza in un sé che agisce, ragiona, decide; un sé senza il cui abbattimento non è possibile nemmeno provare a immaginare il limite oltre il quale il silenzio è possibile.

L’accettazione della tragicità, e un paradossale misticismo senza Dio, sono ciò che – in conclusione – il filosofo inglese auspica per il nostro tempo, in cui ci appare sempre più irrinunciabile produrre e ricercare il rumore, spesso al solo scopo di non avvicinarci troppo a quel silenzio dentro cui possiamo vedere disfarsi il nostro sé, e con esso il mito del progresso che lo ha creato.

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