Educazione e violenza: parliamone (con Fanon). Decolonizzare le istituzioni, cedere sovranità

di Andrea Muni

Immagine ispirata a Franz Fanon, tratta da Flickr crediti qui

L’aggressione coloniale s’interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la “loro” violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell’inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l’ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l’inconscio collettivo dei colonizzati

(JP. Sartre, “Prefazione ” a

I dannati della terra, di F. Fanon)

Il problema posto dall’odierno rapporto tra educazione e violenza intreccia molte delle questioni più scottanti del nostro mondo alla deriva: dalla terza guerra mondiale a puntate in atto alla necessità di ripensare totalmente il modo di fare e diffondere cultura, dal problema dell’appassimento senile delle nostre istituzioni a quello del disciplinamento perpetrato per mezzo di un discorso dominante che si serve di tattiche e strategie, formali e informali, pubbliche e private, sempre più capillari e impercettibili. Tale “discorso” e le sue logiche profonde sono ritrasmessi indistintamente dallo pseudo-progressismo e dal liberal-conservatorismo dominanti nelle nostre élites politiche, professionali e intellettuali. In questo intervento approfondiremo le cause dell'(auto)aggressività strutturalmente prodotta dalle istituzioni (pubbliche e private) della nostra società, che non smettono di colonizzarenormalizzare selezionare internamente i soggetti più adatti a conservarne lo status quo. Fanon e la questione (de)coloniale sono un’entrata eccellente per riflettere su due movimenti intrecciati, che formano una sorta di vortice: 1) L’aggressione neocoloniale e razzista, verso l’esterno, che come Occidente continuiamo a perpetrare nei confronti di altri mondi ancora differenti dal nostro, 2) Il ripiegarsi internamente di questa violenza omologante e colonizzatrice, osservabile nelle sempre più raffinate forme di selezione, normalizzazione ed esclusione dei soggetti e dei corpi inseriti nei reticoli disciplinari del nostro Primo Mondo.

Se Fanon è stato uno dei più fini analisti delle modalità psicologiche e repressive con cui i valori occidentali sono stati inculcati a forza nei colonizzati, specie in quelli più colti e benestanti (cf. Pelle nera, maschere bianche), Foucault è stato senza dubbio lo storico e il teorico più fine dell’altro flusso di questo vortice: quello interno, disciplinare. Nel Potere psichiatrico (1973-1974) sosterrà addirittura che l’esperienza stessa che abbiamo di noi stessi come individui, come soggetti, non soltanto non rappresenta nulla di originario, ma è piuttosto l’effetto, il prodotto finale, il risultato politico dell’applicarsi delle discipline e del potere di normalizzazione ai corpi che siamo.

L’individuo, infatti, è da subito, e proprio a causa dell’esistenza di questi meccanismi, soggetto normale, soggetto psicologicamente normale. Di conseguenza, la desoggettivazione, la denormalizzazione, la depsicologizzazione implicheranno, di necessità, la distruzione dell’individuo in quanto tale. La disindividualizzazione dovrà procedere di pari passo con le altre tre operazioni di cui vi parlo.

(M. Foucault, Il potere psichiatrico)

Decolonizzare i valori

Noi italiani siamo ancora dei colonizzati. La gigantesca portaerei americana che sonnecchiava nel Golfo di Trieste (da dove scrivo), per tacere delle basi USA sparse per l’Italia, non sono che i segni esteriori più evidenti di un simile stato di cose. Le guerre in corso, se solo volessimo pensarci, ci ricordano ogni giorno fino a che punto noi europei siamo ancora una colonia USA, e che tali restiamo a distanza di ottanta anni dalla nostra incompiuta Liberazione, senza alcuna vera prospettiva emancipatoria all’orizzonte. Anzi, negli ultimi decenni la nostra autonomia geopolitica è decisamente diminuita. In fondo erano gli anni Ottanta, non mille anni fa, che il Presidente della Repubblica Pertini dichiarava senza mezzi termini la sua vicinanza alla causa del popolo palestinese, e che persino un personaggio dubbio come Craxi in politica estera non lesinava parole di fuoco contro gli Usa per gli incresciosi fatti di Sigonella.

Rileggere Fanon pensando a noi stessi come un ingranaggio che svolge al contempo il ruolo passivo di colonia, e quello attivo di colonizzatore potrebbe essere un’entrata privilegiata per introdurci al nodo educazione-violenza che interessa le nostre variegate classi scolastiche, prigioni, università, cpa, centri di salute mentale, centri diurni, centri di accoglienza. Noi siamo dei colonizzati che stanno dimenticando, dei colonizzatori che evitano di guardarsi allo specchio. Le nostre istituzioni (pubbliche e private) sono sia strumenti brutalmente repressivi e disciplinari, sia sordi ripetitori di riti che – decennio dopo decennio – tendono a farcelo dimenticare. Dischi rotti che riversano sugli educati secchiate di chiacchiere moraliste e paternalistiche su presunti valori universali quotidianamente traditi nella micro-fisica delle istituzioni, della discriminazione, dello sfruttamento.

E noi? Dove siamo? Da quale parte della lama? Riusciamo ancora a vedere con occhi lucidi i momenti in cui applichiamo questa forma di (auto)colonizzazione disciplinare, in modo irriflesso e violento, persino a noi stessi – o peggio sui nostri cari? Quanta rabbia, frustrazione, incomunicabilità, disperazione persino, sono in grado di produrre queste complicità semi-consapevoli? Una specie di Sindrome di Stoccolma accomuna i colonizzati di Fanon e i disciplinati dell’attuale Primo Mondo, in Italia la sua disperata denuncia da parte di Pasolini nei primi anni Settanta sotto il nome di mutazione antropologica ha fatto scuola. Il rifiuto sempre più radicale dei valori neoliberali da parte dei marginali e dei disciplinati del Primo Mondo, come d’altronde sul fronte geo-politico quello per l’egemonia americana, è ormai giunto a un punto di ebollizione. La fine non incruenta dell’apogeo economico e militare statunitense, e un’Europa incapace di arginare le nuove destre (che fomentano e seducono le masse con l’illusione di un magico ritorno al mondo com’era prima – o agli inizi – della globalizzazione), sono il triste residuo che ci attende sul fondo della pentola.

I valori occidentali si sono trasformati profondamente negli ultimi trenta/quaranta anni. Sono divenuti altra cosa sotto i nostri occhi, distaccandosi in modo sempre più perverso dal reale sociale che li aveva visti nascere nel Secondo Dopoguerra. Non sono più qualcosa che la gente sente, ma discorsi dominanti inculcati dall’alto in basso per mezzo delle tecnologie disciplinari. Nel momento in cui cercano di farsi strada nel cuore (o almeno nella testa) delle persone a cui si applicano, i nuovi valori occidentali (auto-imprenditorialità, narcisismo, scientismo, pseudo-progressismo polarizzante e acritico, pseudo-democrazia aggressiva e guerrafondaia) producono ormai una sorta di istintivo rigetto. La stanchezza, l’essere a fine corsa, di tali valori si può osservare soprattutto nel modo sempre più affettato che i giovani delle classi più povere e incolte hanno di rappresentarli – a volte per quieto vivere, più spesso già in una sorta di consapevole e riottosa parodia, ovvero con la sarcastica disinvoltura e la malcelata ironia di chi sa cosa deve dire e fare per sembrare normale e avere meno rogne possibile. La scaltrezza del servus callidus plautino e il doppiogiochismo dell’Arlecchino servo di due padroni, in assenza di una lotta politica emancipatoria organizzata, sono spesso le sole armi non violente a disposizione degli educati. D’altronde Freud ce l’ha insegnato, l’ironia e la commedia sono modi privilegiati di sublimare l’aggressività.

[…] Ogni volta che si tratta di valori occidentali si produce nel colonizzato una specie di irrigidimento, di paralisi muscolare […], tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli sia a portata di mano. […] Nel periodo di de-colonizzazione, la massa colonizzata se ne infischia di quegli stessi valori, li insulta, li vomita a gola spiegata .

(F. Fanon, I dannati della terra)

Fanon parlava ovviamente dell’Algeria, ma come non rivedere in questa descrizione l’atteggiamento tipico di un qualunque essere umano del Primo Mondo sottoposto alle tecnologie disciplinari della scuola, dell’assistenza, della famiglia, della coppia, della sanità, dell’esercito, del lavoro, dell’amministrazione – e al moralismo da strapazzo che fa loro da condimento ideologico? I marginali del nostro mondo, gli immigrati provenienti da altre culture, molti italiani con disagi economici, psichici o familiari, e con essi tutti coloro che osano mettere in discussione la violenza silenziosa che percorre le istituzioni disciplinari, provano questo rigetto sulla propria pelle, nei loro stomaci. Bisogna aver occupato questo posto, essere stati dalla parte della lama, per percepirne la violenza, per riconoscerne i punti deboli e imparare a contrapporgli una guerriglia fatta di parodia, auto-sabotaggio e sarcasmo. Almeno fino a quando i bubboni non esplodono …

Risentimento, cattiva coscienza e masochismo morale: affetti e passioni politiche tipiche di disciplinati e colonizzati

Ampia parte dell'(auto)aggressività diffusa nella nostra società deriva da due sentimenti politici che Nietzsche nella Genealogia ha chiamato ressentiment e cattiva coscienza; due contro-affetti strutturalmente generati dall’oppressione e dalla coercizione. Il primo (il ressentiment) è banalmente l’odio che cova nei più deboli per i vincenti, i riusciti, i vittoriosi, per coloro che plasmano e impongono a nostre spese i valori dominanti di un’epoca; l’altro (la cattiva coscienza) è il rovescio interno del primo, il tarlo che ci rode, la violenza interiorizzata che, da dentro, non cessa di tormentare i sottomessi con l’idea fissa che essi sono tali per colpa loro. Il darwinismo sociale positivista, il razzismo coloniale e imperialista, la teoria psichiatrica degli istinti e quella della degenerazione, l’iniziale esclusione delle donne, degli ignoranti e dei poveri dal diritto di voto, ognuno per la propria strada ma in modo coerente, costruiranno durante l’Ottocento un quadro di teorie “scientifiche” volte a confermare oggettivamente l’inferiorità dei sottomessi (delle donne, dei perversi, dei poveri, degli anormali) e la necessità di una loro permanente, organizzata e radicale (ri)educazione istituzionale. In Italia abbiamo avuto per esempio la questione meridionale e il brigantaggio, durante i quali il nuovo disciplinamento sabaudo, attraverso scuola ed esercito, si è dato non poca premura di educare e disciplinare le masse contadine del sud appena conquistato in armi. Da questa colonizzazione culturale e da questo disciplinamento sono nati i classici stereotipi che ci portiamo dietro ancora oggi, ovvero quello del meridionale con l’autostigma dei terroni scansafatiche e furbastri (erede del meridionale schiena dritta che aderisce al nuovo disciplinamento sabaudo – classico il giovane calabrese del Libro Cuore), e quello invece riottoso, che esagera volutamente, e incarna a mo’ di sfida, la descrizione abbrutente e colonialista del meridionale “geneticamente” pigro e scansafatiche.

Freud afferma nel Disagio della civiltà (1929) che la dimensione auto-aggressiva del super-io (omologa a quella che Nietzsche chiamava cattiva coscienza) deriva dall’introiezione delle violenze e dei disciplinamenti reali che subiamo (o abbiamo subito) da parte di figure dotate di una qualche autorevolezza e/o autorità. Soggetti in posizione a vario titolo educativa, disciplinare o di potere, da cui cerchiamo amore e riconoscimento, e dei quali – nel silenzio delle nostre coscienze – tendiamo masochisticamente ad assumere i punti di vista negativi e i pre-giudizi più crudeli e denigratori. È per questa via che, secondo Freud

La civiltà domina il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da un’istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata. […]. La severità del Super-io […] è semplicemente la prosecuzione della severità dell’autorità esterna, alla quale è succeduta e che in parte ha sostituito

(S. Freud, Il disagio della civiltà)

Una cosa poco nota della funzione del super-io freudiano è la sua insaziabile voracità: più lo si soddisfa, più ci si comporta in accordo con i suoi crudeli dettami, più si aderisce senza scarti alla normalizzazione, più – su un’altra scena – i suoi ordini e le sue denigrazioni (la disciplina interiorizzata) decantano un resto di (auto)aggressività e odio pronti a esplodere in ogni direzione. È molto importante non dimenticare questa dinamica quando finiamo a chiederci, un po’ ingenuamente, come mai una persona che sembrava tanto tranquilla, buona e serena, arriva improvvisamente a farsi del male o a macchiarsi di un delitto orrendo.

Freud non coglie però la profonda portata politica del super-io (né di quella strana “cosa” che scatena così tanto disagio, ovvero la civiltà). Negli anni Settanta sarà proprio Foucault a ricentrare attraverso l’inquietante immagine disciplinare del Panopticon la storicità e la dimensione politica del super-io freudiano, mettendo in luce come questa funzione psicologica venga letteralmente iniettata su vasta scala nei corpi proprio per mezzo delle tecnologie disciplinari e dei discorsi dominanti della nostra società. Lo Stato borghese e repressivo ottocentesco, l’economia politica con le sue “leggi”, la moderna scuola pubblica, l’amministrazione centralizzata, la presa governamentale sulla salute, e poi la nuova disciplina taylorista del lavoro, hanno segnato la data di inizio di questo processo, di questo dispositivo, che è cresciuto su stesso per due secoli e che ora sta attraversando la propria ennesima crisi.

Un dispositivo volto all’estrazione intensiva di valore dalle vite e dai corpi degli esseri umani (prima internamente, con le nuove tecnologie della rivoluzione industriale e la società disciplinare, poi esternamente con l’imperialismo, e infine oggi con la globalizzazione). Parallelamente a quest’ampia tecnologia disciplinar-coloniale l’Occidente è andato sviluppando un’ideologia universalistica di conoscenza, di verità, di uguaglianza e di Uomo che vediamo continuamente tradita dalle istituzioni stesse che la propugnano. Sotto questa coltre moralistica l’unico valore pratico dell’Occidente è da due secoli la normalità, la regolarità, la calcolabilità. La normalità (forgiata da statistica, medicina, psichiatria e scienze umane) è divenuta il super-io, il valore supremo, del soggetto adatto che siamo pregati di inscenare: le discipline, gli apparati ideologici privati e le istituzioni pubbliche sono il suo mezzo di produzione. Sarà per questo che, persino quando cerca di includere una diversità (che sia la follia, la droga, l’omoerotismo o la dissidenza politica), la nostra cultura neoliberale ha l’istinto fondamentale di spaccarla in due, annichilendone la parte inassimilabile e normalizzando quella di cui può servirsi.

Fun fact: un dispositivo manda a regime in modo coordinato diversi discorsi e istituzioni, senza che ci sia una mente ultima, un motore immobile, a tirarne le fila. Eppure, un dispositivo si regge proprio sulla convenienza (o sulla necessità) di un certo numero di persone in carne e ossa a perpetrarlo. Se qualcuno si tira indietro, polemizza o pianta un casino, quella è la porta; tanto c’è sempre la fila per sostituirlo. Almeno fino ai momenti di crisi vera, di vero e proprio tracollo economico, sociale o istituzionale.

Neo-colonialismo, radicalismo islamico ed educazione: l’esempio francese (da non seguire)

Dopo aver colonizzato per secoli paesi in tutto il mondo (tra i quali l’Algeria dove si è battuto proprio Fanon), la Francia ha fatto la scelta apparentemente inclusiva di facilitare l’acquisizione della cittadinanza per gli immigrati provenienti dalle proprie colonie. Il risultato, a distanza di decenni, è che ora lo stato francese pullula di immigrati di seconda e terza generazione che o hanno talmente in odio il disciplinamento istituzionale francese da radicalizzarsi, o votano il Front National di Marine Le Pen perché talmente integrati che hanno timore di nuove ondate migratorie. Dal recente caso del divieto dell’abaya nelle scuole alle surreali minacce di cancellazione della cittadinanza alla star del calcio Benzema (discendente di fuggiaschi della Guerra d’Algeria), dal terrorismo dell’Isis che fa proseliti alle violenze poliziesche nelle banlieues, la società francese è sempre più divisa tra spinte radicali e xeno-islamofobia. Il recente terribile assassinio di un collega docente francese impone anche alle nostre istituzioni di farsi carico per tempo di questa polveriera etno-sociale che monta e monta, senza scaricare sempre tutto sulle spalle inermi dei molti docenti eroi che sguazzano ogni giorno nel pantano e nel disagio. Un esempio più vicino a noi. Cosa può aver provato una persona di etnia araba, o di fede islamica – mentre i morti della rappresaglia israeliana su Gaza si avvicinavano a diecimila (di cui seimila donne e minori), passeggiando per il centro di Trieste e vedendo campeggiare sul palazzo del Governo regionale – su un palazzo delle istituzioni italiane – non una ma due bandiere di Israele (poi rimosse) e nessuna manifestazione di cordoglio per le vittime civili palestinesi?

La jihad islamica sunnita attrae spesso cittadini europei di fede islamica che vivono in condizioni di disagio e marginalità (non lupi solitari appositamente arrivati dal Medio-oriente). Il problema del radicalismo islamico in Europa è un problema sociale, ben più che di intelligence. La nascita del nuovo radicalismo islamico sunnita andrebbe inoltre approfondita (anche nelle scuole! – magari al posto degli ittiti, con tutto il rispetto) nel contesto geo-politico degli ultimi decenni della Guerra fredda, che hanno visto il fallimento del progetto socialista pan-arabo e la fomentazione dei movimenti islamici radicali sunniti da parte degli USA in chiave anti-sovietica (vedi la guerra in Afghanistan del 1989, che ha visto Bin Laden e i rudimenti di Al-Quaeda finanziati dagli USA). Il radicalismo islamico sunnita è stato infatti negli ultimi decenni una preziosa pedina del nostro “civilissimo” Occidente – giocata a turno in chiave anti-serba (nella guerra in Ex-Jugoslavia e in Kosovo), anti-sciita (l’Isis in Siria) e anti-russa (le Guerre cecene), che ha prodotto diversi infausti controeffetti, non ultimo il reflusso in Europa di foreign fighters radicalizzati di Al-Quaeda e dell’Isis.

L’istituzione deve cedere sovranità. Tornare alla radicalità “masochista” del messaggio politico basagliano

Un elemento pratico che può favorire la depressurizzazione delle pulsioni (auto)aggressive esige che l’istituzione contempli momenti di autogestione, di iniziativa dal basso, in cui gli educati possano mettere radicalmente in discussione la normalizzazione cui sono sottoposti. Per fare questo c’è solo una via: l’istituzione deve iniziare a contemplare, a progettare, momenti in cui cede sovranità, in cui si apre, si spacca come un frutto troppo maturo. Problema pratico e politico decisivo, il cui riferimento più interessante e immediato resta ancora oggi il Basaglia delle Conferenze brasiliane, dove il manicomio va inteso come una metonimia di tutte le istituzioni disciplinari della nostra società.

[…] La distruzione del manicomio non può avvenire che attraverso gli operatori che lavorano nel campo della salute, e quindi è una situazione effettivamente un po’ masochista, autodistruttrice. […] I movimenti, i partiti e i sindacati che vogliono la trasformazione di una società non possono sopportare che il proletariato e il sottoproletariato siano trattati in questo modo nelle istituzioni dello Stato. Deve quindi iniziare una mobilitazione per la trasformazione di queste strutture: […] allora non si parlerà più di masochismo, di autodistruttività ma si parlerà di un’alleanza costante e continua fra la classe che lotta nelle sue organizzazioni e lo psichiatra che ha cambiato padrone.

(F. Basaglia, Conferenze brasiliane)

La pulsione alla rivolta contro la pervasività colonizzatrice dei disciplinamenti neoliberali (che pur essendo all’apparenza sempre più dolci e “inclusivi”, sono in realtà sempre più capillari e violenti) ribolle in sottopelle a tutti coloro che ne sono oggetto. Gli educati – quando non la interiorizzano auto-aggressivamente – sognano spesso di rispedire al mittente la violenza e la spietatezza di cui le istituzioni e i padroni pubblici o privati intridono il loro super-io. “Al livello degli individui, la violenza disintossica. Sbarazza il colonizzato del suo complesso d’inferiorità, dei suoi atteggiamenti contemplativi o disperati. Lo rende intrepido, lo riabilita ai propri stessi occhi” (F. Fanon, I dannati della terra). Ma rispedire al mittente questa violenza non significa per forza passare alle vie di fatto, può significare anche semplicemente opporsi, sfottere, parodiare, non collaborare, dirigere in modo sublimato una parte delle nostre pulsioni (auto)aggressive contro le fonti reali della nostra rabbia e del nostro risentimento. Qui incontriamo però un grave paradosso, che solo Basaglia può aiutarci a sciogliere, ovvero “Come può l’istituzione – ovvero i singoli soggetti che le danno carne e voce – attenuare l’odio e la violenza di cui è causa?”. C’è solo una strada: de-colonizzandosi. Aprendosi, integrandosi, permettendo che le opinioni anormali, le soggettività escluse e le vite indisciplinate vi abbiano davvero spazio e cittadinanza. Mentre ciò che accade attualmente è il contrario, ovvero che in condizioni di sfilacciamento politico e ideologico, non trovando alcuno sfogo collettivo né alcuna accoglienza istituzionale, la rabbia, il risentimento, il disagio e l'(auto)aggressività si traducono sempre più spesso in semplice brutale violenza privata.

Orientare l’aggressività individuale, e sperabilmente collettiva, contro la colonizzazione culturale, disciplinare ed economica che subiamo quotidianamente

Per uscire dalle chiacchiere compiaciute su come l’educazione dovrebbe e potrebbe magicamente risolvere il problema della violenza nella nostra società, è necessario affrettarsi a costruire pratiche effettivamente capaci di includere gli educati nel processo della loro educazione. Discutendo apertamente delle guerre in corso, dei conflitti sociali e civili passati e presenti, di come fare fronte alla nuove forme di sfruttamento a cui siamo tutti sottoposti. È necessario che i corpi su cui l’istituzione si applica mettano davvero in discussione i valori a cui li si vorrebbe veder aderire. Tutto questo studiando e discutendo la storia, l’attualità, l’economia politica, la geografia, i diritti, il lavoro, mostrando da subito perché fare tutto questo è importante, perché fa problema, perché divide; cortocircuitando le esperienze vive dei colonizzati, degli educati, dei disciplinati che quasi tutti siamo. Riscoprire attraverso il gusto dello studio e del confronto il fondo imperialista di ogni guerra moderna, l’interesse economico delle potenze mondiali a scatenare lotte intestine nei paesi colonizzati; insegnare a considerare sempre le ragioni (anche quelle “sbagliate”) di vincitori e vinti di ogni grande o piccolo conflitto – umano, sociale o geopolitico che sia.

Facendo andare al bar Fanon, Basaglia, Pasolini e Foucault (peccato che non li leggiamo più!), origliando le loro chiacchiere, oggi li sentiremmo discutere di come le istituzioni del nostro Primo Mondo (non solo quelle pubbliche, ma anche quelle private, cfr. L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato) siano ancora il luogo principe, la fucina, in cui si fabbrica tutti i giorni la microscopica serializzazione, selezione e razzializzazione interna dei soggetti normali di una società. Ma soprattutto, li sentiremmo stupirsi di quanto tutto questo sia talmente interiorizzato da non fare, all’apparenza, quasi più problema quasi a nessuno. Una grottesca normalizzazione della normalizzazione. Li sentiremmo denunciare come una certa cultura che si fa sempre più fatica a chiamare “di sinistra” abbia ormai da tempo perso di vista la reale composizione etnico-sociale del popolo che vorrebbe educare.

Guardiamole queste nostre città, questi centri città, le nostre periferie, i luoghi più marginali delle nostre province. A perdita d’occhio non si vede altro che disagio, disperazione, dipendenze, sfruttamento, marginalità, disabilità, accattonaggio, micro-criminalità, problemi abitativi, povertà, abbrutimento, fame persino. Questa anormalità è già la condizione dominante della maggior parte delle persone oggi, qui, nelle città del nostro Primo mondo. Non è in esplosione, non cova sotto la cenere: è in atto, sotto i nostri occhi, anche se in troppi sembrano non accorgersene.

La costituzione di un “Lumpenproletariat” [sottoproletariato] è un fenomeno che obbedisce a una logica propria, e né l’attività fervida dei missionari, né le disposizioni del potere centrale possono inceppare la sua progressione. Questo “Lumpenproletariat”, simile a una muta di topi, nonostante i calci, nonostante le sassate, continua a rodere le radici dell’albero. La bidonville consacra la decisione biologica del colonizzato d’invadere, costi quel che costi, e se occorre per le vie più sotterranee, la cittadella nemica

(F. Fanon, I dannati della terra)

Le donne, i marginali, i disabili, i folli, i disciplinati, gli educati, gli sfruttati non sanno chi sono al di là dell’identificazione autodistruttiva che viene offerta loro dalle istituzioni neoliberali. La persona con disabilità che vince le Olimpiadi, il poveraccio divenuto imprenditore di successo, l’immigrato nero o afghano che si laurea, il folle o il drogato che riescono a mantenersi con la borsa lavoro perché hanno rigato dritto per un po’, la donna (di estrema destra) Presidente del Consiglio, non sono che foglie di fico, eccezioni a conferma della regola, strumenti del disciplinamento utili solo a velare la pervasività delle modalità correnti di esclusione e selezione.

È in atto un pullulare, un brulicare sempre più fuori controllo e crescente di anormali, di marginali, di persone in condizione di disagio, rigettate e disperate che, fino al momento in cui “si redimono” – o si ribellano, non hanno alcuna alternativa possibile di riconoscimento sociale. Solo nel processo, negli sviluppi diffusi della rivolta (che nei sintomi individuali è già in atto!) contro ciò che le istituzioni neoliberali vanno facendo di loro, di noi, gli educati, le donne, i ricattati, gli sfruttati, i colonizzati, i discriminati, possono costruire una nuova storia e una nuova precaria identità (personale e collettiva) che sia davvero la loro. Educarli significa allora, con un paradosso, restituire a noi stessi, prima ancora che a loro, il gusto ferroso di questo spazio da strapparsi con le unghie e con i denti; quello della comunità a venire di educatori ed educati, alleati contro la tecnologia disciplinare neoliberale. Uno spazio pericoloso, tutt’altro che privo di rischi, ma siamo franchi… I rischi di perseverare negli errori che ci hanno portato con entrambi i piedi nell’abisso in cui ci troviamo, non sono forse ancora maggiori?

Il “Lumpenproletariat” costituito, e gravante con tutte le sue forze sulla “sicurezza” della città, significa il deterioramento irreversibile, la cancrena impiantata nel cuore della dominazione coloniale. Allora i magnaccia, i giovinastri, i disoccupati, i pezzi da galera, sollecitati, si buttano nella lotta di liberazione come robusti lavoratori. Quegli scioperati, quei declassati ritroveranno, tramite l’azione militante e decisiva, la strada della nazione. Non si riabilitano in faccia alla società coloniale o alla morale del dominatore. Anzi, assumono la loro incapacità a entrare nel consorzio civile altro che con la forza della bomba e della rivoltella. Questi disoccupati e questi sottouomini si riabilitano di fronte a se stessi e di fronte alla storia. Anche le prostitute, le domestiche a 2000 franchi, le disperate, tutti quelli e quelle che si muovono tra la pazzia e il suicidio, si riequilibreranno, si rimetteranno in marcia e parteciperanno in modo decisivo alla grande processione della nazione risvegliata

(F. Fanon, I dannati della terra)

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