Scienza o muerte!

di Francesco Bercic

Da alcuni anni a questa parte, ma con un’evidente accelerazione nell’ultimo periodo, accanto alle pubblicazioni di carattere storico o politico che da sempre dominano le classifiche dei reparti di saggistica, stanno prendendo piede in Italia una serie di volumi che affrontano argomenti finora pressoché ignorati dal grande pubblico, riconducibili a quella che viene comunemente definita divulgazione scientifica. Una specie molto singolare di divulgazione scientifica a dire il vero, spesso romanzata e traboccante di citazioni letterarie, o ammantata di tratti poetici, talvolta persino spiritualistici. Certo, il primato dei libri promossi da politici di varia estrazione o dei grandi approfondimenti storici non sembra in discussione. Eppure si tratta, indiscutibilmente, di un fenomeno in ascesa. L’interesse nei confronti di argomenti genericamente scientifici trova testimonianza persino nei cinema: si pensi solo agli straordinari incassi riscossi da un film che narra pur sempre la storia di un fisico, come Oppenheimer di Christopher Nolan. Un interesse tanto più singolare quanto lo si confronta con un passato in cui fisica, ingegneria e matematica erano patrimonio esclusivo di pochi eletti, spesso vituperati e socialmente stigmatizzati attraverso il facile stereotipo dello “sfigato”. Com’è stato possibile?

C’entra, sicuramente, il ruolo sempre più pervasivo che esercita la Scienza – pronunciata puntualmente con enfasi declamatoria – nella società. Una presenza che è insieme tecnica – dalla medicina al mondo ingegneristico e informatico – ma anche e soprattutto culturale. Valgano come esempio per tutti le conseguenze parossistiche cui si è assistito, nel bene e talvolta nel male, durante la pandemia. Da un lato la tecnica ha mostrato plasticamente quanto siano affilate le armi a sua disposizione, dispiegando il suo potenziale con una velocità mai riscontrata in precedenza, nella produzione (e distribuzione) di vaccini. Dall’altro, si è manifestato con altrettanta se non superiore veemenza anche il potere culturale di cui gode il sapere scientifico. Non che ci si aspettasse di risolvere le morti da Covid con improbabili formule magiche o quant’altro. Ma il modo con cui una parte non esigua della società occidentale si è rapportata alla soluzione offerta dai vaccini (e ancor più alle opzioni politiche che ne sono conseguite), con uno slancio fideistico e messianico, dimostra quale valore si attribuisca alla scienza oggigiorno. Nel bene, e nel male.

Così forse si spiega il successo di alcuni pamphlet che in poche e comode facciate affrontano problemini da niente come i buchi neri o le prospettive chemioterapiche della medicina contemporanea – pamphlet spesso scritti dagli stessi personaggi che poi si dilettano a condividere i loro giudizi politici e i loro gusti filosofici o letterari sulle pagine dei giornali. Sono i profeti della modernità. E in quanto tali, beneficiano del massimo credito sociale. Dai talk show, cui partecipano con serioso compiacimento, alle copertine nelle librerie, il loro volto torna continuamente sulla scena pubblica. E come una volta il lettore colto ostentava la propria erudizione facendo sfoggio di questo o quel pensiero filosofico o letterario, oggi sembra più socialmente redditizio far mostra della propria perizia nelle recenti scoperte della fisica, delle neuroscienze o delle intelligenze artificiali.

Tutto ciò sembra essere indice quindi, pur tenendo conto dell’eccezionalità dei casi specifici, di una tendenza più generale, che si manifesta in modo particolare nel mondo accademico e universitario. Così come in esso viene sempre più enfatizzata l’importanza sacrosanta attribuita alle scienze di varia natura, alle conoscenze tecniche e specialistiche, allo stesso modo si tende a relegare ai margini ciò che ancora ne rimane fuori: il sapere umanistico. Non soltanto lo studio delle materie umanistiche, ma anche e soprattutto una disposizione mentale e un approccio didattico che possano genuinamente dirsi umanistici. Che sappiano, cioè, uscire dal perimetro ristretto dell’esattezza e della funzionalità, aprendosi, per usare le parole di Nietzsche, a quell’“arte della filigrana nel prendere e nel comprendere, quel tocco per le nuances, la capacità psicologica di vedere dietro l’angolo” (Ecce homo, I).

[…] oggi persino delle persone religiose sono così contagiate dalla mentalità scientifica che non s’arrischiano a guardare che cosa arda nell’intimo del proprio cuore, e sarebbero pronti a chiamare con termine medico follia quel fuoco interiore, sebbene poi ufficialmente dicano tutt’altro!

(R. Musil, L’uomo senza qualità)

Pare oggi inconcepibile, nelle università e di conseguenza nella mentalità degli studenti, persino nei corsi di lettere o di storia, interagire direttamente con la letteratura senza essere guardati con imbarazzo e diffidenza; analogamente, pare improponibile studiare la storia così come essa è, nel suo imprevedibile e tragico corso di uomini e di azioni. Anzi, quella stessa letteratura e quella stessa storia vengono talora esplicitamente irrise e considerate alla stregua di un’inutile perdita di tempo. Tant’è che il numero di ore loro dedicato all’interno dei programmi di studio universitari diventa di anno in anno minore, a favore delle “digital humanities”, delle linguistiche e via dicendo. O quanto meno, negli atenei si sente il bisogno di edulcorarne la portata, assicurando la loro immediata spendibilità, i loro diretti collegamenti con le scoperte scientifiche – come questi fossero un bollo da applicare per scongiurarne l’evanescenza.

Se non fosse che proprio quei tratti spiritualistici e messianici riversati sulla scienza di cui si diceva, tradiscono quale urgente necessità rappresenti ancora la domanda esistenziale nel mondo moderno. Una domanda che oggi nelle nuove generazioni (e non solo in loro) spesso non trova più i suoi tradizionali canali di espressione – la religione certamente, ma anche la filosofia e la letteratura, per non dire dell’arte – e che dunque si rivolge, con esiti ambigui, alla scienza. Sia chiaro: nessuno vuole fare a meno degli strepitosi risultati che essa è in grado di raggiungere. Ma questi non possono costituire una conoscenza esclusiva – né tanto meno fungere da pretesto per oblique ideologie – e andrebbero perciò accompagnati da un’adeguata dose di riflessione. Da un pensiero autenticamente umanistico.

[…] la fede era sempre stata legata al sapere, sia pure un sapere soltanto immaginario, sin dai primordi della sua magica fondazione. E quella parte vecchissima della scienza è marcita da tempo e ha trascinato la fede con sé nella stessa putrefazione: oggi si tratta dunque di ricostruire quel legame. E, s’intende, non col portare semplicemente la fede “all’altezza della scienza” ma piuttosto col farle spiccare il volo da quell’altezza. L’arte di elevarsi al di sopra del sapere dev’essere di nuovo coltivata.

(R. Musil, L’uomo senza qualità)

*Immagine tratta da Wikipedia (Il “Prestigiatore” di Hieronymus Bosch, Musée Municipal, Saint-Germain-en-Laye), qui il riferimento.

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