The Bear: gettare il cuore oltre l’ostacolo. Una recensione di parte

di Francesca Plesnizer

The Bear è stata una delle serie televisive rivelazione dello scorso anno. La prima stagione ha debuttato negli USA nel giugno 2022 su Hulu (ma è prodotta da FX), in Italia invece, è approdata sulla piattaforma streaming Star, compresa in Disney+, a partire da ottobre dello stesso anno. La seconda stagione è appena arrivata da noi lo scorso 16 agosto.

Il protagonista della serie è interpretato da Jeremy Allen White, che aveva già dimostrato al pubblico le sue indiscutibili doti attoriali: per undici stagioni, dal 2011, è stato uno dei problematici membri della famiglia Gallagher nella serie tv Shameless – “senza vergogna”, un nome una garanzia – ricca di abusi di alcool e droghe, tradimenti, abbandoni e quant’altro. Anche in The Bear c’è una famiglia disfunzionale, che più disfunzionale non si può.

White veste i panni di Carmen Berzatto, detto Carmy o Bear, uno chef che, dopo aver lavorato in uno dei ristoranti migliori del mondo, eredita il ristorante di famiglia, “The original Beef of Chicagoland” (la storia si svolge a Chicago), a seguito della morte di suo fratello maggiore Michael detto Mikey (interpretato da Jon Bernthal), che si è tolto la vita.

Il ristorante è un completo disastro: tutto è gestito nel peggiore dei modi, igiene e ordine lasciano a desiderare, le risorse economiche scarseggiano, tutti si urlano furiosamente contro arrivando fin troppo spesso alle mani, e nessuno comprende perché il defunto Mikey abbia lasciato il business di famiglia proprio a Carmy, la cui carriera era già avviata verso un sicuro (?) successo. Di conseguenza, nessuno capisce nemmeno perché Carmy abbia accettato di passare da un ristorante stellato ad una specie di bettola infernale.

Lo ha fatto, come si comprenderà in seguito, per amore di suo fratello, per cercare di rimettere a posto le cose – i due si erano allontanati, anche se aprire un ristorante insieme era il loro sogno fin da bambini.

In questo girone infernale – le prime puntate sono impegnative: imprecazioni continue, gente ai fornelli sull’orlo di una crisi di nervi, colpi di pistola e recriminazioni, rabbia e angoscia a non finire – si avvicendano vari personaggi. C’è Richie il “cugino” (Ebon Moss-Bachrach), che non è veramente parente di Carmy ma è come se lo fosse: un quarantenne senza bussola, fastidioso, impossibile, totalmente detestabile (ma non sarà sempre così). C’è Natalie “Sugar” (Abby Elliott), la sorella di Carmy, in lutto per un fratello e sempre preoccupata per quello che le rimane.

E poi Sydney (Ayo Edebiri), la nuova chef assunta da Carmy. Anche lei ha il suo passato travagliato fatto di beghe familiari e sogni infranti, ma è una che ci crede, in quello che fa: è tenace, testarda, sa farsi valere. È un’eccellente cuoca e, soprattutto, ha idee creative e vincenti: è grazie a lei che, tutti quanti, compreso il ristorante, si risollevano. Sydney è un perno che spinge verso il cambiamento, verso un futuro migliore, in cui in fondo nessuno ha davvero mai smesso di credere.

La seconda stagione raggiunge livelli altissimi sotto innumerevoli punti di vista: è scritta e interpretata magistralmente, scava a fondo nel magma emotivo e nei sogni dei personaggi, ci porta nel loro passato ma li porta anche a vivere un presente inaspettato, pieno di occasioni di riscatto.

Ci sono due episodi, che vale la pena citare (evitando spoiler): in uno assistiamo a un Natale passato a casa Berzatto, una mise-en-scène che potremmo definire un horror, una commedia esilarante e demenziale, ma anche un dramma dal sapore addirittura shakespeariano, a mo’ di tragedia greca rivisitata in chiave contemporanea. E, in tutto questo, le guest star si sprecano: Jamie Lee Curtis (bravissima!), Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Gillian Jacobs. Uno degli episodi seriali tra i migliori che io abbia mai visto, se non addirittura il migliore.

Nell’altro assistiamo invece al difficile, quasi impossibile, adattamento di Richie, il “cugino”, ad una vita finalmente sana e su misura per lui. Richie, come detto sopra, è detestabile e rovina quasi tutto ciò che tocca; è un completo casino e si rifiuta di accettare critiche o consigli. Eppure, Carmy gli vuole bene e gli dà l’ennesima possibilità: uno stage in un ristorante di lusso, che lo metterà a dura prova ma farà emergere il meglio di lui, il vero lui. La chicca: nell’episodio c’è anche l’attrice premio Oscar Olivia Colman – pare che le star di Hollywood sgomitino per avere un cameo in The Bear.

E poi c’è lui, Carmy. Lo lascio alla fine, last but not least. Anche il protagonista è pieno di problemi, dipendenze, traumi irrisolti, complessi e idiosincrasie. Ma nel corso delle due stagioni cerca di curarsi e migliorarsi, pur commettendo errori. Come chef, the Bear è magistrale, sublime, perfetto, tanto quanto invece, nella vita personale, tentenna e muore di paura, sia che si tratti di famiglia, che di amore o di amicizia. Ma non smette di provarci, di trovare il modo per chiedere scusa quando sbaglia e per esserci per chi ama e lo ama – anche perché porta un peso enorme sul cuore, quello di non esserci stato per suo fratello Mikey, di non aver capito quant’era profondo e insormontabile il suo dolore. Del resto, nella famiglia Berzatto, i tre fratelli Mikey, Carmy e Natalie, sono cresciuti in mezzo ad abuso di alcool, minacce, odio; sono diventati adulti senza il giusto sostegno genitoriale, senza sapere cosa sia veramente la fiducia o l’amore incondizionato che un genitore dovrebbe darti. Eppure, da adulti Carmy e Natalie sanno crearsi a modo loro dei legami reali; sanno allargare il concetto di famiglia, allungando lo sguardo per comprendere anche chi, come il cugino Richie, sembrava incorreggibile e chi, come Sydney, sembrava solo un’estranea di passaggio. E invece è proprio lei a cambiare tutto, a muovere e smuovere, lei che emblematicamente ha lo sguardo più lungo di tutti, e anche se trema di paura tanto quanto gli altri, è capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo.

The Bear, ideata da Christopher Storer, è un validissimo prodotto seriale, come non se ne vedevano da tempo. Non è una serie tranquilla, anzi: frenetica, ansiogena, veloce – del resto, uno dei temi pregnanti è la salute mentale più o meno deteriorata dei protagonisti. Ma nel corso dei 18 episodi totali sa anche rallentare, aprendo finestre su sentimenti ed emozioni difficili e impegnativi, ma anche dolosamente e gloriosamente belli. The Bear racconta la storia di un tentativo di riscatto rappresentato da un ristorante, ma racchiude in sé tanti altri riscatti personali, così come inciampi, crisi esistenziali, attimi di panico e di paralisi emotiva. È una serie ambiziosa, in tutti i sensi: guardatela se vi sentite bloccati, se vi sentite impauriti, se avete dei sogni grandi o piccoli che siano, se avete perso qualcuno o qualcosa, se avete voglia di mettervi in gioco ma non sapete da dove iniziare. Direi, anzi: guardatela e basta.

*Immagine tratta da wikipedia, qui i riferimenti

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