“82 ore”. Intervista a Pier Paolo Capovilla

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Una lunga chiacchierata fra Pierpaolo Capovilla, leader de Il Teatro degli Orrori, e alcuni ragazzi di Radio Fragola. Un incontro a 360°, dalla musica alla scrittura, dalla psichiatria alla cronaca di un Italia sempre più in balia degli eventi, una conversazione con un narratore “degli ultimi, degli emarginati, degli stigmatizzati, dei violentati dalla società”. Un artista per cui gli ultimi non sono semplicemente i miseri o i poveri, ma “anche coloro che non sanno cosa farsene della loro vita, che disperdono le proprie ambizioni e i propri desideri in un dispendio inutile, superfluo come ricordava Pasolini”. Pubblichiamo qui un estratto dell’intervista, curato dalla redazione di Charta Sporca (il podcast completo dell’intervista lo trovate su www.radiofragola.com).

Cosa ci racconti del nuovo album del Teatro degli orrori?

Guarda, S/t è stato scritto e performato con grande naturalezza, è un album spontaneo, vicino nello stile al nostro primo lavoro L’Impero Delle Tenebre. Volevamo tornare un po’ sui nostri passi dopo il terzo album, Il mondo nuovo, uscito ormai tre anni fa: Il mondo nuovo era un disco a tema sulla figura del migrante in cui abbiamo cantato la vita di coloro che devono lasciare il propri paese ed avventurarsi per il mondo per poter dare un futuro ai propri cari, ai propri affetti e alla propria famiglia. In quel disco abbiamo esplorato territori musicali contigui, vicini al rock, ma non propriamente rock, mentre in questo nuovo album siamo tornati sui nostri passi e abbiamo assecondato il nostro desiderio di fare un disco compiutamente rock e senza tanti fronzoli, sia dal punto di vista degli arrangiamenti, sia dal punto di vista dei testi (i ragazzi mi hanno spinto ad utilizzare un vocabolario più urbano, più vicino alla lingua parlata rivedendo quel mio modo di scrivere un po’ libresco). Abbiamo fatto il disco più contemporaneo e più moderno che siamo riusciti a fare, il disco più vicino ai nostri giorni, sia come tematiche sia come ritmiche che come produzione tornando un po’ alle origini di un percorso culturale che ci lega tutti all’hard-core americano degli anni ’80 e soprattutto ’90.

Come sono nati i testi dell’album?

Guarda, finché la fretta non si fa davvero imperiosa io difficilmente riesco a mettermi al lavoro… lo chiamo “fuoco al culo”. Mi sono rinchiuso in un piccolo appartamento a Mantova, un appartamentino che mi ha prestato Gionata (il chiatarrista) per un paio di mesi da cui non uscivo quasi mai, era come una piccola cripta, c’è una scala che porta a un piccolo sotterraneo, uno studiolo dove mi ero portato le tecnologie e le parti che avrei rispedito alla band che nel frattempo stava registrando e che avrebbe valutato il mio lavoro. Diciamo che mi sono auto-esiliato nel mantovano e questa cosa mi ha portato una fortuna pazzesca. Mi sono auto-esiliato perché a casa mia c’ho la mia compagna, ho i gatti e ho tutt’attorno quelle maledette osterie che non riesco a non frequentare.

Diciamo quindi, con un po’ di ironia, che tutto questo ti distraeva…

Esatto sì, mi distraevano, in senso buono, così un po’ di auto-esilio mi è servito indubbiamente tantissimo. Ho scritto con grande velocità e questa volta anche giocando un pochino d’azzardo con le parole, mi sono divertito a fare questo esercizio di scrittura che non è semplicemente narcisistico o autobiografico… devo dire infatti che, con grande sorpresa, mi sono accorto di essere stato più sincero: non solo sincero con me stesso, ma anche nei confronti di quella che mi pare la realtà sociale che mi circonda. I miei sentimenti, i miei valori e le mie idee non sono una cosa che riguarda me soltanto, riguardano la collettività, gli altri, le persone che mi circondano e con cui vivo, e persino quelle che non conosco direttamente. Quando dico che l’album è “autobiografico” intendo che senza dubbio sto cercando di esprimere le mie esperienze, ma non solo, visto che le “mie” esperienze esistono all’interno di una società e di un intrico di relazioni umane.

Un’autobiografia quindi è sempre spuria, un modo per raccontare gli altri raccontando se stessi.

Sì, è un vissuto, raccontato dall’interno, di alcune delle dinamiche e delle contraddizioni in cui viviamo; narro me stesso narrando le persone che stanno attorno a me, ho imparato a farlo da una certa letteratura, ma anche da tanta musica che ho ascoltato nella vita e che è stata cruciale per me, dagli Hüsker Dü a Tom Waits. Cerco di raccontare gli ultimi, gli emarginati, i stigmatizzati, i violentati, i disoccupati, gli stipati della società o delle prigioni. Gli ultimi di cui canto non sono semplicemente i miseri, i poveri, i pezzenti, sono anche coloro che non sanno – o non vogliono più – mettere la propria vita al servizio di miraggi e prospettive oggi molto alla moda; quelli che disperdono le proprie vite, le proprie ambizioni e i propri desideri in un dispendio inutile, superfluo, come lo chiamava Pasolini. A questo scopo cerco di guardare, di osservare, di indagare nella comunità in cui vivo, nella società in cui vivo, cerco di osservarla come potrebbe fare un poeta, anche se naturalmente io poeta non sono, la poesia è una cosa seria mentre io scrivo solo canzoni, canzonette, ma lo sforzo poetico e civile c’è.

Sia nel tuo album solista, Obtorto Collo, che nell’ultimo album come Il Teatro degli Orrori, hai parlato di salute mentale. Come è nato questo interesse?

Le mie esperienze personali mi hanno condotto a raccontare molte volte del disagio psichico e delle forme di prevaricazione che spesso si riflettono, per non dire “si abbattono”, su di esso. Mi sono interessato, ad esempio, al caso Francesco Mastrogiovanni, ci ho scritto un’appassionata canzone che ho intitolato “82 ore”, perché è in quelle 82 ore che fu letteralmente seviziato, come dice lo stesso senatore PD Manconi, presidente della onlus A buon diritto. Manconi ha definito il protocollo praticato nella terribile vicenda di Francesco Mastrogiovanni, “una vera e propria crocefissione”. Quell’uomo è stato crocefisso, un povero Cristo legato a un letto. Un infermiere gli portava la colazione ma lui non la poteva consumare: era legato al letto. Poi c’era il pranzo… e la scena si ripeteva, e così con la cena e l’acqua. Direi che è evidente che siamo di fronte a un caso di tortura riguardo a cui, come è noto, nel nostro Paese non si è ancora legiferato in maniera chiara. Dopo la recente sentenza della Corte europea sui fatti di Genova e della scuola Diaz, si è fatto un gran clamore intorno a questa questione, e poi tutto si è di nuovo insabbiato (infatti l’Italia è stata nuovamente richiamata).

Non è accettabile che un cittadino del nostro amato Bel Paese entri in una struttura sanitaria e ne esca morto in quel modo. Non deve più accadere e perché non accada più si deve legiferare. Questo è il motivo per cui Il Teatro degli Orrori aderisce alla campagna per l’abolizione dei contenimenti meccanici promosso dal Forum della Salute Mentale. Anche noi musicisti cerchiamo di renderci utili, perché terminino questi abusi, che ancora troppo spesso conducono alla morte persone che per me non sono dei pazienti, ma prima di tutto cittadini.

È così quindi che nasce il tuo testo, “82 ore”?

Sì, ho troppi amici cari che hanno vissuto l’esperienza del TSO, e da lì in poi sono cambiati da un momento all’altro. Grazie al racconto delle loro esperienze ho potuto sapere, conoscere, constatare in maniera più approfondita cosa accade quando avvengono questi trattamenti sanitari obbligatori. Io cerco di suonare le corde del cuore di chi mi ascolta, cercando di avvicinare l’opinione pubblica a questo tema. Il TSO è un problema di democrazia, ed è come tale che va risolto. In un momento storico, qual è quello attuale, in cui il qualunquismo si è impadronito del popolo italiano, più o meno come accadde prima del fascismo, siamo tutti un po’ stanchi, non solo del nostro ceto politico e della crisi economica, ma addirittura delle persone che ci circondano, e questo non va bene. Nel mio piccolo cerco di invertire questa direzione con la musica, nella speranza di combattere quello che mi sembra un vero precipizio antropologico, nella speranza di poter tutti provare a tornare, almeno un po’, sui nostri passi per ripensare ad alcuni temi tabù (ad esempio il TSO) come una comunità, per dare un futuro diverso a noi e a quelli che verranno.

Tu lo sai come viene fatto un TSO?

Beh, nei particolari no.

Io lo so.

Me lo vuoi raccontare?

Te lo racconto. Prima di tutto è necessario che la persona rifiuti le cure, se ciò si verifica per procedere ci vuole la firma di due psichiatri e del Sindaco. La durata massima del TSO è di una settimana, per prolungarlo ci vuole di nuovo la firma del Sindaco. La procedura nel caso di Mastrogiovanni non andò affatto in questo modo. E in più, quando fu arrestato, cercava di scappare e gridava “Questi mi ammazzano”, perché in cuor suo già sapeva.

Capisco. La psichiatria non può spiegare “perché” avvengono i disturbi; la psichiatria possiede un’eziologia di tipo statistico, non scientifico. Eppure, al contempo, curiosamente, è l’unica disciplina medica che può obbligare a subire delle cure. Credo che quello contro la contenzione meccanica sia il primo ineludibile passo da fare in direzione di una riflessione globale e critica anche sulla contenzione farmacologica, quella che Piero Cipriano ha chiamato il Manicomio chimico, il manicomio diffuso al di là degli ospedali: nelle case, nella vita privata e pubblica delle persone.

Hai mai subito un TSO?

No. non ho mai subito un TSO, ma questo non vuol dire che io non possa e non debba battermi perché i TSO abbiano fine in questo paese.

Ma tu, Pierpaolo, di che cosa hai veramente paura?

Mi spaventa l’indifferenza delle persone, ma proprio non nel senso che ne ho paura.

Non ne hai paura… diciamo solo che ti spaventa.

Si.

E che differenza c’è tra avere paura e essere spaventato?

Più che di paura, io parlerei di un’avversione, profonda, che provo nei confronti dell’ignoranza e dell’analfabetismo che c’è su certe questioni sociali fondamentali. Mi spaventano l’egoismo della gente e il grado di violenza implicita che questo (apparentemente sano) egoismo produce… ma non ho paura, questo no.

L’amore, dunque, come possibile terapia? o siamo troppo melensi?

L’amore è sempre terapeutico, ma non mi riferisco soltanto all’amore coniugale. Mi vien da dire l’amore ecologico: l’amore per la natura, per gli animali, per i nostri consimili. L’amore per chi ha di meno. Questa laicizzazione dei valori di pietas e fratellanza è qualcosa che, senz’altro, fa parte di me.

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