Il cielo è di tutti

di Lilli Goriup

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Finché un uomo ti incontra e non si riconosce
E ogni terra si accende e si arrende la pace
(Fabrizio de André)

Il ragionamento è semplice, spiega Tasnim, la protagonista di Io sto con la sposa, in una scena del film: c’è un sole, un solo cielo. Così anche questo nostro mare Mediterraneo dovrebbe essere un bene comune all’umanità intera, e non un grande cimitero.

Sul suo blog Fortress Europe Gabriele Del Grande – uno degli autori del film assieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry – scrive che le tragiche vicende dei migranti, quotidianamente ripetute dai media come meri fatti di cronaca, sono in realtà “la storia che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d’Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere”.

Cosa che non hanno fatto, invece, tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di Io sto con la sposa, compresi i 2617 donatori che hanno contribuito a finanziare il film dal basso. I fatti raccontati nel lungometraggio hanno avuto luogo in seguito a un accadimento fortuito. Tre amici si danno appuntamento al bar della stazione Garibaldi di Milano e lì, per caso, incontrano Abdallah, reduce dal naufragio avvenuto al largo di Lampedusa l’11 ottobre 2013 e alla ricerca di un treno che lo porti in Svezia. Il Paese scandinavo è noto per essere tra quelli che offrono maggiore accoglienza ai richiedenti asilo e per questo motivo Abdallah, come tanti altri, sta tentando di raggiungerlo. Non c’è tuttavia nessun treno che colleghi Milano a Stoccolma, gli spiegano i tre invitandolo a fermarsi per un caffè. Da lì nasce il proposito di aiutare Abdallah e altre quattro persone, siriane e palestinesi, conosciute nel frattempo. Ma come? Mettendo in scena un finto corteo nuziale: nessuno penserebbe di fermarlo per un controllo, di chiedere i documenti a una donna in abito da sposa. I rischi maggiori sono corsi dagli italiani: ciò che stanno facendo è illegale e potrebbero essere denunciati come contrabbandieri. Sono tuttavia in molti ad accettare di farsi carico del rischio.

Prende così forma l’idea del viaggio, realmente svoltosi dal 14 al 18 novembre 2013 tra Milano e Stoccolma, che attraverso la Francia, la Germania, il Lussemburgo e la Danimarca condurrà infine il singolare corteo clandestino nella capitale svedese. Le telecamere riprendono quanto avviene all’interno delle due automobili che macinano i chilometri in direzione nord, o nelle case degli amici sparsi per l’Europa che offrono ospitalità al gruppo lungo il percorso, dando voce ai dialoghi, alle impressioni, alle storie e ai sogni dei protagonisti così come trovano espressione, senza copione predefinito.

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Facendosi beffe di un sistema che costituisce una fabbrica di clandestinità, Io sto con la sposa denuncia il razzismo implicito sotteso alla logica, apparentemente astratta e razionale, del diritto che regola – o almeno così dovrebbe, in teoria – lo spostamento delle persone. Come spiegano efficacemente gli autori della pellicola, ogni cittadino dell’Unione europea è libero di recarsi a Londra oppure a Parigi, ad esempio, per motivi di lavoro o di studio, mentre chi arriva dal “sud del mondo” è, al contrario, oggetto di politiche di controllo sociale, come se non avesse gli stessi bisogni e desideri, o fosse un individuo meno consapevole, incapace ad autodeterminarsi, rispetto al soggetto che ha avuto la fortuna di nascere in Europa.

È simbolico l’attraversamento del vecchio passaggio cosiddetto della morte, a Ventimiglia: tanti italiani, in un passato recente, lo utilizzarono per entrare illegalmente in Francia. Lo stesso sentiero di montagna è percorso, nel 2013, dalla troupe e dai protagonisti di Io sto con la sposa, e tutti sono nello stesso momento gli attori reali di un’azione che, rompendo il patto di finzione narrativa, esce dalla pellicola per farsi atto politico, di denuncia e di resistenza. Qui, tra vecchie mura abbandonate, il gruppo fa una sosta e ha così modo di leggere le testimonianze, incise sulle pareti, degli altri migranti passati per quel luogo: gli unici segni del transito delle loro esistenze sono nomi, numeri – di morti, brevi messaggi. Anche Abdallah scrive dei versi in memoria di un amico caduto in Siria: “Se devi vivere, vivi libero. Altrimenti muori come gli alberi, immobile”. Un messaggio di un’attualità che non è necessario rimarcare per le tante genti in fuga dai conflitti; un monito per coloro che, a Occidente, si cullano tra parole di libertà spesso abusate.

È stato solo un caso – una casualità opportuna e bella, una coincidenza significativa – che la proiezione al teatro Miela di Trieste avvenisse immediatamente dopo il terribile attacco alla redazione di Charlie Hebdo, a Parigi. Scriveva un giornalista del calibro di Tiziano Terzani, ormai in là con l’età, nella sua risposta a Oriana Fallaci in seguito all’attentato dell’11 settembre:

Secondo Klaus Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
(“Lettera da Firenze”, in “Corriere della sera”, 7 ottobre 2001, poi in “Lettere contro la guerra”).

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Io sto con la sposa non è di certo una pièce teatrale, ma il senso della citazione non ne risente. A quasi quindici anni di distanza da quegli eventi, il rischio è che anche la strage francese diventi il pretesto per riproporre quella che con una felice espressione coniata dal collettivo Wu Ming si può definire una “narrazione tossica”, che propugna lo scontro polare tra due civiltà: da un lato quella occidentale, che si fa paladina dei valori della libertà; dall’altro quella islamica, altra da noi, nebuloso contenitore delle paure e delle ignoranze occidentali. Un illuminante esempio di segno contrario: l’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck), in un comunicato dell’8 gennaio, non esita a condannare l’attentato di Parigi in quanto fascista, esprimendo solidarietà al popolo francese.

Io sto con la sposa non è solo un film: è soprattutto una rivendicazione politica non priva di coraggio, dal momento che la pellicola costituisce la prova del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche se fortunatamente contro nessuno dei realizzatori è stata ancora sporta denuncia. Un lavoro che restituisce un messaggio di pace, di amicizia e di speranza, operando un rovesciamento di prospettive da cui emerge una verità estremamente semplice, e tuttavia spesso dimenticata: che gli esseri umani sono tutti uguali; che i popoli dovrebbero essere solidali gli uni agli altri, poiché i nemici sono gli stessi per tutti i popoli, e cioè la guerra, la repressione, la violenza – anche quando quest’ultima si maschera e si fa sottile, come avviene nella nostra vecchia e liberale Europa, quando permettiamo ai Salvini o Le Pen di turno di marciare sulle tragedie altrui. Non c’è futuro che si possa immaginare roseo al di fuori di questi presupposti.

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