Terza Pagina. Un ricordo di Pino Roveredo

di Teo Verdiani

Il viaggio cominciò da un treno senza binari, lo so perché se vi fossero stati nessuno di noi ci sarebbe salito. Sembravamo tutti tossici, tutti operatori e tutti poeti.
Grazie a dio esiste Lilli. Donna alta, bella, severa e mai scontata. Ha sul viso le rughe di chi non sorride mai a metà e non s’incazza mai per finta. Non conosce vie di mezzo Lilli: se è viva è perché non ci pensa proprio a morire.
Fu lei ad organizzare la gita.
Io avevo 26 anni, uno zainetto con dei paninetti col pollo panato, acquetta e crostatine sbriciolate buone per lo sniffo.
Arrivai per primo in stazione. Vidi arrivare Lilli con i “suoi ragazzi”. L’aria era frizzante, c’erano trolley, chitarre, la borsa coi farmaci e a nessuno fregava un cazzo del fatto che avremmo dovuto andare a recitare ad Altamura.
Io ero un po’ teso, ma la cosa bella dei “ragazzi” è che t’insegnano che ciò che succederà domani è solamente un problema di “te domani”. Non sarà igienico, ma è funzionale.
Poi arrivò Pino Roveredo. Era con un sigaro in bocca, in ciabatte, sguardo vivo e quadrato, sembrava camminasse su petali di rosa.
Tutti gli corsero incontro salutandolo come si saluta un vecchio amico. Lilli, l’ape regina, attese che fosse Pino ad andar a salutarla e io rimasi indietro. Lo faccio spesso. Nel dubbio m’aggancio sempre alle parole di mio padre: “Se non sai che fare, sta zitto che alla peggio non avrai problemi”.

C’incrociammo e mi presentai e gli dissi che ero un volontario del servizio civile. Lui mi strinse la mano e mi disse semplicemente: “Pino.”
Io lo conoscevo. Era lo scrittore preferito di mia madre. Lei aveva letto Capriole in salita mentre era ricoverata in alcologia. Passò una decina di anni a nutrirsi solo di Dreher calde, arrivò in ospedale nel ’97 con 37 kg addosso e una quasi-cirrosi. Non ho mai capito che patologia fosse la “quasi-cirrosi”. In fondo era normale, papà si drogava, aveva una vita di merda, era carica di debiti e di segreti, da “brava ragazza” bevendo aveva imparato a rimandare a domani i problemi. Era un altro modo di restare attaccati alla vita in fondo. Un modo che Pino aveva conosciuto, che i ragazzi conoscevano, che Lilli combatteva e a cui io ero affezionato.
Salimmo su quel treno senza binari. Tre quarti di noi, per la prima volta, col biglietto.
Io stavo vicino a P., era un uomo che l’ultima galera se la mangiò per aver svaligiato una libreria: “No gavevo bori e co go visto quel scafal con Shakespeare no go resistido.”. Come fai a mettere in prigione uno così?
Aveva pure appena perso il fratello per colpa di un’epatite trasformatasi in cirrosi repentinamente, ricevuta in omaggio da una “pera” infetta. Lo conoscevo il fratello. Aveva la mia età. Ci facevo anche il grosso quando eravamo piccoli.
Pino era seduto su un altro gruppo di sedili, assieme a Lilli e ai ragazzi più vecchi.
Dieci ore sono lunghe a passare e quindi cominciammo a ruotare le postazioni e ad un certo punto me lo ritrovai difronte.

“Te piasi leger?” Mi fa.
“Sì. Tanto.”
“Te ga mai leto un mio libro?”
“No.” Era vero.
“E no te se vergogni?” E ride.
“Mia mamma sì, però. In alcologia. L’hai pure conosciuta.”
“E chi è?”
“Zina.”
“Non mi viene.”
“La signora Lucrezia.”
“Cara Lucrezia. Certo. Come sta?”

Cominciò là la nostra conversazione a vapore, senza binari, di prima classe, con un biglietto vinto in una strana lotteria di paese, dove i racconti scorrono veloci e mutano come il paesaggio fuori dal finestrino. Raccontai la vita di mia madre, la mia e ci misi in mezzo pure qualche inserto omaggio.
Un operatore di strada lo riconosci perché sembra non essere mai impressionato da ciò che gli si para di fronte. Sa dare un tempo alle emozioni proprie e un tempo a quelle dell’altro. Pino lo sapeva fare. Ti veniva da raccontargli ogni cosa e il feedback non era importante. Va detto però che Pino quando ti restituiva qualcosa ti rendeva una bellezza che non potevi immaginare di avere. Lo aveva fatto lui con sé stesso, sapeva quale fosse la strada.

Fu lui ad intuire la mia vena scrittoria, la mia attitudine alla narrazione, quella voglia di esistere che poteva farsi poesia.
“Scrivi!” Mi disse .
“Cosa?”
“Quel che te vol, ma scrivi.”
“Tipo?”
“Comincia coi racconti. Xe una monada. Ghe go vinto un Campiello cusì.”

Se Pino sa fare qualcosa, oltre a scrivere, è dissacrare. Negli anni non mi ha mai commosso più di tanto la sua capacità di portare in alto ciò che sta in basso, quanto quella di fingere distrazione per far cadere a terra le cose fintamente importanti. Qualche anno dopo, ad esempio, per una serie di strane ragioni che non sto a spiegare, mi si vide il culo sul palco di un liceo durante un incontro istituzionale di una certa rilevanza. Eravamo insieme. Lui, tra il gelo del pubblico, cominciò a ridere e ci mise un po’ a ricompattarsi. Volevo morire.
Tornando a noi.
Un po’ m’attirava l’idea di scrivere, ma non mi sentivo pronto a farlo.
“Ma cos’ te frega! La scritura ga de eser maleducata. Xe za tropi che scrivi ben”.
È che non basta sentirsi autori, bisogna sentirsi autorizzati.
Sarebbe facile parlare d’autostima, c’è un altro grande setaccio prima.

Non so cosa sia, so solo riconoscerlo quando lo attraverso: mi sento agitare, mi stacco da qualcosa che mi proteggeva, mi sento nudo e piccolo e cado giù da qualche parte. Poi capisco che era là il posto in cui dovevo stare in quel momento esatto. Con l’autostima ci fai i conti dopo.
Il viaggio continuò fino a che non trovammo i binari.
Ognuno li trovò coi suoi tempi. Io li trovai quando, prima di salire sul palco, Pino ci disse: “Allora! No dovè preocuparve de nula. Se legè e fé quel che xe scrito nderà ben. Se ve intopè e sbajè, sarà ancora mejo.”
In fondo ci chiamavamo “Compagnia Instabile”.
Andò tutto sommato bene. Senza intoppi. Per intoppi s’intende che nessuno ebbe scleri, nessuno andò in overdose e tutti riuscimmo a costruire un clima di stima reciproca. Cosa fondamentale tra operatori e persone con le quali si opera assieme.

Da quella esperienza ci feci un lavoro, anche grazie a Pino che cominciò a coinvolgermi nella maggior parte delle sue iniziative. Scrissi anche per lui alcune parti delle sue messe in scena. Imparai il mestiere come un garzone in bottega e fu questo il nostro rapporto negli anni.
Non c’era l’orizzontalità di un’amicizia, ma la verticalità del rapporto tra maestro e allievo sparì man mano. C’era tanta stima e rispetto al punto da cominciare a lavorare alla pari su certi progetti e lui era contento. So anche che mi voleva bene. Lo so perché tutte le volte che ho avuto un momento buio nella mia vita lui mi chiamava e passavamo del tempo insieme a bere caffè interminabili, a raccontare la durezza di noi, a sferzare parole sul volto dell’altro in quel gioco tra operatori di strada dove il primo che fa una smorfia perde.

“Teo mio, ho i sassi nel cuore e non andranno mai via.”
“Pino, ho paura a uscire di casa. Non voglio più vedere morte e dolore. Non ne posso più”.
“Teo, tutti mi hanno voltato le spalle. Parlo di quelli che si vantavano di me.”
“Pino, io mollo tutto.”

Erano feroci ping pong di parole, logomachie consumate ai tavolini di un Cafè, emozioni crude da assaggiare nel tentativo di creare un pensiero buono per entrambe.

Quattro anni fa mi chiese anche di scrivere un lavoro assieme con al centro le nostre conversazioni, doveva chiamarsi “Un treno per Altamura”, proprio a ricordo della nostra prima volta su quel treno senza binari.

Purtroppo, pare per un vizio di forma, quel premio vinto in quella strana lotteria molti anni prima, ci venne ritirato. Ma ci volevamo bene. Lo so perché Gigliola e Mario potevano lavorare solo con me senza che lui fosse geloso.
Lo so perché mi sono arrabbiato con lui tante volte per il suo essere guascone, per l’essersi imboscato durante i nostri lavori e per il suo percularmi ogni volta che lo questionavo seriamente, eppure dio solo sa quanto ho pianto il giorno in cui è passato a significato da significante.

Ora di lui mi resta la sua forza, così come a tutti coloro che non hanno paura di attraversare il disagio, proprio e altrui.
Di lui mi resta la volontà di sentirmi autorizzato a esistere con le mie maleducazioni a patto di un intento pulito.
Di lui mi restano gli “Stolen Wordz”, progetto di teatro per giovani, che porto avanti con Gigliola, la sua grande amica, la nostra grande amica.
Di lui ci resta la sua postura nel mondo. C’è un prima e un dopo Pino.

Certo, tutti i martiri dopo quello di Cristo, sono solo meri Spin Off. Uguale ora, credo. Lui s’è immolato a una causa, lui ha preferito stare nelle periferie del mondo invece che nei salotti bene, lui prendeva per il culo gli intellettuali per ridersela con noi dopo, allo scopo d’insegnarci come non farci imbrogliare, imbrogliando gli imbroglioni. Ora dentro a questo buon intento ci siamo tutti, ma a ricasco, sopravvissuti nostro malgrado a questo nuovo setaccio. Dopo questa nuova agitazione qua siamo caduti. Io ho freddo e sento d’aver lasciato qualcosa, sono piccolo, ma è qui che dovevo stare.
Sono autorizzato, fine.
L’autostima è un’altra cosa.

4 COMMENTS

  1. bravo teo per me un emozione grandiosa ricordo tutto nei minimi dettagli! una delle cose più belleche ha fatto Pino, è stato farci conoscere, tutti insieme nella grande famiglia della compagnia instabile! grazie del tuo ricordo e dei tuoi sentimenti…..viva la compagnia instabile viva Pino viva noi❤

  2. meraviglia in queste frasi c’è tutto LUI…. Pino come era…. persona stupenda…una gran bella persona…un caro amico… grazie veramente di ❤️ da un’amica

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