di Ludovica Lancini
La stop motion è una tecnica complessa e affascinante, che nel nostro Paese non ha forse ancora ricevuto tutta l’attenzione che merita. A rilanciare lo specifico interesse per quest’arte ha pensato il collettivo veneziano Quarta Parete, dando vita al primo festival internazionale interamente dedicato a questo genere di animazione. Il collettivo nasce (nel 2018) dal desiderio condiviso di rompere la “quarta parete”, avvicinando il cinema a chi lo guarda attraverso la creazione di un forum di discussioni e riflessioni, con l’intento politico esplicito di rilanciare il ruolo critico e attivo, ambientato direttamente tra le quattro mura di una sala cinematografica (lo storico Cinema Dante a Venezia).
Il festival “Stop e-Motion Days: Giornate del Cinema in Stop-Motion” si svolgerà al Museo M9 di Mestre, dal 2 al 4 maggio. Un concorso internazionale di ottanta cortometraggi e sei lungometraggi, approfondimenti tematici su attualità e professioni dell’audiovisivo, una retrospettiva sull’arte dei Fratelli Quay e una lezione del regista francese Alain Ughetto. E ancora, laboratori di creazione di marionette per i più piccoli, uno spettacolo a cura dall’Associazione Kamishibai sui primordi del cinema di animazione giapponese, e un workshop cinematografico con Massimo Ottoni.
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Una bambola, immobile, in una posa innaturale. Come bloccata, congelata nel tempo, interrotta a metà movimento. Il click di una macchina fotografica. Due mani, grandi quanto lei, si avvicinano, le piegano appena il braccio, ne variano il gesto. Click. Un nuovo cambiamento, modellato da dita delicate. Click. A pezzi, con pazienza, la corsa si ricompone tra scatti e minime variazioni. Migliaia di fotogrammi che, riprodotti in rapida successione, danno l’illusione del movimento
I pionieri della stop motion
Conosciuta anche come “passo uno”, la stop motion è una tecnica d’animazione video che si basa sulla pratica realizzativa dei cartoni animati, utilizzando fotografie al posto dei disegni. Di conseguenza, per creare un secondo di girato sono necessari 24 scatti, uno per ciascun fotogramma. Questi, se osservati in rapida successione, creano l’illusione del movimento. Modellini di carta o plastilina, marionette o oggetti di uso quotidiano, diventano forme malleabili che prendono vita tra le mani dell’animatore. L’origine di tale approccio risale alla fine dell’Ottocento, quando il cinema era agli albori e la settima arte iniziava a insinuarsi tra le pieghe della realtà, raccontandola con strumenti nuovi.
Si pensa che il primo cortometraggio in stop motion sia databile tra il 1897 e il 1898. Parliamo di The Humpty Dumpty Circus di J. Stuart Blackton, da non confondere con l’omonimo del 1914 diretto da Arthur Melbourne Cooper. Non essendosi salvata alcuna copia, le informazioni di cui disponiamo sono esigue, ma sappiamo che gli attori principali erano bambole snodabili, manovrate per simulare i movimenti degli acrobati circensi. Col tempo, la stop motion si declinerà e specializzerà in due modalità: il “passo uno” classico, che prevede l’utilizzo di soli oggetti, e quello sfruttato invece nei film con attori in carne e ossa per la creazione di effetti speciali o la messa in scena di azioni non replicabili dal corpo umano.
Quest’ultimo è il caso di Fun in a Bakery Shop di Edwin S. Porter: un panettiere sta impastando su un tavolo da lavoro quando si accorge di un topolino che corre sulla superficie esterna del forno, egli inizia allora a lanciargli acqua e farina, finendo per ricoprirlo interamente di pasta. Una volta creata questa sorta di tela sul dorso del topolino, il panettiere inizia a scolpire la massa di pasta cruda dandole la forma di una maschera con baffi e cappello che, grazie all’uso della stop motion, viene poi trasforma in volti sempre diversi.
Altro grande pioniere del genere è stato Władysław Starewicz, tra i primi a realizzare scheletri articolati in fil di ferro e altri materiali che ispireranno un gran numero di animatori delle generazioni successiva. Precursore e mentore ideale di Jan Švankmajer, Terry Gilliam e dei fratelli Quay, Starewicz non è tanto ricordato come regista, quanto come ossessivo come collezionista e appassionato di insetti. Insetti a cui, a un certo punto, inizia a dare vita. La scintilla scattò dopo la visione folgorante di Les animées allumettes (1908) di Émile Coh, dove alcuni fiammiferi formavano figure sempre diverse e in continuo movimento. Il film fece nascere in Starewicz la necessità di animare delle lotte tra Lucanidi, coleotteri che custodiva con cura tra le sue teche. Starewicz, frustrato dal fatto che gli insetti (ovviamente morti) restavano immobili sotto l’occhio altrettanto inerte della telecamera, matura il forte desiderio di andare oltre e creare movimento laddove c’era solo la staticità dei suoi amati insetti essiccati. Egli inizia così a martoriare l’esoscheletro dei coleotteri morti, staccando e riattaccando mandibole e zampe con la cera, rendendoli dei burattini in miniatura, infusi di vita laddove prima si annidava solo la morte.
Quelli che inizialmente dovevano essere dei film educativi si trasformano in poco tempo in storie folli e surreali, in cui il perturbante colora l’atmosfera di un’ironia quasi dissacrante. Nel 1912 Starewicz metterà in scena, in The Cameraman’s Revenge, un’eccentrica storia di infedeltà coniugale ambientata in un mondo di insetti umanoidi, ripresa con una telecamera e proiettata nei cinema locali. Nella pellicola, uno scarafaggio si reca in città all’insaputa della moglie, dove incontra la propria amante, una libellula che balla nei cabaret.
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I maestri contemporanei del genere
Col passare degli anni la stop motion si afferma poi come il punto di incontro tra il sogno e l’incubo più puro, muovendosi in un processo che affonda le radici nel cinema di George Méliès e nelle manipolazioni della pellicola. Nonostante le lunghe tempistiche richieste per la sua produzione, la stop motion si è trasformata in parallelo con la storia del cinema, inventando lungo il Novecento un linguaggio unico, capace di incantare e inquietare al tempo stesso. Un crash di reale e perturbante, in cui oggetti privi di cuore e sangue sono re-intrisi di vita, prendono corpo, illudono lo spettatore facendo saltare il confine tra vita e morte, organico e inorganico.
È proprio in questa zona liminale che si snoda la poetica di Jan Švankmajer, regista ceco che ha impresso il surrealismo direttamente su pellicola dando consistenza a e profondità di sensazione ai suoi ambienti onirici. Artefice di un linguaggio cinematografico nuovo, Švankmajer crea mondi fiabeschi dove le regole della fisica si dissolvono e la parola diviene superflua nel trasmettere la membrana emotiva che rende unico ogni personaggio.
La sua celebre Alice, protagonista dell’omonimo film del 1988, continua il viaggio iniziato da Lewis Carroll nel Paese delle Meraviglie, intrufolandosi nelle complessità dell’inconscio. Probabilmente influenzato dalle dinamiche sociali di una Praga a un anno dalla rivoluzione di velluto, Švankmajer si appropria dell’Alice di Carroll e la reinterpreta, portando i traumi in superficie. Spiata da quello che — più di una telecamera — ricorda l’occhio clinico di uno psicanalista, Alice ci conduce al di là della tenda della fanciullezza, rivelandocene tutti gli squarci e i lati più oscuri. Una soffitta in cui le ombre si allungano, pupazzi con occhi scuciti e terrificanti bambole in ceramica accompagnano la piccola in un viaggio che parte dal celebre inseguimento del Bianconiglio, e giunge , tra le varie tappe, alla tana del Brucaliffo, rappresentato come un calzino rigonfio con delle protesi al posto degli occhi e un macabro sorriso fatto della dentiera della nonna. In un caotico susseguirsi di creature spaventose, ambienti ostili e sguardi grotteschi, ogni cosa, animata o inanimata che sia, è accompagnata da un suono specifico, che ne caratterizza l’identità. Il terrore di Alice risuona come il sibilo di vermi che strisciano, lo schiocco di becchi di uccelli che si accaniscono su cadaveri in decomposizione.
Ci sono infine Stephen e Timothy Quay, i famosi gemelli monozigoti, maestri del genere. I Quay non sono identici soltanto da un punto di vista fisico, ma anche spirituale. Caratterizzati da un umorismo tagliente, osservano il mondo che li circonda con occhio cinico posizionandosi sul limite tra i sogni orrorifici di Franz Kafka e i disegni spigolosi di Bruno Schulz. I Quay amano mettere in difficoltà lo spettatore, evocando sensazioni dal gusto ancestrale. Nelle loro pellicole il perturbante diventa lo strumento per trasformare l’inanimato in qualcosa di dolorosamente vivo, un corpo che fin dal principio assume la funzione di un oggetto manipolabile.
Si tratta di storie che portano in scena burattini usciti da incubi surrealisti: figure strambe, con occhi mancanti e teste sproporzionate. La sensazione è di osservare qualcosa di chirurgico, cucito come la creatura del Dottor Frankenstein. Parti di bambole antiche si fondono con strumenti medici dando vita a creature ibride, mai chiaramente umane o animali: dei semi-corpi, esseri incompleti che sembrano però dotati di una “ragione sufficiente” per esistere nei loro mondi. I movimenti spezzati tipici della stop motion si trasformano in tic, spasmi. Tutto nei loro set sa di ricordo, di malattia, quasi di tortura. I film dei Quay potrebbero essere ambientati in una strana scuola per servitori, in un’aula universitaria o in un labirinto, ma in realtà si svolgono in un piccolo universo da scrivania che funziona secondo regole aliene, tutte sue. Inoltre, i fratelli detestano l’idea che attori famosi prestino la voce ai pupazzi, e hanno accettano solo raramente, perché lo trovano umiliante. Umiliante per gli attori? No, dicono loro. Per i pupazzi.
La stop motion non è mai stata semplicemente una tecnica d’animazione. È un gesto che non si affretta, che non si adatta, che continua a muoversi a scatti come una memoria ferita. Un sogno che si ostina a non dissolversi del tutto. Ancora oggi è utilizzata per andare a fondo della psiche umana, per rendere visibile ciò che è impossibile raccontare a parole. Pensiamo a La mia vita da Zucchina, che affronta con delicatezza temi come l’abbandono e la ricerca di appartenenza, a Marcel the Shell with Shoes On, dove una minuscola conchiglia ci guida attraverso riflessioni sulla solitudine e la connessione nell’era digitale, fino a Life of a Snail, che esplora la fragilità — e il modo di abitarla — con una poesia visiva disarmante. Questi film utilizzano la stop motion non per edulcorare la realtà, ma per renderla tangibile. Un tempo c’era un razzo che entrava nell’occhio della luna, e faceva ridere e paura allo stesso tempo. Oggi ci sono occhi piccoli, scarpe troppo grandi, gusci bucati. Ma la verità non è cambiata: ogni fotogramma in stop motion continua a chiedere attenzione, presenza. Continua a dire che il cinema, prima di tutto, è un atto di ascolto.
*Immagine in copertina tratta da The Humpty Dumpty Circus di J. Stuart Blackton
Sitografia
https://theguardian.com/film/article/2024/sep/03/aardman-brothers-quay-animation
https://quinlan.it/2020/12/18/la-vendetta-del-cineoperatore
https://www.bfi.org.uk/features/stop-motion-imperfection-why-animation-needs-human-touch
www.artribune.com/television/2019/12/video-animazione-stop-motion-ladislas-starevich/