Pozzanghere

di Giuseppe Nava

(Immagine di Silvia Mengoni)

Poi un giorno ho scoperto che quel tizio coi capelli neri e il pizzetto, che abita vicino a casa nostra, anche se non so di preciso dove, ma che incontro spesso nella via o nel parcheggio, e che è sempre molto gentile, pur non conoscendomi se non di vista, come del resto io conosco lui, tant’è che non so nemmeno come si chiami, ho scoperto insomma che quel famoso mercoledì di pioggia tremenda, quando scorrevano veri e propri fiumi lungo la strada che dal Carso scende in città costeggiando il nostro quartiere, e pozzanghere alte fino alla caviglia si formavano nelle curve e rasente i marciapiedi, era stato proprio lui a passare in auto a grande velocità per una delle viuzze trasversali, abbastanza strette da rendere difficile il passaggio a due macchine contemporaneamente, quindi poco indicate per viaggiare a più di trenta orari, e viaggiando lui invece a cinquanta o sessanta aveva preso una di quelle pozzanghere proprio mentre sul marciapiede passavo io, sollevando una specie di tsunami che mi aveva investito quasi completamente, non fosse stato per l’ombrello che avevo trovato in casa prima di uscire e che mi salvò almeno la testa e le spalle. La macchina l’avevo vista bene mentre si allontanava veloce e le urlavo contro insulti e bestemmie, una Honda station wagon grigio scuro di un modello piuttosto raro – non posso certo dirmi un appassionato di motori, ma della passione infantile per le macchinine mi è rimasto un buon occhio per modelli e dettagli. La mia rabbia era acuita non solo dalla frustrazione di non poter dire in faccia all’allora sconosciuto guidatore ciò che stavo pensando in quel momento, ma anche dall’idea che se fosse passato cinque minuti prima mi avrebbe trovato in quello stesso preciso punto in compagnia di mia figlia, che stavo accompagnando a scuola come ogni mattina, e che sarebbe stata investita dall’onda in modo ben più problematico. Il pensiero del rischio, della possibilità dell’evento, anche se questo per fortuna non si era verificato, stuzzicava l’istinto animalesco di protezione paterna in un modo che razionalmente riconoscevo sciocco ed esagerato, ma che non potevo d’altronde impedirmi di provare. Quel famoso mercoledì mi toccò tornare a casa a cambiarmi completamente, zuppo com’ero fin dentro i calzini, e avvisare in ufficio che per questo avrei tardato. È stato solo dopo qualche tempo che ho scoperto che quel tizio coi capelli neri e il pizzetto, proprio quello gentile e con un’aria che mi ispirava simpatia, a pelle, uno con cui immaginavo non dico di stringere amicizia, ma almeno di intrattenere un rapporto minimamente più profondo rispetto alla vacuità di tutti gli altri miei rapporti di vicinato, proprio lui era proprietario di una Honda station wagon color grigio scuro, dello stesso modello che mi aveva innaffiato quel famoso mercoledì. Lo incrociai una mattina nel parcheggio proprio mentre apriva la portiera per mettersi alla guida. Mi sorrise e disse Ciao, come sempre, e io ricambiai, prima di razionalizzare che fosse proprio quella macchina, e mentre mi allontanavo, diretto alla fermata dell’autobus, continuavo a girarmi e guardare, confermando che sì, era proprio quella macchina, non c’era alcun dubbio. Sarebbe stata del resto una coincidenza eccessiva che una macchina identica a quella fosse passata proprio su quella strada e in quell’orario, che era poi quello in cui lo vedevo sempre andare via, alla mattina. Ma guarda un po’ ‘sto stronzo, pensai, forse nemmeno si è accorto di avermi lavato in quel modo, ma comunque, cosa gli salta in testa di mettersi a correre in quel modo, non poteva non accorgersi della pozzanghera, sarebbe stato incosciente o stupido a non pensare che passando a quella velocità avrebbe provocato molto più che uno schizzo, e non poteva non sapere che passano anche bambini su quel marciapiede, anche i suoi ci passano… Nella testa mi vedevo già armato di una mazza, ma dove potevo prenderla una mazza ferrata?, piuttosto un tondino, che avrei agevolmente recuperato da uno degli svariati cantieri nel quartiere, e con quello fracassargli nottetempo uno o due fanali della Honda, oppure gli specchietti, oppure gibollare per bene il cofano, o le fiancate. Ma poi mi dicevo che sarebbe stato decisamente troppo rischioso: in un quartiere come il nostro c’è sempre qualcuno con il sonno leggero, se non proprio senza sonno, che avrebbe sentito tutto quel fracasso e mi avrebbe visto da una finestra scostando leggermente una tendina. Passavo allora all’ipotesi del classico sfregio sulla carrozzeria, con chiave o altro oggetto metallico appuntito, ma mi pareva e mi è sempre parsa una soluzione patetica e meschina, tipica di quelli che nel parcheggio del supermercato ti segnano la fiancata perché gli hai parcheggiato troppo vicino e poi si tronfiano della loro “giustizia” – ma allora il mio motivo, il mio casus belli, poteva essere più valido di quello? Non era ugualmente una cavolata? E chi ero io per ergermi come angelo vendicatore, messaggero del karma, e mandargli un messaggio per un male che, forse, non sapeva nemmeno di avere fatto? Allora, planando il pensiero su territori più consoni al vivere civile, mi figuravo la scena di fermarlo, una di quelle mattine in cui l’avrei incrociato nella via, o nel parcheggio, e spiegargli che quel famoso mercoledì di pioggia tremenda – se lo doveva ricordare per forza perché c’erano stati anche allagamenti in centro città e ne erano sorte mille polemiche – era passato troppo veloce in quella via dove non si dovrebbe andare a più di trenta chilometri orari, e prendendo in pieno una di quelle pozzanghere alte fino alla caviglia aveva sollevato un’onda che mi aveva infradiciato completamente. Mi era toccato quindi tornare a casa a cambiarmi, e poiché le timbrature in entrata si contano arrotondando alla mezz’ora successiva, anche se ero arrivato alle 8.35 era come se fossi arrivato alle 9, perdendo un’ora di lavoro che avevo poi dovuto recuperare quella sera. Ma a parte quello che era successo a me, gli avrei detto, doveva pensare che ci sono bambini che passano su quella via, e se anche non ci fosse stata pioggia, è comunque pericoloso correre in quel modo, in una strada così stretta. E lui, sinceramente dispiaciuto, mi avrebbe risposto raccontandomi una storia che conosco fin troppo bene: “Ti ricordi venti e più anni fa, una volta che con gli amici eri in vacanza al mare, in agosto, in un campeggio raggiungibile solo percorrendo una stretta strada in mezzo alla campagna. Quella mattina eravate andati per qualche motivo nel paese vicino, e vi eravate fermati là per pranzo, in una trattoria, mangiando e bevendo troppo per quella stagione e quell’orario. Per cui dopo, tornando al campeggio, guidavi adagio – viaggiavate con la tua macchina – godendoti l’aria che entrava dal finestrino, il torpore della digestione e del vino, le chiacchiere disimpegnate e surreali dei tuoi compagni di viaggio. Il caldo era implacabile, e percorrendo quella stretta strada che portava al campeggio, in mezzo a campi ingialliti alternati a macchie verdi incolte, vi capitava di fermarvi ogni tanto per aprire il portellone e far uscire grossi insetti che si erano infilati dal finestrino e schiantati sul lunotto posteriore, dove ronzavano come folli, incapaci di trovare l’uscita. Lungo quella strada, a un certo punto, vi raggiunse una Panda a gran velocità, vi si piazzò dietro, attaccata al paraurti, e iniziò a lampeggiare, a suonare il clacson, spostandosi a destra e sinistra, come negli inseguimenti dei film. La strada non consentiva certo il sorpasso, ma più che altro ti infastidiva il modo, dicevi Ma che cazzo vuole questa – vedevi dallo specchietto retrovisore che guidava una donna, gesticolando e inveendo – e ti eri incaponito a non farla passare di proposito, zigzagando, rallentando, e gesticolando di rimando. Dopo diversi minuti di questa sceneggiata, avevi approfittato di uno slargo nella strada per accostare e lasciarla passare, non senza mandarla a quel paese. Quando poi siete arrivati al campeggio, avete trovato la Panda parcheggiata di fianco a un’ambulanza. Nessuno sembrò farci particolarmente caso, poi Carlo al bar sentì dire che un uomo era morto annegato, era uno di quelle parti, avevano chiamato la moglie che era arrivata di corsa da lavoro, una scena straziante aveva detto qualcuno. Nessun altro a parte te sembrò collegare quella donna alla Panda, né tu lo dicesti ad alcuno, ma qualcosa di sottile e appuntito ti si era piantato nel cervello, ti ricordi?, e ogni tanto ritorna a pungere. Quella stessa notte ci fu una tempesta e avevi paura che il vento portasse via la tenda, poiché quel terreno era troppo sabbioso perché i pioli fossero realmente saldi, e poi a un certo punto, fuori, tra le raffiche fortissime di vento e la sabbia che pungeva sulla faccia e si infilava negli occhi, avevi sentito chiaramente delle grida. Poi ti eri ritrovato con gli amici nei bagni, a fumare e chiacchierare, e qualcuno aveva raccontato per l’ennesima volta la storia di Fiore, che per cagare nel cesso alla turca di un campeggio si era attaccato alla maniglia, grande e grosso com’è, e la maniglia si era staccata facendolo precipitare dentro”.

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