Uomini e cani

di Alessandro Gregoratto

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Lo scorso dieci ottobre si è consumato il quarto anniversario della morte di Luca Massari, il tassista milanese selvaggiamente ammazzato di botte, nell’autunno del 2010, per aver accidentalmente investito un cane. Mentre in Italia veniva comminata la sentenza definitiva agli assassini, durante l’estate del 2013, conobbi a Vienna Jonathan: un ragazzo francese, nato in Congo, che aveva già girato parecchio il mondo nei suoi 22 anni di vita: aveva vissuto a Parigi, a Montreal, per un breve periodo nel suo paese natale, e – appunto – a Vienna.

Jonathan era un fervente cattolico: ricordo con divertimento che non riusciva a capacitarsi del fatto che qualcuno potesse credere alla teoria evoluzionistica di Darwin: “ci sono degli scienziati che sostengono che l’uomo discenda dalle scimmie! That’s crazy!”, diceva. Ma più di ogni altra cosa Jonathan non poteva sopportare il popolo austriaco: per tutta la sera non fece altro che parlar male di quelli che allora erano i suoi concittadini, disprezzandone l’impenetrabile freddezza e i comportamenti – dal suo punto di vista – assolutamente incomprensibili.

Jonathan ci fece notare, con reale sbigottimento, che quasi ogni cittadino aveva uno o più cani, i quali venivano portati a spasso in parchi appositamente attrezzati, nutriti con cibi specifici, accuditi e coccolati con molto amore, al punto tale che – aggiungeva al colmo dello stupore – si raccoglievano addirittura i loro escrementi e si puliva loro il sedere. D’altro canto però, insisteva Jonathan, in quel paese si facevano pochissimi figli, ed era rarissimo che una coppia ne avesse più di uno.

Come spesso accade, lo sguardo di chi è completamente estraneo al contesto in cui ci si trova immersi illumina con una luce diversa il contesto stesso, e permette di cogliere alcuni aspetti che solitamente sfuggono perché invisibili se osservati dalla prospettiva abituale. Le osservazioni del nostro amico sull’amore che delle persone possono provare per i propri cani suscitano istintivamente una certa repulsione. Come si può non voler bene al “migliore amico dell’uomo”, a questa meravigliosa creatura capace di offrire un calore e un attaccamento così totali e gratuiti da sembrare quasi impossibili? La superiore onestà e fedeltà del cane rispetto all’uomo è un dato indiscutibile. Il cane è veramente – senza sarcasmo – l’emblema delle migliori virtù cristiane, quelle che orientano ancora, nonostante tutto, la nostra idea di “individuo buono”.

Ma la domanda di Jonathan era un’altra, più terra terra: com’è possibile avere il cuore così colmo d’amore per un animale, per quanto meraviglioso esso sia, e contemporaneamente provare una tale indifferenza per gli animali della propria medesima specie? In quale universo logico risulta coerente fare fatica a dire anche solo “ciao” ad un umano che si vede ogni giorno al lavoro, mentre poi ci si perde in lunghe chiacchierate notturne con un animale che – pur intuendo i nostri stati emotivi – evidentemente non può capire quello che stiamo dicendo? E ancora, come può risultare preferibile allevare, crescere e accudire teneramente un bassotto piuttosto che un figlio, sangue del proprio sangue? (Il ragionamento è estremizzato, ma fino a un certo punto). Rispondere che un figlio comporta una spesa più ingente di un animale mi sembra davvero troppo terrificante per essere anche solo discussa.

Nel provare a fornire una spiegazione di questo fenomeno, potrebbe essere utile tenere in considerazione alcuni “modelli” peculiari delle società occidentali ed evolute in cui viviamo. Da una parte abbiamo i modelli veicolati da mondo dello spettacolo, cinema e televisione che ci insegnano che tutto è possibile, e che ognuno ha il diritto (quasi naturale) di essere speciale, un vincente. Questo porta le persone a sentire il peso di un diritto-dovere alla felicità e al benessere, alla soddisfazione delle proprie ambizioni e al raggiungimento continuo di vette di eccellenza. Così, il paragone continuo tra la propria vita reale e questo universo parallelo in cui pare esistano solo eroi (cioè quello dell’industria dell’intrattenimento tout-court), risulta – spesso inconsciamente – sempre più opprimente e demoralizzante per un numero crescente di soggetti.

Allo stesso tempo, è stato proprio il sistema capitalista e consumista in cui viviamo ad averci insegnato che tutto si può acquistare, che per ogni problema esiste in commercio una ricetta, una medicina che per una modica cifra ci permette di superare ogni difficoltà ci troviamo davanti. La lotta non è contemplata, così come il fallimento, l’attesa, la pazienza e il compromesso. Non si può negare che oggi si sia persa la voglia di faticare e soffrire per ottenere qualcosa, sia perché si percepisce la felicità come diritto inalienabile dell’uomo, sia perché tutte le nostre piccole esperienze quotidiane ci suggeriscono che per ogni problema esiste in commercio una efficace e conveniente soluzione.

Tutto ciò che fa ostacolo alla realizzazione di un desiderio non è più percepito come qualcosa di normale, o persino positivo e formativo (“la via del successo è lastricata di fallimenti”), ma al contrario come un imprevisto, quindi sbagliato, da scavalcare a piè pari, possibilmente facendo il minor sforzo possibile. Immedesimandoci nella prospettiva di un ragazzo come Jonathan, evidentemente formato in un sistema di valori radicalmente altro, ci sembrò – per un istante – che anche i nostri quotidiani rapporti personali rientrassero appieno in questo triste gioco. È più facile, o meno complicato, relazionarci con chi non può ferirti, con un cane, cioè con un essere capace di dare amore e fedeltà senza soluzione di continuità. Ci si protegge più facilmente dal rischio di sperimentare l’amara sensazione del rifiuto, dell’abbandono, del fallimento; ogni proprio gesto – anche il più piccolo e semplice – verrà certamente ricompensato da lui con una sproporzionata dose di gioia e gratitudine.

D’altro canto, un animale da compagnia difficilmente impara a parlare… ma forse, in fin dei conti, è proprio questo ciò che del tutto innocentemente alcuni patologici amanti degli animali adorano. La povera bestia, che in effetti davvero li ama, se potesse parlare, gli direbbe: “ma perché, amico mio, hai rinunciato ad amare le persone?”

1 COMMENT

  1. Pur condividendo il sentimento di fondo e quindi l’insofferenza verso chi dimostra in modo morboso, “troppo” umano (e poco animale) l’amore per i cani, non riesco ad accettare alcune pregiudiziali dell’articolo.
    Come ad esempio la netta separazione tra uomo e animale (come se l’uomo non fosse anch’esso un animale), su cui poggia anche l’assunto conclusivo. Dici (parafraso liberamente): “come si può essere solidali con i cani quando non lo si è nemmeno con gli uomini?”, domanda sacrosanta, a cui però io risponderei con: “perché essere più solidali con gli uomini rispetto agli altri animali? per una sorta di ‘solidarietà di razza’?”.
    Accusare un uomo di essere antropocentrico è, forse, eccessivo (in fondo siamo, appunto, uomini, e sarebbe strano non avere un simile atteggiamento), però non possiamo nemmeno porre un netto muro fra “uomo” e “animale”, forti della capacità di comunicare che riteniamo avere noi soli (si allude spesso a questa peculiarità “umana” nel corso dell’articolo), mentre sistemi di linguaggio alternativi al nostro sono continuamente in atto tra gli animali – siamo semplicemente incapaci di coglierli.

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