di Andrea Muni e Lucio Pastore
Si è chiusa da poco la mostra “Trieste su foglia” di Lucio Pastore al Knulp Bar. Lucio ha filtrato le immagini di volti familiari e di scorci della città di Trieste sulla pelle rugosa delle foglie secche, ottenendo da questa operazione un risultato a dir poco affascinante. Ho pensato perciò, al termine dell’esperienza espositiva, di fare due chiacchiere con lui per approfondire insieme il come e il perché di questa felice intuizione artistica (e della sue implicazioni più teoriche e filosofiche). [Andrea Muni]
Lucio, da dove ti è venuta l’idea di lavorare sulle foglie? Immagino dal desiderio di usare un supporto materiale/materico “naturale”, ma come mai proprio le foglie?
Le foglie inizialmente sono state una scelta fortuita. In principio, dieci anni fa, il mio pensiero era stampare sulla pelle, con lunghe esposizioni al sole d’agosto. Un’idea piuttosto pericolosa e problematica, per cui per qualche motivo nessuno (me compreso) si è offerto come cavia. Per questo ho pensato che una valida alternativa potessero essere le foglie, che curiosamente hanno un loro meccanismo di “abbronzatura”, seppure inverso rispetto al nostro. Ovviamente non sapevo come fare, ci sono voluti dieci anni prima che capissi da dove iniziare.
Come sei arrivato infine alla scelta di questo preciso materiale? La foglia morta, per antonomasia, è un qualcosa di liminale, che non è più vita né ancora oggetto; un qualcosa che sta cessando di vivere, che sta per diventare oggetto. A suo modo la foglia che si rinsecca è questo limite: uno scampolo di vita che già penetra nella morte.
Seppur sia stato fortuito sono rimasto e rimango tutt’ora affezionato al lavoro sulle foglie proprio per la catena associativa di cui hai parlato. Però devo cominciare dal principio. Anni fa sono entrato a far parte del Fronte di Resistenza Analogico, un gruppo di fotografia sperimentale perugino davvero speciale. È stato grazie a loro che ho capito cosa potevo fare con tutto ciò che hai detto, con quella catena di significati che si celano dietro, attorno, dentro “la foglia”: la vita, la morte, la contraddizione, l’unione di tutto ciò. In questo gruppo di fotografia mi sono accorto subito che c’era qualcosa che non quadrava, tutti davano una importanza enorme agli aspetti più materiali, il tipo di carta, il substrato su cui stampare, la grana. Ho ridotto inizialmente ciò che vedevo a “tecnica”, ma perché? Faceva un po’ strano, anche perché ero abituato a porre il massimo dell’attenzione sul soggetto della fotografia, più che sul suo sostrato. In verità c’era molto più che mera tecnica, si trattava piuttosto una ricerca ben più sottile e poetica, per quanto possa sembrare paradossale: una ricerca sull’oggetto, su quello che ha da dire, su come lo dice, sul rapporto che lega l’oggetto al soggetto che lo crea; una ricerca sul modo in cui, attraverso l’oggetto, il soggetto entra in relazione con l’ambiente.
Liberarmi dal mio precedente modo di pensare non è stato facile. Siamo stati ben abituati a pensare a compartimenti stagni, e ciò vale anche per l’arte, nonostante alcune meta-narrazioni cerchino ancora oggi di restituircela romanticamente come una zona franca di pura creatività, come una terra vergine libera da ogni conformismo e omologazione.
Come mai ti sei concentrato in particolare su volti e paesaggi? Che rapporto intrattiene la struttura fisica/materica della foglia con le immagini che poi la luce vi dipinge dentro? Quando sono stato a vedere la mostra mi ha colpito molto il fatto che spesso, quasi accidentalmente, i filamenti delle foglie disegnassero “spontaneamente” il reticolo di una prospettiva perfetta, in cui l’immagine o i volti che hai ritratto non dovevano far altro che adagiarsi.
È una cosa che è venuta un po’ da sé. In tre anni ho provato a stampare ogni genere di soggetto. Paradossalmente le foto migliori, quelle che ritenevo qualitativamente e tecnicamente valide, non funzionavano sulle foglie, e le foto stampate sulle foglie tendevano a non aver senso al di là della foglia. Dopo varie prove mi sono accorto che sia i volti sia i palazzi di Trieste mi smuovevano qualcosa di più, come se ci fosse una sinergia tra il significato di quei soggetti e la materialità delle foglie. Prendiamo le foto di ritratti che ho fatto. La caducità della foglia si sposa così bene con la caducità della vita, e come raggrinziscono le foglie morte così fanno i corpi e i volti. I filamenti delle foglie si incastonano tra le rughe dei volti, così come la spina dorsale di una schiena si avviluppa nell’idea donata dalla nervatura principale. La lamina mangiucchiata dai vermi diviene caducità preverbale che tutti noi ci portiamo dietro. Sono due idee che si incontrano, comunicano, parlano.
Provo a prendere l’argomento da un’altra prospettiva per chiarire, e mi soffermerei proprio sulla musica, dato che il periodo in cui ho iniziato con questo progetto è stato anche l’anno in cui ho iniziato il corso di organo liturgico. Nella musica sacra, come i corali di Bach, ci sono più voci. Ciascuna voce presa da sola funziona già benissimo, ma è quando le due sono unite assieme che avviene la magia, che si crea una sinergia stupenda, una nuova musica che non è la mera somma delle due parti. La grande differenza con la musica contemporanea comune è che adesso si tende a creare una scala di valori diversa, in cui la voce regna, l’accompagnamento sta lì, quasi come riempitivo. Nella fotografia il discorso è simile. Una volta c’erano la camera oscura, le varie carte, le diverse pellicole, i viraggi e tanto altro. Poi pian piano tutto il substrato materiale è andato perdendosi, tanto che ora la foto appartiene a un mondo etereo, si è liberata dal mondo oggettuale. Non ho intenzione di lamentarmi come i vecchi e dire “Ah i bei tempi andati!”, perché non sono affatto d’accordo. A me piace vedere quando qualcosa si perde, cosa rimane indietro, quale vuoto lascia e come verrà colmato. Del resto la fotografia non ha eliminato la pittura, anzi, le ha permesso di diventare ciò che era veramente. Ecco, la mia domanda allora, semmai, sarebbe “Cosa ha lasciato dietro di sé la fotografia digitale che non vogliamo perdere?”.
Idea e carne, forma e materia, un dualismo che ci proviene da lontano, limitandosi alla cultura occidentale almeno dai Misteri, da Platone e dal manicheismo. Un dualismo che si snoda carsicamente lungo tutta la storia della nostra cultura, arrivando infine a interessare anche la nostra esperienza della soggettività, di noi stessi, imponendoci a volte una deleteria, forzata e infausta divisione tra mente e corpo. Vorrei chiederti: come ha pensato la storia della fotografia questo binomio? Come hai cercato tu di abitarlo nel tuo lavoro? Qui l’idea/forma e la materia si scambiano ironicamente, provocatoriamente di posto, permettono di gustare diversi “livelli” di materialità: quello rugoso della foglia su cui l’immagine viene a inscriversi, e quello più “ideale” della luce e dell’immagine, che pure – nonostante la loro maggiore “idealità” – sono a propria volta materia tanto quanto le rughe delle foglie.
Un dualismo, quello tra carne e spirito, tra corpo e idea, che ritorna ancora e ancora da migliaia di anni. Forse, come dici, si tratta di uno di quei “crampi” del pensiero che scivolano senza possibilità di venir fermati, erodendo i tentativi di risolvere la questione una volta per tutte. Sicuramente la storia della fotografia è impregnata di analisi filosofiche (basta prendere un qualsiasi libro di approfondimento per accorgersi che siamo in tutto e per tutto di fronte a un discorso filosofico), ma è molto interessante notare come – anche in coloro che sono più distanti da queste riflessioni – l’atto fotografico è percepito quasi spontaneamente come un discorso intorno all’anima, intorno alle idee. Un amico fotografo mi diceva sempre: “ricorda che la fotografia mente sempre, ti vende la realtà come se fosse davvero reale, ma non è così”. Un discorso non privo di assonanze sia con il mito della caverna Platone, sia con la celebre provocazione di Lacan secondo cui “la verità ha struttura di finzione”. Nella fotografia, come in Lacan, il reale è ben diverso da quello che puoi semplicemente riportare o ritrarre della presunta realtà. Così vedi, come i funghi che sembrano comparire dal nulla, alcuni concetti antichi rispuntano: sembra quasi ci siano delle idee che stanno proprio là fuori, nel reale, dure come le rocce, inamovibili come le montagne, e che a volte la fotografia, nei suoi momenti più felici, finisca per sbatterci contro che lo voglia o no.
Nel mio lavoro il discorso si ripete analogo. Avrò letto in triennale a Bologna mille volte di questa divisione tra idee e materia, spirito e corpo. In un modo o nell’altro però c’è ancora qualcosa che cerco tra questi pensieri. Ora ci penso senza parole, quando faccio queste foglie. Ma i miei atti sotto sotto sono la stessa ricerca. Cosa diceva del resto Platone, se non che dietro a cose in apparenza diverse e divise c’è un’unica cosa, un’idea che sorregge come colonna portante?
Riguardo a questo discorso credo che il mio lavoro si ricolleghi anche in parte a quello che diceva Mario Vegetti proprio a proposito di Platone e del mito della caverna: “Non esistono due mondi, è sempre stato uno”, come a ricordare che Platone con il mito della caverna non si è limitato a metterci in guardia dalle illusioni, quasi a preannunciarci una sorta di Matrix ante litteram. Il mondo è solo uno, per quanto sia bello fare divisioni. Io ribalto il discorso, mostro la medesima realtà allo specchio, rovesciata.
Certo, c’è un gioco, uno scollamento, una frattura generativa, tra reale e realtà in Lacan, in Platone, e così anche nelle tue foglie. La realtà, con buona pace dei realisti di tutti i tempi, è in fondo storicamente poco più che il discorso corrente, dominante: la percezione normale, nel senso di “tendenziale”, “alla moda”, di me stesso, di una certa cosa o faccenda, o di un certo mondo. Il reale, al contrario, sarebbe invece una specie di non-luogo, una dimensione “speciale”, in cui si incontrano e si mescolano corpo, parola e immagine. Il luogo da cui scaturisce quel discorso dominante che è la realtà. Un luogo di cui, non a caso, si dice che non è fatto per essere conosciuto, pensato, e non è forse un caso che tu mi stia raccontando di aver rinunciato ad occuparti di tutto questo con “pensieri”, ma cercando piuttosto di passare all’atto di una creazione artistica. Le tue foglie, la loro materialità, la loro vita in decomposizone, sono il supporto di un’immagine reale; recano sul proprio corpo il blasone di un’immagine che non è loro propria. Non solo: la innervano, dal di dentro, accettando quasi la tua sfida, non rinunciando ad appropriarsi in qualche modo di questa immagine “altra” che tu imponi loro. La “riconquistano”, si rifiutano di “subirla” passivamente, le conferiscono una parvenza di proporzione e prospettiva grazie alle loro nervature. Con la boutade su Platone e Vegetti mi sembra tu alluda al fatto che il mondo è sempre solo uno nel senso che materia e forma – come insegnano il Timeo di Platone a proposito del mondo e il De anima di Aristotele al proposito del soggetto – si danno nel reale in un intrico indissolubile, in un misto che non è (e non sarà mai) separabile se non “teoricamente” o “miticamente”. Ti pongo un’ultima domanda: quale sarebbe l’idea, la “colonna portante” di cui parli, e che sorregge questo tuo esperimento con le foglie? Cioè, con un minimo di autoanalisi ti chiederei: perché senti questa urgenza, perché è importante per te, perché “pensare” senza parole in questo modo, con questi oggetti e questi gesti, alla fine è una pratica che ti soddisfa?
Ho sempre avuto una facile tendenza alla dissociazione. L’interesse verso l’astratto, verso il verbale, è stato in parte una manifestazione di questa mia caratteristica. Non so da dove venga. Anni fa ho attraversato una depressione molto forte, durante la quale per qualche motivo la mia abilità di dissociarmi dalle percezioni, soprattutto corporee, è venuta meno. È stato davvero doloroso. In rari momenti però mi succedeva di essere come investito da alcune immagini di una ricchezza indefinita, della durata di un istante, luoghi a volte pensati, a volte visti, in cui ero presente come mai in vita mia. Non ho ancora chiaro cosa sia successo durante quell’anno, ma ho avuto come una rotta su cui lavorare negli anni a venire. Era come sentire non solo il corpo, ma anche qualcos’altro, come se dentro ai muscoli, alle viscere, ai tendini e agli stessi movimenti vi fossero delle idee, delle idee incastrate nel corpo. E poi oltre al corpo c’era lo spazio oltre a me, che mi separava dalla strada, dall’albero, dalla casa. In quegli attimi mi sembrava, come in sogno, che quello spazio vuoto fosse pieno, pieno di qualcosa di mio, ed era un “un senso di vuoto come una carezza”, per rubare le parole a Calvino. È stato strano. Le uniche parole che ho trovato per spiegarmi ciò che ho vissuto sono quelle di Merleau-Ponty, quando dice: “Ciò che c’è allora non sono le cose prima identiche a sé stesse, che poi si offrono all’osservatore – ma qualcosa a cui non potremmo essere più vicini che palpandole con il nostro sguardo, cose che non potremmo sognare di vedere tutte nude perché lo sguardo stesso le avvolge, le riveste con la sua stessa carne”.
Cosa avevo visto quindi? Non allucinazioni dovute alla depressione, ma scene di un mondo vero, di cui per qualche motivo da sempre mi privo, dissociandomi da me stesso. Un mondo vivo perché sentito col corpo, in cui non esistono distanze o vuoti. Da quando è finito quell’anno mi sembra che ricerco quelle immagini, ricerco la verità che mi era stata mostrata. Ma la parola, che era stato il mio unico e preferito mezzo, non mi è più d’aiuto, o comunque non mi basta. La narrazione verbalizzata e la realtà che ho visto in quelle immagini sembrano a volte quasi essere antitetiche, vicine ma lontane come due facce della stessa moneta. Nelle venature delle foglie, nella grana della carta, nel blu di Prussia della cianotipia, in parte trovo quel più che vedevo in quelle immagini, ricompongo un puzzle che mi è stato donato da qualcosa dentro di me. Non so se queste parole ti risuonano, mi è molto difficile provare a dire tutto ciò, ma per ora questa penso sia la colonna portante. In parte è anche qualcosa di terapeutico, come un laboratorietto alchemico fatto di foglie e fotografie, in cui in realtà elaboro me stesso, anche se non amo moltissimo questa definizione, come se l’arte potesse essere riassunta in un bisogno, terapeutico per di più! Chissà, qui mi muovo in territori ancora inesplorati.