Gaza e noi

di Andrea Muni

*L’articolo è stato scritto nel 2014, a seguito all’operazione “Margine di protezione”, durante la quale Israele bombardò Gaza per quasi due mesi uccidendo durante uno dei tanti raid quattro bambini che giocavano su una spiaggia (tragico evento di cui fu poi diffuso un raccapricciante video su internet). www.chartasporca.it muoveva i suoi primi passi proprio in quei mesi, e questo articolo è uno dei primi pubblicati. A distanza di sette anni, pare davvero che poco e niente sia cambiato. Allo stesso modo non cambia però nemmeno il compito fondamentale che deve assumersi chiunque voglia produrre una de-escalation di violenza e aggressività, tra popoli come tra persone: l’odio non va negato, ma assaporato, sfogato,condiviso. La repressione dell’odio è di gran lunga più pericolosa del suo sfogo (possibilmente “costruttivo”), perché la repressione e le negazione dei sentimenti di odio che proviamo rischiano di farlo esplodere poi nei modi e nei momenti più incontrollati [AM, 14/05/2021]

È possibile che si tratti di un argomento e di una scusa troppo facili, per noi bravi “anarconformisti”, quella di parlare in questi giorni di Gaza, di bambini uccisi su una spiaggia deserta (cosa volevano colpire, dei castelli di sabbia?), e di conflitto israelo-palestinese.

Per altro mi sono reso conto che, per ora, ogni volta che ho provato la sensazione irresistibile di scrivere in prima persona sulla rubrica è sempre stato in seguito all’esigenza di colmare un vuoto, non tanto di informazione quanto di parole, riguardo a varie questioni che gravitano intorno al mondo arabo (le Primavere arabe, Mohammed Gul). Non credo di avere una simpatia speciale per gli arabi più che per qualsiasi altro popolo, piuttosto ho la sensazione – da molto tempo – che il mondo arabo ci offra la possibilità di riflettere su noi stessi, più che su questioni geo-politiche: riflettere su quanto – e fino a che punto – l’informazione produca realtà, ideologia, valori e la nostra stessa percezione del mondo.

Non è sempre girando il mondo che si può capirne qualcosa di più: si può girare il mondo e vederlo con gli occhi di un inviato de “Il giornale”, ma anche de “la Repubblica”. Si può osservare coi propri stessi occhi i massacri e rifugiarsi dietro una descrizione “imparziale” dei fatti: come clinici, come storici, come ebeti. Si può essere in mezzo agli “altri” restando barricati nel proprio mondo.

Non intendo ripetere quello che tutti i lettori sanno, e che sarebbe noioso e inutile ribadire in un “incursione” così breve: l’olocausto, l’oppressione, l’appoggio anglo-americano, la Guerra dei sei giorni, la Guerra del Kippur, il diritto degli ebrei (come dei palestinesi) a uno stato, il diritto dei palestinesi a non essere trucidati, la violenza cieca, casuale, puro fertilizzante d’odio. Tutto questo è storia. Il mio obiettivo in queste poche righe non è quello di informare, né quello di tenere un delirante corso “lampo” di storia.

Il rispetto e l’empatia per quello che ha vissuto il popolo ebraico sono uno dei cardini della nostra cultura, sono una esigenza di libertà, di democrazia, di umanità. Ma questo non può significare che chiunque difenda la causa palestinese, contro lo stato di Israele e non contro gli ebrei tout court, sia da considerare automaticamente un apologeta di reato, o da bollare immediatamente come “estremista”. Questi due popoli sono in guerra, sono in guerra oggi: uno è una super potenza, e l’altro è poco più che indifeso. Chiunque osi discutere questa secca definizione è intriso di ideologia.

Ho guardato i video, ho guardato le foto, li ho guardati bene, ho guardato i corpi dei quattro bambini. Ho provato odio, e nausea addirittura davanti alle immagini più raccapriccianti. Non sono filo-niente, conosco la storia di quei luoghi, e non ho voglia di fare retorica o propaganda in cinque righe su un tema così complesso e delicato. Però, lo sappiamo tutti: tutti abbiamo provato odio, prima o dopo il connesso senso di impotenza. L’odio: un’affetto a cui non è il caso di cedere, ma che non va negato, né nascosto, ma piuttosto vissuto, assaporato, patito, socializzato, proprio perché possa essere esorcizzato nelle sue manifestazioni più violente, eclatanti e pericolose. Come sempre non ci sono buoni, né cattivi: i bambini giocano, i bambini muoiono… oggettivamente. Come sempre tutto scorre, tutto l’orrore ci scorre addosso, lo espelliamo come sudore, come i documentari sull’olocausto nel giorno della memoria, specialmente nelle calde giornata d’estate in cui sciolti sul divano ci giunge la notizia, estiva e periodica, delle annuali e preventive offensive dell’esercito israeliano su Gaza (o il bombardamento di Beirut nel 2006).

Lo guardiamo così, da fuori, come in un trip, ci scende una lacrima, solidarizziamo, ma che altro possiamo fare? Scontri di piazza, bandiere della pace, catene di sant’Antonio, flash mob? Non sono convinto che l’esercito e il governo israeliano siano troppo sensibili a queste iniziative (spero ovviamente di sbagliarmi, ma lo testimonia anche l’offensiva di terra che si sta concretizzando in queste ore).

Come si può non provare odio oggi? … sta succedendo oggi, non sessant’anni fa!
Chissà se possiamo piuttosto, per esorcizzare quest’odio, fare un piccolo tesoro di questa ennesima tragedia, chissà che il modo migliore per rendere onore a queste vittime innocenti non sia quello di importare nella nostra vita alcuni principi etici che, da fuori, ci sembra così assurdo che questi due popoli non riescano a praticare. Chissà se possiamo lavorare a una forma di egoismo che sia un po’ meno sterile di quella che ci somministrano per via endovenosa i media, la politica, l’economia; quello stesso egoismo che ci somministriamo a vicenda ogni giorno gli uni agli altri, considerandoci le uniche anime belle ad abitare ancora questo “malvagio” pianeta.

Non ci sono i buoni, e la verità è solo un’arma tra le altre, violenta quanto le altre, imbracciabile esattamente come un fucile da tutte le parti in causa. Chissà se, anche se questo non salverà i bambini di Gaza che moriranno domani, né farà resuscitare i morti dell’olocausto, siamo capaci – qui e ora – di avere un po’ voglia di farci male; chissà se abbiamo voglia di gustare, di reggere, di ingoiare e fare nostro questo dolore e questa spirale di odio. Chissà se domani, almeno, saremo un po’ più capaci, nelle nostre piccole vite che non cambieranno la storia e non fermeranno nessun massacro, di non procurare il dolore di chi amiamo in nome del nostro odio, della nostra autodistruttività e della nostra sete di vendetta (cioè di niente). Chissà se domani saremo un pochino più capaci di non castrare e calpestare tutti coloro che ci appaiono nelle nostre quotidiane nevrosi ossessive (alias vite) con la maschera di mostri terrificanti, mentre non sono altro che altrettanto fragili  e spaventati specchi senza foglia di stagno.

Chissà se tutto questo c’entra con Gaza, con i bambini che sono morti l’altro giorno, chissà se prima e dopo le manifestazioni politiche (pro e contro) non sia possibile finalmente agire, nella vita di ogni giorno. Per capire che dal micro al macro il salto non esiste, per accorgersi che alla radice di tutto questo odio ci sono dei concetti globalizzati, univoci e pretestualmente universali di uomo, di sicurezza, di verità, di patria, di bene, di altro: che sono il vero cancro del nostro mondo, e che sussistono per il semplice fatto che nessuno ha abbastanza coraggio e abbastanza estro da iniziare a vivere diversamente, da solo, senza aspettare che gli altri siano cambiati prima di lui.

Finché non saremo capaci di cambiarle assieme, queste idee, queste idee che si cambiano nell’etica, nei rapporti umani di ogni giorno (agendo diversamente, al di là dell’ideologia e nel vuoto per mano) non c’è azione politica in senso forte – né richiamo all’umanità – che possano risolvere alcunché.
Non siamo tutti fratelli, Abele non era meglio di Caino. C’è un aldilà di questo umanismo da strapazzo che ci tiene incatenati, come il cane di Beckett, al nostro stesso vomito. Ma c’è un prezzo da pagare per andargli oltre: sentire la vita, sentire l’odio, sentire l’amore, sentire che il mio non vale più del tuo, che il mio non ha più diritto del tuo, neanche ora che ti combatto, neanche se sto per farti del male, neanche se ti ucciderò perché questa volta è “o te, o me”. Il male che si presenta come male, a volte, è più sincero, più lucido, più rispettoso, più desiderabile, del male che si presenta come bene. L’odio non è sempre l’altra faccia dell’amore, a volte è anche l’altra faccia del debole, del perseguitato, del povero, a volte l’odio è l’altra faccia, nascosta, del sedicente buono.

Appellarsi all’umanità, ormai è sotto gli occhi tutti, serve solo a consolarci, narcisisticamente, di una tristezza e di un’impotenza che domani saranno già dimenticate, riassorbite e stemperate nel magma di casini in cui viviamo ogni giorno. Approfittare, egoisticamente, nelle nostre vite quotidiane, di quello che questo orrore senza fine può insegnarci sarà forse anti-umano, ma potrebbe essere l’unico modo pratico, vivo, politico che abbiamo per portarne davvero il marchio senza ipocrisia.

  1. “Il rispetto e l’empatia per quello che ha vissuto il popolo ebraico sono uno dei cardini della nostra cultura, sono una esigenza di libertà, di democrazia, di umanità.”

    Certo, anche per gli Armeni massacrati dai Turchi, gli Indiani d’America dagli Spagnoli, gli Aborigeni dagli Inglesi, gli Irlandesi dagli Inglesi, i provenzali dal papa e da Filippo, gli Esuli giuliano-dalmati, i Palestinesi stessi, i Tutsi del Ruanda, i Boeri, gli Zulu massacrati da Mandela (sì, proprio lui), i bianchi massacrati dai neri del Sud Africa (sì, proprio loro), i testimoni di Geova, i cristiani in Africa, i serbi, i bosgnacchi, i cinesi da parte dei giapponesi, i karen da aprte dei khmer rossi….
    Potremmo fare un elenco infinito di popolazioni che hanno subito torti e massacri. Eppure solo di uno dobbiamo continuare a portarci un senso di colpa fine pena mai, stando attenti a non urtare la minima sensibilità, ponderando le parole, usando perifrasi e giri di parole per non sentirci accusati di antisemitismo.

    Non serve ogni santa volta dover premettere tutto ciò, mi sembra chiaro che il massacro di QUALSIASI popolo sia atroce e mostruoso. Eppure, il fatto che solo quando parliamo di un deteminato popolo tendiamo sempre a dover rimarcare il fatto che non abbiamo niente contro quest’ultimo (come se non fosse sottinteso), ci dà un indizio di quanto forte sia la sua pressione sulle nostre coscienze.

  2. Sono completamente d’accordo con te, infatti quella frase è la premessa di un più lungo periodo in cui sostengo che sia folle tacciare a priori di antisemitismo chiunque si schieri decisamente in favore del popolo e della causa palestinesi. Quando scriveremo un bel pezzo sul colonialismo italiano, ricorderemo sicuramente l’uso dei gas nella guerra d’etiopia, e il tentativo di cancellare la cultura slava attraverso una feroce opera di fascistizzazione e italianizzazione forzata della popolazione (di cui molti di noi portano ancora oggi il segno nel loro cognome). Finché si parla di Gaza, e di quello che è successo la settimana scorsa, credo sia normale circoscrivere la riflessione. Sarebbe bello che scrivessi un articolo su questi altri vari e multicolori genocidi, forse l’avevi anche già, fatto, o ricordo male? Magari una riflessione su come il bisogno d’identità forte e di protezione generino mostri con cui è facile convincere enormi quantità di persone ad uccidersi in nome di un nome.

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