Umanismo e utilitarismo

di Massimiliano Mezzarobba

renzi umano

A chi fosse incuriosito dal dibattito internazionale attorno alla cosiddetta “didattica per competenza”, e chiedesse conto dell’effettivo ruolo che questa attualmente occupa nel mondo dell’istruzione, si potrebbe suggerire di gettare un rapido sguardo alle tracce che sono state proposte quest’estate ai “maturandi” in occasione della prima prova dell’esame di Stato. L’attenzione del lettore verrebbe, allora, immediatamente stimolata dal tema in forma di saggio breve (o di articolo di giornale) proposto per l’ambito socio-economico, la cui traccia recita testualmente: Le sfide del XXI secolo e le competenze del cittadino nella vita economica e sociale.

Tra i documenti che gli addetti ministeriali hanno fornito agli studenti per l’elaborazione dell’argomento, spiccava il breve estratto di un saggio, pubblicato nel 2010 dalla filosofa e giurista statunitense Martha Nussbaum, che negli ultimi anni ha fatto alquanto parlare di sé. Il saggio in questione, eloquente sin dal proprio assertivo sottotitolo (Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica), si è ritagliato uno spazio d’eccezione nell’odierno dibattito sul ruolo politico e sociale della scuola, ed è diventato un punto di rifermento fondamentale per tutti coloro che ritengono l’insegnamento delle materie classico-letterarie ancora imprescindibile per la compiuta formazione alla vita pubblica e istituzionale.

La scelta, da parte del Ministero, di inserire nei contenuti della traccia suddetta un tale richiamo sembra dunque dettata dalla necessità di controbilanciare, in qualche modo, il nuovo paradigma in fase di progressiva affermazione nell’ambito dell’istruzione statale. Paradigma che, peraltro, è stato confermato dagli altri due contributi proposti per lo sviluppo del tema: da un lato, uno stralcio del documento del Parlamento Europeo a cui la recente tendenza alla “formazione per competenze” può essere fatta risalire; dall’altro, nientemeno che un intervento ben mirato, e risalente al 2009, dell’allora Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Ignazio Visco.

I due testi in questione fanno, in altre parole, riferimento a quell’ampia riprogrammazione d’interessi che a parere di molti si è – più o meno subdolamente – insinuata nel panorama internazionale dell’istruzione scolastica, dilagando inarrestabilmente negli ultimi anni. Fanno cioè riferimento all’intenzione politica di rimodellare l’intero sistema didattico dei Paesi occidentali attorno alle richieste di un mondo del lavoro sempre più dominato dalle tecnologiche informatiche e scientifiche – e che, secondo i suoi detrattori, vorrebbe ridurre il compito della scuola alla sola trasmissione di competenze a carattere sostanzialmente pratico-professionalizzante, a discapito di tutto ciò che non è direttamente e proficuamente spendibile sul mercato.

Questo neanche troppo velato e sistematico programma d’intenti – di cui il famoso Consiglio Europeo tenutosi a Lisbona nel 2000, esplicitamente citato, come abbiamo visto, nei materiali della nostra prova di matura, rappresenterebbe un’importante tassello costitutivo – è proprio quello che la Nussbaum indica come la più deleteria tra le tutte le possibili politiche della formazione. Deleteria non solo per i danni che potrebbe causare alla storia della nostra della nostra cultura, così legata ai contributi di stampo umanistico, ma deleteria addirittura per il già vacillante funzionamento del complesso sistema “democratico” che abitiamo.

Non sembra perciò un caso che, in occasione della pubblicazione di un dibattuto articolo sulla rivista Il Mulino nel dicembre del 2013, lo scritto della Nussbaum sia stato chiamato in causa anche da Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito: autori, in tale circostanza, di un accorato appello a sei mani per l’insegnamento delle scienze umane; esplicitamente e saldamente ancorato, però, alle esigenze della “buona” vita politica.

I tre intellettuali si sono, anzi, spinti persino oltre la tesi fatta propria per prima dalla Nussbaum: se quest’ultima aveva denunciato i rischi insiti, per le società democratiche, nel declino della formazione umanistica a favore del primato dell’“economico”, essi hanno sottolineato quanto, in Italia, questo pericolo sia ancor più decisivo e attuale. Da sempre, ha spiegato il trio di autori, entro i confini geografici della nostra Penisola, cultura umanistica e “tecnica” politica si sono sorrette e alimentate a vicenda, e la categoria della prima si è sovrapposta a quella della seconda: al punto che, la crisi dell’una, porterebbe irrimediabilmente alla crisi dell’altra (sempre ammesso che la crisi della politica non si spieghi invece proprio grazie alla massiccia presenza di presunti umanisti tra i politici).

Se appare difficile negare un fondamento a tale argomento, esso può tuttavia stridere alle orecchie di chi ritiene che gli spazi per la cultura umanistica debbano costruirsi all’interno delle società odierne su differenti piani rispetto a quello tradizionale. Infatti, propugnare una così stretta correlazione tra pratica politica e discipline di stampo letterario significa – lo si voglia o no – sbilanciarsi a favore di una concezione essenzialmente “utilitaristica” di queste ultime. Significa, in altre parole, cercare a tutti i costi, per i saperi umanistici, uno sbocco compiutamente tangibile, una funzione immediata e percepibile, un compito storico direttamente osservabile: proprio laddove si denuncia l’irrefrenabile espansione delle più spendibili e concrete materie tecnico-economiche a danno di quelle più tradizionalmente classiche. Compiere una tale operazione significa, insomma, pretendere che l’“umanistico” si confronti, in una sorta di sfida dei saperi, su di un terreno che forse non è il suo, un terreno dal quale difficilmente saprebbe uscire vittorioso e su cui correrebbe il rischio di trovare il proprio peso e il proprio valore drasticamente ridotto e inesorabilmente sottomesso.

Evitare questa sorta di possibile circolo vizioso, rivalorizzando davvero lo spessore delle discipline umanistiche, richiede, forse, la completa sottrazione di tali discipline alla categoria dell’“utile”. Richiede, quindi, la loro restituzione a una sfera d’interesse del tutto altra rispetto a quella della produttività tout court: una sfera nella quale tali saperi osino imporsi come realmente alternativi, dispiegandosi in tutte le loro autentiche potenzialità e aprendo così uno spazio in cui sia ancora possibile ritrovare il senso di una dimensione diversa da quella del mero “produttivo”. Quella stessa dimensione che vorremmo definire dell’abbandono o del distacco; del rilassamento o del diletto; della curiosità momentanea, della creatività svincolata e della ricerca fine a se stessa; una dimensione, forse, a carattere semplicemente ludico, o comunque disimpegnato, che Giorgio Agamben ha definito da tempo col termine di “inoperosità”.

Un’area, per così dire, protetta, e totalmente altra: dove sia – in ultima analisi e in estrema sintesi – ancora praticabile una qualche forma di “cura di sé”. Un’area ai cui spazi di sopravvivenza si guarda forse sempre meno – e spiace che le ricche e ben motivate argomentazioni di Martha Nussbaum da una parte, di Asor Rosa, Galli della Loggia, Esposito dall’altra (che pur sono in larga parte condivisibili nell’inquietudine di cui si fanno portavoce), non sappiano indicarne il perimetro con maggior precisione e determinazione.

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  1. Articolo intelligente, tuttavia vorrei sottolineare una cosa. Voi sembrate qui richiamarvi eplicitamente al concetto di “inoperosità” di Agamben come possibilità per la cultura umanistica, ovvero di fronte al calcolo e al tecno-capitalismo che riduce tutto all’utile e alla possibilità di un impiego, le materie umanistiche dovrebbero aprire una dimensione alternativa a questo modo di pensare. Ora però non vedo come questa idea, che tra l’altro Agamben recupera sicuramente da ambienti francesi (Lyotard e Baudrillard ad esempio esprimono idee simili) possa concretizzarsi seriamente. Certo, si potrebbe affermare che concretizzando i progetti si finisca per entrare nell’idea utilitarista della conoscenza, ma personalmente a me sembra che questa idea non abbia fatto altro che portare all’impotenza della cultura umanistica di fronte al dilagare del tardo spirito del capitalismo. Il fatto che la conoscenza umanistica abbia valore ludico e inoperoso, come afferma Agamben nel pieno spirito sessantottino oserei dire, è in se’ giusto, ma non può a parer mio disgiungersi da una critica sociale e politica, che si concretizzi in un progetto concretamente alternativo a quello attuale, dominato dalle scienze di fatto e dal pragmatismo cinico.

    Saluti

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