di Alessandro Bernardini
Ahimè! Come afferrare un fantasma? Fossero anche sei uomini, non prenderebbero un fantasma. È per questo, per questa mancanza di tatto, che noi siamo senza amore, senza amicizia.
Apollinaire, L’Incantatore Putrescente
Se non si può attraversare il fantasma, né tanto meno afferrarlo, bisognerebbe precisarne la consistenza, la dimora. Se il fantasma è la traccia, dove porta quest’orma senza peso? E che realtà ha per chi sceglie di seguirla?
Dai Cinque nō moderni di Mishima, un indizio. In uno dei drammi, un giovane poeta chiede a una decrepita mendicante perché ogni sera viene a importunare le coppiette del parco, sedendosi affianco a loro. La vecchia risponde che lei è più viva di quei tanti amanti che “si strofinano su una tomba”, e rimbrotta il poeta dandogli di uno di quegli sciocchi che pensa che con il passare degli anni le belle donne possano diventare brutte. E lei era bella, e lo è senz’altro ancora: ma tutti gli uomini che le dicevano bella sono morti e così ora pensa che gli uomini che le dicono bella debbano necessariamente morire. La vecchia rievoca così i tempi passati, il poeta decide di riviverli fingendosi suo amante. La scena muta, il tempo stinge e si colora d’altrove. Ed egli trova la bellezza, e con essa il proprio destino.
Al di là del paradigma che lo situa nei due poli della fantasia soggettiva e dell’apparizione estranea, diviene possibile esplorare il fantasma come dimensione, spettro: esso non risiede in noi, né viene a farci visita, ma siamo invece noi ad abitarlo. Se il tempo copre la verità, ecco che questa può porsi come nuvola increduta, stramberia, smacco percettivo di chi la pronuncia, e il fantasma ne calza le vesti, un tout autre – impossibile residuo localizzato in un ricordo, di un pensiero o di una vita. Il poeta finge, la simulazione confonde il tempo, prima sottrazione che schiude l’intero paesaggio fantasmatico in cui si mostra un’intensità – la bellezza della donna – celata dalla temporalità. La perdita d’individualità inverte il rapporto tra verità e durata, esponendo così la continuità delle essenze: il fantasma, allora, non come proiezione evanescente di una presenza irreale, ma come ambiente tangibile di un’assenza che sborda la figura invadendo lo sfondo, facendone ricettacolo di trasfigurazione, realtà aumentata. Da puntiforme, proprietà da riconoscere o buco da vedere, il fantasma si libera dall’estrinsicità del riferimento in cui lo sguardo lo inchioda, per aprirsi in un’intrinseca immanenza che invade tutta la dimensionalità spaziotemporale. Se desistere alla propria autonomia è l’innesco del processo, ricontattare il nucleo che fonda quest’espansione conduce più oltre. “Te lo dico… Komachi. Sei bella. La tua bellezza non sfiorirà mai, neppure tra diecimila anni”. La bellezza, però, non può essere esposta, esibita dalle parole, afferrata dall’espressione, ma solo assaporata come atmosfera; toccare il segreto di un fantasma afferma e inaugura un altro tempo, quello della Morte, la fine di un’individualità. “Era ubriaco fradicio e ha tentato un approccio con me. L’ho lasciato perdere perché m’infastidiva. Poi è caduto a terra, sembrava addormentato”: non si può conoscere il fantasma senza spostarlo.
È chiaro che allora esso non può essere attraversato. Non può essere attraversato perché non ha luogo (è il luogo), dunque non gli si può combaciare nella forma, al pari di un’ombra che rientra nel suo corpo. E non si può farlo a maggior ragione perché comprenderlo significa estinguerlo, o forse traslarlo in un ignoto, sicuramente spostarlo da sé. Se la morte, in quanto confine impossibile da attualizzare, è il limite della fenomenologia come indagine su ciò che appare nella presenza, il fantasma corrisponde a quell’assenza che si riproduce in uno squarcio nell’esperienza della parola e sulla categoria della visibilità come regime in cui interrogarla. Fessura e sfiato, esso viene a collocarsi in quella regione mediana di trasludicità ontologica dove s’incontrano la trasparenza dell’esteriorità e l’opacità interiore, superficie singolare dove assumere lo scarto – lo sdvig florenskijano – che le separa: la frizione tra oggetto reale e rappresentato, il fossato sanguinante tra accadimenti che aspiriamo vanamente a ricomporre.
L’esperienza fantasmatica si presenta col suo carattere anfibio, lacerato tra forma ed evento. La forma intesa come sede della continuità dell’identità (A=A), assoluto che esclude la mediazione e che produce la forza, quella di un’azione che ha il suo fine in sé stessa, la forza propria della forma. L’evento – sempre puntuale e individualizzato, un vissuto – è invece tutto nella relazione, principio di localizzazione spazio-temporale che intarsia la presenza con un’interruzione, ciò che capita a qualcuno rompendo l’omogeneità dei significati, da cui nella storia l’esigenza di un rimpasto: luoghi e tempi sacri, riti, tabù come chiusure d’eventi, corpi per un effetto, nomi per l’indicibile. Nella forma l’essere e l’esser visto coincidono, mentre ciò che si scorge nell’evento si mostra di sbieco, è sempre altro da quel che appare. Ciò che si rivela, per sua natura inaccessibile, non cessa di essere tale e, facendolo, rivela essenzialmente il fatto di essere nascosto. Nell’evento, allora, emerge propriamente ciò che non ha forma e non appare, e più ha forma tanto meno si rivela: dell’evento non si parla, il linguaggio si adopera nell’ambito della forma, a epifania avvenuta. Se l’evento è dunque ciò che sostanzia il qui e ora, il fantasma però presuppone la sua decomposizione. Abitare il fantasma è riconoscersi spatriati, o meglio: percepire l’inevitabilità di una forza che, sospendendo l’identità e il dire come immagine di uno stato, provoca l’afasia tattile per un altrove che si annuncia in un nascondimento. Cosa ne resta? Sembrerebbe: un dito in una fessura trasparente.
La fisica del novecento offre alcuni elementi per ritrarre quest’effigie inquietante. La rivoluzione quantistica può essere riassunta in un’affermazione cruciale: la discretizzazione della quantità fisica azione, rappresentata dall’emergere della costante di Planck come parametro fondamentale della natura. Da cui scaturisce il famoso principio d’indeterminazione di Heisenberg: non è possibile misurare contemporaneamente con precisione arbitraria il valore della posizione e della velocità di una particella. Quella che, classicamente, potrebbe ridursi a un’incertezza gnoseologica assume un carattere ontologico: il limite non è nell’abilità dello sperimentatore, la sfumatura è una proprietà intrinseca dell’universo.
Delle innumerevoli conseguenze se ne possono individuare alcune significative. Una prima consiste nella perdita del concetto di traiettoria, dovuta all’impossibilità di definire posizione e velocità della particella in ogni istante. In seguito, l’approdo a un’ontologia non realista: gli enti della fisica non possiedono proprietà oggettive e permanenti al di fuori dell’interazione con l’osservatore, il quale non può conoscere il sistema senza perturbarlo – emerge qui una tipizzazione della conoscenza su un modello relazionale che ha nell’azione, più che nella rappresentazione, il suo cuore interpretativo. Un’ulteriore implicazione porta alla totale indistinguibilità delle stesse particelle, identificate infine come emanazioni attuali di un nuovo ente fisico che ha le caratteristiche di un “mare” ubiquo, non locale e dotato di una potenza propria al di là delle sue manifestazioni: il campo quantistico e la sua energia di vuoto.
Il fantasmatico emerge allora come dimensione in cui l’oggetto sfugge all’identificazione e al tentativo di un’interrogazione volta a irrigidirlo in una sostanza fissa e definita. La traccia, prima linea passibile di predizione e sorveglianza, ora diviene contorno evanescente. Ripercorrendo gli indizi: il fantasma non ha stato di moto definito; abbracciarlo significa farlo mancare a sé stesso; le sue cristallizzazioni nella temporalità sono solo sintomi di un’alterità più pervasiva.
Per affinare il quadro, due altre intuizioni dalla frontiera della ricerca contemporanea. Nel contesto della Loop Quantum Gravity, teoria che tenta di stabilire un punto di contatto tra gravità e meccanica quantistica, si arriva a un importante conclusione. Qui il tempo perde la sua caratteristica di parametro fondamentale nella determinazione dell’evoluzione dinamica di un sistema, ovvero: il tempo non è misura univoca del cambiamento o, per dirla meglio, esiste un mutamento senza tempo.
Infine, il principio olografico. Si tratta di un’ipotesi che, nel contesto della gravità quantistica per lo studio dei buchi neri e della teoria delle stringhe, ha raccolto un fascino sempre maggiore, e che potrebbe essere riassunta così: l’intera informazione contenuta in uno spazio a tre o più dimensioni può essere racchiusa in una superficie di una dimensione inferiore corrispondente al bordo dell’area esaminata. Secondo il modello dell’universo olografico di Bohm, che da questa prende le mosse, esisterebbero dunque due livelli di realtà, l’ordine implicito e l’ordine esplicito. Il primo, al pari di una lastra olografica, conterrebbe l’intera informazione della sua struttura complessiva in ogni singola parte e risulterebbe inaccessibile ai quotidiani stati di coscienza. Il secondo sarebbe il risultato dell’interpretazione che la coscienza realizza componendo i pattern di interferenza dei fenomeni che la avvolgono. Se la pellicola olografica racchiude la totalità dell’insieme, l’ologramma proiettato corrisponde alla versione svelata e percettibile dell’immagine: le particelle sembrano separate, perché la mente è incapace di percepire il reale nella sua interezza – il campo quantistico. Passato presente e futuro coesisterebbero simultaneamente; il presente sarebbe l’unico tempo esistente fisicamente, frutto dell’interpolazione della mente tra passato e futuro, unica soluzione geometrica di una realtà virtuale: dove la coscienza, lì il presente. La stessa relazione causa-effetto sarebbe un’interpretazione ex-post di una sequenza; ma l’intera azione è sempre registrata nell’ologramma ed è la prospettiva mutevole dell’osservatore a creare l’illusione della durata: il passato non è archiviato in un luogo ma è informazione vivente, non locale e sempre accessibile da qualsiasi punto dello spazio tempo – effervescenza cava dai diecimila volti, morgana del senso.
L’accesso al reale per la via del fantasma si dà allora come una sottrazione, di coscienza, di localizzazione, di sostanza, di manipolazione, in una soppressione della profondità che è in realtà un’espansione nella superficie ologrammatica, origine impura del φάντασμα, di ciò che appare: abolendo l’individuazione, e dunque la funzione privativa della persona, l’opacità tra gli interstizi si fa invisibile materia per la trasmutazione del paesaggio, ambiente di grazia dove il tempo è solo residuo, modalità di una verità che persiste come oscuro non-fondo, gorgo di forze indomabili.
«Doppi senza somiglianza e elementi senza costrizione sono i due aspetti del fantasma». Il poeta e la vecchia sono allora altri, ma anche attori doppi di un atomo di eternità che non conosce padroni: la Bellezza e la sua agnizione. Nella Roma antica, la tessera hospitalis era un documento usato come garanzia per il riconoscimento reciproco tra ospite e ospitato, i quali avevano entrambi una metà della tessera combaciante con l’altra. Il fantasma come simbolo, allora, non vive nella corrispondenza delle due facce prese isolatamente – non c’è domanda dell’Altro, nessun carattere destinale da estirpare nel soggetto – ma sulla superficie di contatto, di confine, linea immateriale contenente l’informazione su entrambe e attivata in un’azione impastata nell’ignoto: la ricerca abbandona la topologia proiettiva della visibilità per farsi apertura su una facoltà rinnovata, a contatto col pericolo, ovvero il tatto come senso di ciò che si dà senza apparire.
Conoscere il vuoto è assomigliargli, porre una lacrima d’abisso sulla lingua e rispondere alla sua domanda con una rima tremante, dialogo tra profumi senza nome. Il fantasma si muove, perenne fibrillazione dell’energia di questo vuoto, del punto zero dell’essere che confonde gli essenti. Anche noi che lo interroghiamo siamo pasto di una quieta eppur ribollente metamorfosi, con meno lampi che odori. La nostra scienza, davvero spettrale quando veridica – al lettore la precisazione di questo aggettivo – ne è immersa e da esso è sospinta, un’arte che accompagna verso l’unica forma possibile di resistenza: la cecità che non si accontenta del limpido auspicio ma cerca a tentoni l’oracolo, la sua chioma di vacuità per sorridere ancora, davvero.
Ciò che ci stanca è essere considerate dei fantasmi, tutt’al più buoni a predire. Il parto è la nostra migliore predizione, la più esatta e la più nostra. Gli uomini lo sanno. Il vero torto del diavolo, dell’incantatore e di tutti gli uomini è di crederci dei fantasmi, di trattarci come fantasmi, noi che non siamo che lontane, ma lontane in avanti e indietro, per cui l’uomo è al centro del nostro distacco; lo circondiamo come un cerchio.
Non si afferra la primavera, si vive in lei, al centro del suo distacco, e non la si chiama fantasma, la bella primavera fiorita. L’uomo dovrebbe vivere in noi come nella primavera. Non ha sempre la primavera, ma ha sempre noi: un incantesimo, la diavolessa o la libellula. Al posto di questa vita al centro del nostro distacco, preferisce cercare di afferrarci affinché ci si ami l’un l’altro.
*Immagine tratta da Wikipedia, crediti qui. Da una scenografia di Tsukioka Kōgy del dramma di Mishima Sotoba Komachi, in Cinque no moderni