Conversazione con Andrea Zhok. L’epidemia d’odio, la tecnica e la cultura nell’epoca del Green Pass

di Silvia D’Autilia e Andrea Zhok

(foto di Sara Gandini)

SD: Professor Zhok, lei è stato tra i primi firmatari e promotori dell’appello dei docenti universitari contro il Green Pass, che è oggi arrivato a più di mille professori aderenti. Il vostro dissenso è sia relativo all’adozione di una misura considerata discriminatoria nei confronti di studenti e lavoratori, sia in relazione allo spirito d’inclusione e partecipazione che caratterizza l’università. Dal suo punto di vista, quali conseguenze determinerebbe il perseverare di questa norma o la sua semplice traccia storica nell’ambito della cultura e del diritto allo studio?

AZ: La cultura, che uscirà a pezzi da questa vicenda, quali che ne siano gli esiti, è la cultura civile e democratica. Il decisionismo del governo su una questione delicatissima come questo “certificato di piena cittadinanza” ha prodotto una spaccatura drammatica, una vera e propria epidemia d’odio, da cui temo non ci rimetteremo per anni. Ha dell’incredibile la leggerezza con cui si è messo mano a una norma che: 1) tocca le libertà fondamentali (a partire dall’inviolabilità del corpo proprio, fino al diritto al lavoro e allo studio), 2) lo fa con motivazioni pretestuose (i sondaggi precedenti al GP parlavano di un mero 5% di cittadini pregiudizialmente ostili a vaccinarsi: non c’era nessuna ‘emergenza no-vax’) e 3) scatena simultaneamente incontrollabili istinti atavici come quello dell’autopreservazione (timore del contagio da una parte; timore dell’inoculazione dall’altra).
Di fronte a un tema socialmente, psicologicamente e anche scientificamente così delicato il governo ha ritenuto di procedere come il proverbiale elefante in una cristalleria, portandosi dietro gran parte dell’opinione pubblica in una sorta di riedizione della caccia all’untore. Palesi forzature normative e costituzionali sono state accettate nel nome di un presunto “interesse superiore”, senza che avesse luogo alcuna discussione pubblica intorno a cosa tale “interesse superiore” propriamente fosse.
Il risultato è una polarizzazione selvaggia, da cui scaturisce la fermissima convinzione di una parte della popolazione che l’altra sia principalmente composta da untori egoisti e refrattari al bene comune, mentre dall’altro lato va maturando sempre più l’idea che la controparte sia composta da sadici autoritari privi della più elementare umanità. Da questa situazione i processi politici, il dibattito pubblico, la credibilità dello Stato, delle istituzioni, della democrazia ne usciranno scossi in modo drammatico, forse terminale. Temo davvero che questo momento verrà ricordato come l’inizio di una fase buia nella storia del Paese.

SD: Generalmente nelle argomentazioni di chi sostiene la liceità del Green Pass si fa riferimento al fatto che il diritto alla salute di tutti prevalga sul diritto del singolo all’istruzione, al lavoro, alla cultura, allo sport e così via. Ma entro quali limiti la motivazione sanitaria, sorretta, giustificata e prorogata dalla competenza dei tecnici, può sovrapporsi e imporsi su tutti i restanti diritti civili della vita democratica?

AZ: Questo è naturalmente il punto cruciale dal punto di vista della fondatezza o meno dell’intervento. Il governo è intervenuto secondo un classico canone utilitarista, dove è consentito usare la persona altrui come mezzo per un fine ulteriore, ritenuto un bene più grande. Il ragionamento implicito è stato: “Vi forzo a fare questa cosa (la vaccinazione) perché ciò rappresenta un superiore bene pubblico.” Si tratta di un’applicazione del calcolo costi-benefici alla vita pubblica.
Ora il problema è che i calcoli costi-benefici funzionano abbastanza bene quando si ha a che fare con poche variabili limitate (tipo ‘input’ e ‘output’ in una fabbrica), ma sono enormemente complessi, al limite della schietta incalcolabilità, quando riguardano una società nel suo complesso. Del calcolo qui c’è solo il guscio, e non la razionalità, perché nessuno ha davvero in mano tutte le variabili per effettuarlo in modo davvero attendibile e oggettivo.
Al posto di un calcolo si è avuto un decreto e una serie di lezioni morali intorno a cosa sarebbe doveroso fare e cosa no, senza preoccuparsi di dimostrarne la fondatezza. Così, per rinforzare questa narrazione moraleggiante, sono state fatte passare una dietro l’altra cose del tutto prive di fondamento scientifico: dall’idea che gli attuali vaccini anti-Covid impedissero ai vaccinati di essere portatori contagiosi, all’idea che tali prodotti farmaceutici fossero assolutamente sicuri (mentre le stesse approvazioni condizionali delle agenzie internazionali del farmaco mettevano nero su bianco i margini di incertezza). Queste falsità, una volta notate da chi già era diffidente nei confronti della vaccinazione, ne hanno rinforzato i dubbi (“Se mi vogliono obbligare a qualcosa e mentono per farlo, chissà cosa c’è dietro”).
Va infine sottolineato che il processo decisionale che ha portato a questa situazione non è mai stato democratico, neppure formalmente. Non c’è stato dibattito pubblico preliminare, né discussione parlamentare: un Presidente del Consiglio tecnico sorretto da una maggioranza “all-in” ha emanato un decreto. L’idea di una dimensione partecipativa della democrazia è stata abbandonata anche nelle apparenze, e questo proprio nel momento in cui si prendevano decisioni letteralmente sulla carne delle persone.

SD: A proposito di tecnici. Una fetta crescente di pubblico lamenta le scelte dei media di dare la parola ad esperti selezionati, non coinvolgendo o svalutando all’interno del dibattito quanti di pari competenza specialistica hanno una visione diversa sulla medesima questione, con la conseguente poca esposizione delle discussioni a un contraddittorio efficace. Sicché, le numerosissime demarcazioni che vediamo oggi tra colleghi, amici e persino familiari, in realtà non sono che riflessi di dubbi ben più lontani ed effetti di differenziazioni anzitutto mediatiche e comunicative. Quali saranno secondo lei, in una prospettiva antropologica e filosofica, le conseguenze più preoccupanti di questa frattura in seno al concetto stesso di “tecnico”?

AZ: Il processo di degenerazione tecnocratica della democrazia è in verità in corso da tempo, e non solo in Italia. Si tratta di un processo in cui il sopravvento dei grandi interessi economici sul piano politico ha generato due effetti. Da un lato ha ridotto progressivamente la credibilità della rappresentanza politica, identificata sempre più come una casta autoreferenziale e in vendita al miglior offerente. Dall’altro, ha alimentato la richiesta d’intervento di “tecnici” esterni alla politica, visti come soggetti neutrali, non compromessi. Incidentalmente questi “tecnici” sono, senza eccezioni di rilievo, economisti di matrice neoliberale, che nel nome di un’apparenza super partes e della propria “autorevolezza scientifica” sono stati collocati ripetutamente nella stanza dei bottoni.
Questo processo corre in parallelo con l’irregimentazione del sistema mediatico, sempre meno affidato al gradimento dei lettori (in crollo verticale da decenni) e sempre di più affidato ai finanziamenti, anche a perdere, di detentori di capitale privato.
In un sistema formalmente democratico il cittadino può in teoria cambiare chi lo governa. Per limitare e possibilmente neutralizzare i rischi di istanze cosiddette “populiste” (volte a fare un po’ troppo gli interessi dei più), la ricetta consiste non nel vincolare i corpi, bensì le anime. Si tratta di mettere a conoscenza del cittadino selezionate chiavi di lettura della realtà, e si tratta poi di invocare al timone un’autorevolezza “tecnoscientifica”, che può presentarsi come persuasiva perché apparentemente neutrale. Questi processi permettono di colonizzare e guidare le anime dei “decisori sovrani” (in una democrazia il popolo) senza bisogno di ricorrere ad alcuna violenza esteriore.
Questa tendenza si sta rapidamente consolidando nell’atmosfera post-pandemica, in cui per un periodo emergenziale ci siamo tutti abituati a dare per scontata la forma della decisione tecnocratica (“… lo dice il CTS”). Ora questa tendenza è in cerca di stabilizzazione definitiva, condizionando l’esercizio di libertà primarie a “valutatori tecnici” cui ci si deve semplicemente rimettere come autorità superiori e indiscutibili.

SD: C’è poi una seconda frattura da considerare come diretta conseguenza della gestione sanitaria, politica e comunicativa della pandemia, ovvero quella tra le istituzioni e i cittadini, i quali da una parte vanno realizzando sempre più chiaramente, non senza delusione e amarezza, di essere ormai parte irrilevante dei processi decisionali e politici del Paese – pensiamo ai lavoratori sempre meno rappresentati e ascoltati – e dall’altra hanno compreso gli effetti sociali e culturali derivanti dall’avere una posizione non conformata. Ad esempio è accaduto spesso in questi mesi che diversi noti intellettuali finissero nella macchina del discredito a causa del loro pensiero poco omologato. Secondo lei si tratta di una situazione che può ancora dirsi momentanea e correlabile alla tensione emotiva per la pandemia o è la premessa di una nuova fase paradossalmente e subdolamente contraddistinta da un maggiore controllo delle opinioni?

AZ: Ecco, qui ci avviciniamo a ciò che mi fa più paura della situazione attuale. Per quanto le avvisaglie ci fossero da tempo, con forme reiterate di censura pubblica, con tendenze a limitare la libertà di pensiero ed insegnamento (le varie diramazioni del “politicamente corretto” hanno anticipato questi processi), ora sembra di essere arrivati a un punto di svolta. Oggi la forma della sanzione, del discredito, della morte civile colpisce sempre più frequentemente chiunque abbia il coraggio di manifestare idee, anche rispettosamente, garbatamente, e motivatamente, che siano potenzialmente lesive degli interessi economici dominanti. Uno dei tratti più paradossali della nostra epoca è il fatto di inneggiare continuamente alle diversità, all’inclusione, alla tolleranza, e simultaneamente di esercitare senza nessun tentennamento l’intolleranza e l’esclusione più impietose verso tutte le forme di “diversità” che non siano state preautorizzate dall’alto (in quanto innocue).
Non so se qualcuno ricorda come fino a qualche settimana fa era tutto un lamentarsi dello “hate speech” in rete? Sembrava davvero che fossimo diventati tutti straordinariamente sensibili, e che qualunque ancorché minima e involontaria espressione non compiutamente equanime e rispettosa andasse stigmatizzata e cancellata dai vocabolari. Poi ci si sveglia un bel mattino e si sentono serenamente personaggi pubblici in prima serata che parlano di un buon venti per cento dei cittadini italiani che esercitano i propri diritti legali come “ratti da cacciare” o come gente da “sfamare col piombo”, il tutto nel silenzio compiaciuto di giornalisti e autorità.
Ecco, se devo dirla tutta, per la prima volta in vita mia ho il chiaro timore che siamo alle soglie di una svolta autoritaria autentica, non nel senso classico, e oggi inutile, di qualche revival squadrista, ma nel senso più potente ed efficace di interventi censori e sanzionatori sempre più frequenti e imperativi. I corpi possono circolare liberamente (dopo tutto devono continuare a fare shopping), ma le menti devono viaggiare su corsie ben sorvegliate.

SD: Se pensiamo alla velocità con cui, pur senza un’obbligatorietà vaccinale, una norma così risoluta si è imposta sulla scena sociale, finanche nel diritto al lavoro e allo studio, e con la complicità di un immobilismo generalizzato di tutte le fazioni politiche, viene da pensare che la società non abbia quasi avuto nemmeno il tempo per mettere a fuoco quel che stava accadendo e che abbia dovuto accettarlo più come un fatto compiuto, quasi in una sorta di riattualizzazione della vecchia “Nottola di Minerva” hegeliana. Con questa espressione Hegel alludeva al ruolo strutturalmente tardivo della Filosofia e del Pensiero, che tendono a interpretare il Reale solo dopo che questo ha già fatto il suo corso. A queste considerazioni hegeliane, Marx avrebbe risposto con la celeberrima Undicesima Tesi su Feuerbach: “finora i filosofi si sono occupati di interpretare il mondo, ora bisogna cambiarlo”. Secondo lei è il caso di prendere definitivamente atto di questa tardività e passività del pensiero o esistono ancora margini per rilanciare e ripensare il discorso dominante che ha ormai l’abitudine di calarsi sulla scena pubblica come incontrovertibile dato di fatto?

AZ: Personalmente non credo che la frase di Hegel sia da intendere come un invito alla passività e alla rassegnazione. Peraltro vari autori, penso in particolare al Marcuse di “Ragione e rivoluzione”, ma non solo, hanno mostrato molto bene il potenziale emancipativo del pensiero hegeliano. È però vero che in Hegel c’è un’idea teleologica della storia, che in qualche modo garantisce che vi sarà sempre spazio per un “rimedio”, per un “recupero” del male, che non sarebbe perciò mai irreversibile. Io credo invece, e in ciò mi sento molto più in sintonia con Marx (ma anche con Foucault), che nella “storia vissuta” il presente sia sempre decisivo: in ogni momento tracciamo l’orizzonte delle possibilità che erediteremo da noi stessi domani, e che i nostri figli erediteranno da noi nel futuro. Ogni atto presente ha una sua tragica (e poetica) irrevocabilità: una volta compiuto, per quanto flebili o discutibili potessero essere le sue motivazioni, ora è una realtà con cui tutti sono obbligati a fare i conti, ora alcune possibilità si sono aperte e altre si sono chiuse.
Per poter formulare un’argomentazione fondata sull’orizzonte di possibilità di cui siamo chiamati a decidere ci vorrebbe uno spazio ben diverso da quello presente. Quello che mi sento però senz’altro di dire nel contesto attuale è che all’ingiustizia e al ricatto, fossero anche “a fin di bene” (e io non credo sia così), non ci si deve comunque abituare, mai. Si possono fare mille discorsi complicati, si possono sollevare mille sottili argomenti, ma prima di ogni altra cosa, sul piano schiettamente umano, bisognerebbe provare un’istintiva ripugnanza per ogni forma di ricatto e coazione. Io non dico che non sia mai possibile, in nessuna circostanza, “trattare qualcuno come mezzo e non anche come fine” (non sono un kantiano), ma credo sia il caso di farlo solo in circostanze estreme, prive di alternative e rigorosamente momentanee: momenti in cui deve essere chiara la percezione di star commettendo un abuso da cui distanziarsi al più presto. Finché sentiamo così, niente è perduto, siamo ancora redimibili. Quando invece iniziamo a compiacerci che ricatti e coazioni sul prossimo vengano esercitati, allora il futuro ha in serbo per noi solo oscurità.

3 COMMENTS

  1. Cosa propone Professore? Io sono per la disubbidienza civile pacifica ad oltranza. Minimi consumi, no acquisti on-line, presentarsi al seggio elettorale e fare annullare il proprio voto, niente straordinari, no ristoranti, no cinema, no teatri per i prossimi sei mesi. Allegerire il conto in banca e tenere i contanti in cassetta di sicurezza. Ridurre le transazioni con carte di credito. Snobbare tutti gli incentivi per la mobilità futura. Usare i mezzi pubblici, la bicicletta o meglio ancora i proprii piedi. No alcolici né bevande gassate, ridurre le calorie introdotte con il cibo. Spegnere la luce. E la televisione. Cordialità.

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