George Orwell, la lingua e il potere

di Daniele Lettig

George Orwell

Confrontarsi oggi con George Orwell e con i suoi scritti (non solo quelli più famosi come Animal Farm e Nineteen Eighty-Four, i quali spesso si citano in modo confuso e senza averli letti) è un esercizio salutare: sono poche infatti le figure dotate di una carica di inattualità che le rende sempre contemporanee, in grado di porre delle domande profonde anche agli smaliziati lettori del XXI secolo: lo scrittore inglese – all’anagrafe Eric Arthur Blair, scomparso a causa della tubercolosi nel 1950 a quarantasette anni – rientra senz’altro in questo ristretto novero. Inattuale Orwell lo fu già in vita, sia per le sue posizioni politiche che per le sue scelte estetiche (due dimensioni che in lui, peraltro, viaggiavano parallele), e lo rimase anche in seguito: perfino un lettore acuto come Italo Calvino nel 1951 aveva definito l’inglese “un libellista di second’ordine”, salvo riconoscere trent’anni dopo come il fatto che “si sia tardato ad ascoltarlo e comprenderlo non fa che provare quant’era in avanti rispetto alla coscienza dei tempi”.

Uno degli spunti che rivestono maggior interesse, per noi contemporanei, nell’opera orwelliana è senza dubbio l’attenzione alla lingua, ai suoi usi e alle sue manipolazioni: si tratta di un filo rosso che si ritrova in tutti i suoi romanzi maggiori e che permea anche la sua produzione saggistica. Basti pensare alla continua riscrittura dei comandamenti che governano la fattoria da parte dei maiali in Animal Farm, oppure all’esempio lampante della ‘neolingua’ ipotizzata in Nineteen Eighty-Four, la cui appendice dedicata ai principî di questo linguaggio si chiude con queste parole: “l’adozione integrale della neolingua era stata fissata solo per il 2050”. In queste pagine Orwell ci dice che chi controlla la lingua controlla anche la storia e può raccontarla, manipolarla e riscriverla a suo piacimento: “soppiantata una volta per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame col passato sarebbe stato reciso”.

Non è un caso se per tutti i regimi totalitari del ventesimo secolo – quelli dalla cui conoscenza lo scrittore inglese prese spunto per i suoi libri – una preoccupazione centrale fosse il controllo del linguaggio (per un primo approccio a questo tema resta fondamentale il volume di Enzo Golino, Parola di Duce, BUR 2010). E anche oggi, i modi in cui la realtà – sia lontana (guerre, epidemie, fenomeni migratori) che vicina (dibattiti politici, cronaca) – ci viene raccontata influenzano il nostro pensiero e il nostro sguardo. E spesso questi racconti sono farciti di pregiudizi e volutamente poco chiari.

Leggendo oltre le righe del racconto distopico, volutamente estremo, narrato da Orwell in Nineteen Eighty-Four, ciò che mantiene un’immutata forza e attualità è la diagnosi – spinta al limite con la descrizione del funzionamento della ‘neolingua’ – di un progressivo impoverimento del lessico che abitualmente adoperiamo. Abbiamo parole che ci consentono di esprimere precisamente tutte (o quasi) le cose o i concetti, ma ne usiamo sempre meno, non curandoci di questa perdita progressiva. Per non parlare del continuo ricorso, nella quotidianità, a parole ed espressioni di stampo anglosassone che vengono utilizzate anche laddove non servono (si pensi all’onnipresente spending review), soltanto per darsi un tono – oppure, se vogliamo essere più maliziosi, per non far capire di che cosa si stia realmente parlando. È questo, forse, l’orizzonte che lo scrittore inglese intravedeva da lì a cent’anni (Nineteen Eighty-Four, lo ricordiamo, fu scritto nel 1948), e che salda assieme le sue preoccupazioni di letterato e di attivista politico.

In quest’ottica le osservazioni contenute nel saggio del 1946 La politica e la lingua inglese (nel quale Orwell tra le alte cose afferma che “l’attuale caos politico è collegato alla decadenza della lingua, e […] forse si può apportare qualche miglioramento cominciando dall’aspetto verbale”) ci appaiono stupefacenti quanto a lucidità e perspicacia. Inoltre, il discorso che viene sviluppato in queste pagine è valido anche in contesti linguistici differenti, e oggi lo è sempre di più. Basta citare uno degli esempi di “trucchi per mezzo dei quali ci si scansa […] la fatica di costruire prosa”, riportato dall’autore: “c’è un’enorme quantità di metafore consunte che hanno ormai perso ogni potere evocativo e sono usate semplicemente perché risparmiano il fastidio di inventarsi delle proprie espressioni. Esempi di queste sono: introdurre variazioni su, assumere le difese di, mettersi in linea, calpestare i sentimenti altrui, stare fianco a fianco, fare il gioco di, portare acqua al proprio mulino, tutto fa brodo, pescare nel torbido, all’ordine del giorno, tallone d’Achille, canto del cigno, focolaio”. Sono tutte espressioni, come si vede, che lo scrittore vedeva già prive di forza settant’anni fa, ma che dominano anche oggi il panorama del linguaggio politico e di quello dei media.

Partendo da questioni di stile, Orwell giunge ad affrontare il tema ben più serio dell’autonomia intellettuale del singolo, e ci dimostra ancora una volta come il nesso tra chiarezza della comunicazione, onestà intellettuale e verità sia inestricabile, come testimonia alla perfezione un brano di questo tenore: “Dei villaggi indifesi sono bombardati, gli abitanti sono trasferiti nelle campagne, il bestiame è mitragliato, i rifugi bruciati con pallottole incendiarie: questa la chiamano pacificazione. Milioni di contadini sono rapinati delle loro fattorie e buttati per strada con nient’altro di quello che possono portarsi sulle spalle: questo si chiama trasferimento delle popolazioni o rettifica delle frontiere. La gente è imprigionata per anni senza processo o viene uccisa con uno sparo alla nuca o mandata a morire di scorbuto nei campi di lavoro artici: questa è detta eliminazione degli elementi indesiderabili”.

Il continuo monito ad osservare una ‘ecologia del linguaggio’, la quale costituisce senz’altro il mezzo principale per un pensare che tenti – nei limiti del possibile – di liberarsi da pregiudizi, è dunque quanto di più attuale ci lascia l’inattuale Orwell: un insegnamento da tenere bene a mente, che ci costringe a una continua, caparbia interrogazione.

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