di Collettivo Gioir sul disagio
La nostra linea diritta
Corre in mezzo al nero
Mentre attraversiamo città mute
Come fantasmi della trasgressione
Soli in un abbraccio disperato
Soli nello scherzo alla vita
[Negazione]
«Libri e prostitute amano girare il dorso quando si mettono in mostra»
[W.B.]
Cavana, puttana gentrificata. Piangiamo l’oblio della Cavana postribolare, della piccola malavita, delle bobe, scacchiera oscena per i rituali dell’esercito di svogliati perdigiorno, maestranze dell’italica arte di affinare tecniche per fottere sé stessi e il prossimo, – ama il prossimo tuo lungo e disteso – , l’inganno sempre pronto di fronte all’austera legge asburgica, dei padri, degli antenati, delle patrie impresse su un documento, in un nome, una colpa da espiare, l’identità svanita di un quartiere ridotto a postribolo del capitale, un crogiuolo di pizzerie per famelici turisti, di negozietti insorti nel culto del bio, dell’esclusivo, del modernariato come mezzo di distinzione simbolica dal prodotto seriale, bottegucce infestanti di grandi catene della ristorazione, specchi per allodole per ottusi crocieristi.
Invochiamo un fuoco purificatore che condanni alla cenere quel reticolo di bar e vinerie con giovani cameriere, ove recitare copioni stantii di discorsi che si autoriproducono secondo script cristallizzati – i CFU mancanti, il suono caldo dei vinili, gli anni di contributi necessari alla pensione, le differenze tra il sushi vero e quello dei ristoranti cinesi, l’amarezza del luppolo nelle ipa, il costo al metro quadro di un appartamento nelle capitali europee – interrotti soltanto da qualche venditore di rose.
Sogniamo ancora una volta, nella consapevolezza di poterla rievocare solo come immagine sintomale e negativo del presente, il ritorno della Cavana delle puttane, infestata dai ratti, di vite postume che celebrano la loro caduta, di corpi che inverano l’immedesimazione con la merce. Dov’è finita la Cavana dei bordelli, delle passeggiate all’insegna dei desideri più urgenti e nobili? Rimane soltanto una carogna di particelle catastali vendute a peso d’oro dove costringersi a passeggiare su sentieri ormai battuti, celebrando la propria condanna al quieto vivere in un geolocalizzato e instagrammabile flaneurismo, addomesticate pedine che animano la mitologia securitaria dei politicanti, in un reticolo di strade illuminate da abbacinanti luci di anonimi esercizi commerciali.
Sottraiamoci alla tinderizzazione di ogni desiderio, contrastiamo la rimozione di ogni possibilità di un residuo di esperienza autentica, invocando la cragna, la stortura, la cifra più intima e sordida di quest’angolo di Trieste. Muta è la nostra espressione, di fronte a un paesaggio svuotato di senso.
Sogniamo un esercito di menadi esotiche, una schiera di matrone d’ebano, al fianco di veterane triestine e ninfette caucasiche, che riportino i marciapiedi di Cavana al proprio inquieto destino. Non più carne da macello del capitale, ma inciampo, rovina, tegola che si infrange sulle vetrine tirate a lustro.
*Rielaborazione del quadro Naissance de Vénus (Amaury–Duval), tratta da wikipedia, crediti qui.

