United colours of Ferguson

di Nicola Bocola

Finiti i cortei, gli slogan urlati a squarciagola, i saccheggi e le cariche della polizia, a Ferguson, gli stradoni enormi tipici dell’entroterra periferico statunitense sono rimasti deserti. I negozi sono chiusi, alcuni verosimilmente non riapriranno più. Sui tetti, passamontagna, mimetica urbana ed M4 imbracciato, un gruppo paramilitare di volontari (bianchi) controlla dall’alto le vie cittadine nonostante l’ordinanza della polizia (de facto mai attuata) che gli imporrebbe di abbandonare le posizioni.

Ma, evidentemente, non è stato sempre tutto così. Difficile a credersi ma Ferguson, sobborgo settentrionale della contea di St. Louis, era un tempo una ridente cittadina. Fino agli anni ’90 almeno, quando era ancora una roccaforte della media borghesia bianca e la minoranza afroamericana era effettivamente una minoranza. La strada che ha percorso Ferguson, e che in realtà accomuna la quasi totalità della periferia statunitense, è di emigrazione, disoccupazione, scarsa scolarizzazione, droghe sintetiche tagliate col detersivo e disagio esistenziale depositato ovunque come cenere. Nel giro di una generazione, con l’occupazione in costante calo e tassi di povertà raddoppiati, della popolazione rimasta, tre quarti è oggi di colore.

La mancanza di una pianificazione territoriale che mantenesse alto il prezzo delle case, tanto cara a quei piccoli borghi di villette a schiera proprietà dell’America “bene”, se a suo tempo significò abitazioni economiche che attiravano chi non aveva un reddito che gli permettesse di vivere in città, nel lungo periodo, trasformò il paese nel contenitore di un concentrato di degrado sociale ed economico frutto della recessione. Gli impiegati nei cosiddetti low skill jobs, che erano stati i primi a trasferirsi dal centro, furono anche i primi a perdere il lavoro all’ingresso nella nuova congiuntura economica; molti altri, avendo già perso l’impiego, si rifugiarono nell’hinterland per scappare dal carovita della grande città. Così, mentre la classe media si spostava progressivamente verso i sobborghi più ricchi e prevalentemente bianchi ad ovest, a Ferguson, come altrove, veniva soppiantata da frotte di disperati, che affluivano, masticati e sputati, dalla metropoli. Il risultato fu una città con una disoccupazione crescente e larghe fasce di povertà concentrate in aree densamente abitate. Situazione che, da qualche tempo, è diventata la norma in molte zone periferiche.

A grandi linee, la storia di Michael Brown la conoscono tutti. Anche perché, nelle sue dinamiche, non differisce sostanzialmente dagli innumerevoli casi che da tempo immemore riempiono le colonne della cronaca nera americana. Questa volta, nel copione trito e ritrito, la parte da protagonista ce l’aveva Mike Brown, diciottenne afroamericano, cresciuto in un quartiere povero, in una casa povera ed all’interno di una situazione familiare difficile. Un caso, il suo, da manuale. Mike, dopo aver rubato una scatola di sigari da un minimarket aggredendo il proprietario, avrebbe ben pensato di camminare in mezzo alla strada – cosa che avrebbe portato ad una colluttazione con l’agente Darren Wilson, poi, in modo più o meno inspiegabile degenerata in sparatoria. In tutta la storia, una certezza è che non sapremo mai com’è andata, considerato che il Gran giurì ha deciso che non ci sono prove sufficienti per il rinvio a giudizio di Wilson, scatenando rivolte e saccheggi. L’altra, è che la chiave di lettura che vede l’America svegliarsi dal suo sogno post-razziale e l’affermarsi di una nuova questione afroamericana è, nel migliore delle ipotesi, riduttiva e semplicistica.

Nelle rivolte di Ferguson, evidentemente, c’è più di un ragazzo nero disarmato ucciso dalla polizia. C’è impotenza, male di vivere diffuso, povertà atavica e una grigia rassegnazione che, come un sottile velo, copre i volti dei manifestanti in marcia. Qualcosa che trascende il semplice colore della pelle. Qualcosa che invece è stato assorbito dal disegno urbano ed espresso pienamente dalla linea invisibile che segna il confine tra le praticamente parallele West Florissant Avenue e South Florissant Road. Nella prima, dove gran parte delle proteste hanno avuto luogo, s’allungano ai lati della strada discount semivuoti, fast-food e compro-oro che si alternano agli uffici dei payday loans. Niente a che vedere con i café chic, i ristorantini per famiglie e gli appartamenti in stile loft appena costruiti, dell’altra.

Una città spaccata da una questione di classe più che razziale. Va da sé che risulta difficile riuscire a separare in modo netto le due, quando è principalmente la parte afroamericana di popolazione a risultare tagliata fuori dalla classe media, per lo più bianca. Ma se chiunque nel paese ha chiesto giustizia per Michael Brown, camminando tra le villette e nei wine bars frequentati da chi a Ferguson ce l’ha fatta, afroamericani e caucasici con un certo status sono sempre stati concordi nel lasciar perdere cortei e sit-in ed aspettare il regolare corso della giustizia. D’altra parte, a microfoni spenti, il ceto medio di colore non fa discorsi diversi, né parla di zone come quella di Canfield Green – dove tutta la vicenda Brown si è svolta – con parole o tono diverso da quello dei vicini bianchi (crf. B. Casselman, “The Poorest Corner Of Town”, FiveThirtyEight, 26-8-2014).

Che a Ferguson gli agenti potessero essere prevenuti nei confronti di certi quartieri e verso la popolazione di colore è difficilmente obiettabile. Detto questo, rilevato il dato, occorre anche identificarne le ragioni profonde. Superata la narrativa dell’oppressione razziale, gli abusi in divisa per tutti gli Stati Uniti risultano essere un fenomeno comune ma di per sé transrazziale e con l’unica costante del disagio sociale. Ciò non significa ignorare una certa incidenza all’interno della comunità afroamericana, ma riconoscerne la natura economica e cetuale. E in un conflitto che è di classe, transrazziale risulta essere anche la violenza di ritorno. Come sembra dimostrare il caso di Ismaaiyl Brinsley, ventottenne nero con un passato di degrado e piccoli crimini che, non più tardi della fine di dicembre, per vendicare Brown, freddò a Brooklyn gli agenti Rafael Ramos e Wenjian Liu, rispettivamente di etnia latinoamericana e asiatica.

Una distinzione, quella tra questione di razza e di ceto, che non è solo formale ma che segna la differenza che passa tra promuovere finanziamenti a pioggia ad organizzazioni no-profit in campagne di sensibilizzazione ed integrazione di dubbia utilità o sostenere politiche per l’occupazione, lotta alla povertà e recupero del territorio per uno sviluppo armonioso della comunità tutta. Continuare a sostenere una retorica meramente di tipo razziale per ignorare la natura di classe del problema, con tutto ciò che comporta in termini di politiche, significa assicurarsi, in un tempo molto breve, un nuovo caso Brown.

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