Gep

di Ruben Salerno

Cinque a quattro per me, quaranta a quindici, match-ball. Servo per l’incontro. Gep non parla, se ne sta fermo al di là della rete e sogghigna. Le regole le ha fatte lui.

«Partita corta da un set» ha detto, con la scusa dell’età e dell’abbigliamento inadeguato: jeans, polo, scarpe di coccodrillo, racchetta Prince del ‘97 e il solito golfino un po’ consunto che, per quanto sia nero, non lo snellisce. Il gonfiore della sua pancia aumenta per contrasto con gli arti esili e la statura media.

Doppio fallo, non mi scompongo, ho ancora un gran vantaggio da gestire ed è la prima volta da quando ci conosciamo. Gep ha un quarto di secolo più di me, eppure è sempre stato della partita. Le sfide gli piacciono e vince quasi sempre, anche a costo di barare. In una gara di sci tra amici corruppe il cronometrista. La volta dopo riuscii a stargli davanti solo perché cadde, piantandosi nelle reti. Neanche a dirlo, stava tagliando il tracciato in un punto cieco della pista. La sconfitta non gli andò giù e l’anno dopo, in condizioni regolari, batté tutti per distacco.

Oggi però lo metto sotto, me lo sento. Servo aggressivo, gli rubo il tempo sulla risposta, avanzando di due passi dentro la linea di fondo, e mi avvento sulla palla con tutta la forza che ho in corpo. Il dritto si spegne sul nastro della rete, secondo match-point sprecato. Lui sogghigna di nuovo.

«La tua è un’intelligenza superiore al comune ma sei ancora troppo emotivo. Quando imparerai a gestire la foga diventerai un ottimo manager.»

Quante volte me l’avrà detto, è il suo leit-motiv da quando è entrato in azienda. La direzione voleva un professionista esperto per fare da mentore a noi ventenni, ed ecco arrivare Gep: un imprenditore lombardo di mezza età, con un passato da atleta e una laurea in economia e commercio. Riusciva a stare a proprio agio sia nei discorsi di strategia aziendale che a fare mattina in giro per locali. Io ero appena stato promosso responsabile commerciale e non sapevo decidermi tra una carriera in quell’ambito e la continuazione dei miei studi letterari; l’incapacità di scegliere mi immobilizzava. Gep invece era un tipo dinamico, andava avanti a caffè e sigarette, decine al giorno. Ho provato a convincerlo a smettere, evocando l’infarto e il discorso strappalacrime che avrei scritto per il suo funerale. Glielo ricordo anche adesso, dopo averlo spiazzato con un lungo-linea di dritto a uscire. Ribatte sogghignando.

«Forse hai ragione, sarebbe un buon modo di mettere a frutto la tua laurea in lettere, ma non è ancora tempo.»

Tiro fuori la prima di servizio. La seconda mi esce troppo morbida e centrale. Lui affonda con un rovescio incrociato e va a rete. Reagisco con un colpo di reni e alzo un lob che lo scavalca. Gep non ci prova neanche, si limita a seguirne con gli occhi la traiettoria curvilinea. La pallina cade fuori di due millimetri, c’ha pure culo… In pochi minuti ribalta il punteggio e vince sette a cinque. Si pulisce le scarpe di coccodrillo dalla terra rossa, va al bar del circolo e ordina un caffè. Poi, mentre fuma, mi fa:

«Scrivilo pure il mio necrologio, lo leggerò volentieri.» E sogghigna.

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