Intervista a cura di Andrea Muni
*Sarah Parenzo è una traduttrice, dottoressa di ricerca e operatrice della salute mentale italo-israeliana, che vive e lavora da anni in Israele. Ha tradotto in italiano il libro di Abraham B. Yehosua Il terzo tempio (Einaudi, 2023) e ha curato la revisione scientifica del libro Olocausto e Nakhba. Narrazioni tra storia e trauma (Zikkaron, 2023). Collabora con il Manifesto e le piattaforme ticinesi Naufraghi e Azione di Migros.
Cosa ha rappresentato il 7 ottobre nella percezione dell’opinione pubblica israeliana?
Il 7 ottobre ha sfatato il mito secondo cui Israele sarebbe uno degli stati più potenti del mondo dal punto di vista militare e dell’intelligence. Ancora due mesi dopo il paese sembra reggersi grazie al contributo dei civili che operano su base volontaria con iniziative a tutto campo, dai riservisti agli esperti dell’hi-tech e fino agli operatori della salute mentale. La presunzione ha reso il governo sordo ai ripetuti moniti dell’esercito e dell’intelligence. Fino al 7 ottobre il paese era letteralmente spaccato a metà, sull’orlo di una guerra civile tra coalizione di governo (Netanyahu) e opposizione (liberale). Un’opposizione “liberale” (la cosiddetta sinistra sionista) per altro ancora ben poco inclusiva non solo nei confronti dei palestinesi, ma anche delle minoranze ebraiche come quelle dei mizrachìm (gli ebrei provenienti dai paesi arabi) e degli etiopi, e che non pare essere troppo turbata dal fatto che Israele sia un’etnocrazia travestita da democrazia. Il trauma del 7 ottobre però, come spesso accade, ha ricompattato la società, sia con la chiamata alle armi sia con le più meritorie opere di volontariato. Contemporaneamente i consensi di Netanyahu sono scesi drasticamente, gli israeliani sono letteralmente furibondi. Diversamente da come accadde a Golda Meir dopo che Israele fu colto di sorpresa durante la Guerra del Kippur, oggi ormai è chiaro che Netanyahu non ha alcuna intenzione di dimettersi, né di andare a elezioni anticipate. Al momento gli israeliani sembrano ancora abbastanza uniti sulla necessità di “annientare Hamas”, benché molti la ritengano una pericolosa quanto impraticabile fantasia, che Israele rischia di pagare a caro prezzo anche sul piano internazionale. La stessa questione degli ostaggi è eticamente e umanamente spinosa. Infatti, benché molta parte della popolazione manifesti a sostegno delle famiglie, le scelte del gabinetto di guerra non sembrano tenere in gran conto le pressioni dell’opinione pubblica.
In un bel servizio durante i primi giorni dei bombardamenti su Gaza, la giornalista Flavia Cappellini, su SkyTG24, ha mostrato l’estremismo di alcuni coloni che occupano la Cisgiordania da dopo la vittoria israeliana della Guerra dei Sei giorni (1967). Ha intervistato anche un colono di quelli che occupavano la Striscia di Gaza stessa fino al 2005, il quale dichiarava con nostalgica serenità che non vede l’ora di tornare a insediarvisi.
Quello dell’espansione delle colonie è un trend che sostanzialmente non si è mai arrestato a partire dagli anni ’70, complice l’appoggio dei governi israeliani. Dopo gli Accordi di Oslo la politica delle colonie è stata anche una delle principali cause della delusione palestinese che ha condotto alla Seconda Intifada. Il deterioramento della situazione è coinciso tuttavia con l’entrata in carica dell’attuale governo lo scorso gennaio, che ha visto salire al potere esponenti delle frange più estreme del sionismo religioso. Netanyahu infatti è tornato al potere per la sesta volta grazie a una coalizione con partiti ultraortodossi e della destra nazionalista religiosa. Al suo fianco spiccano tra gli altri Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ministro della sicurezza interna, e Bezalel Smotrich, leader del partito nazionalista Sionismo Religioso, nominato ministro delle finanze. Mentre Smotrich non ha esitato ad autodefinirsi nelle interviste “omofobo, razzista e fascista”, Ben-Gvir, noto per le sue simpatie per l’estremismo sionista religioso del controverso Meir Kahane, si distingue per le sue “passeggiate” sulla Spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani, nonché per le continue provocazioni ed esplicite ostentazioni della sovranità assoluta di Israele sui territori occupati. Un atteggiamento che legittima la violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania, i quali ne approfittano per agire impuniti e indisturbati, seminando il terrore e perseguitando i palestinesi, specie ora che le forze regolari sono impegnate al Sud e al Nord del Paese. Naturalmente non si può fare di ogni erba un fascio, vi sono anche interessanti progetti di pace e cooperazione che coinvolgono ebrei e palestinesi che “convivono” nei territori; molte coppie giovani ultra-ortodosse inoltre finiscono per prendere casa nei territori occupati per motivi economici, più che per il desiderio di proseguire la colonizzazione dei territori. Quel che è certo è che il colonialismo israeliano contribuisce a rendere la soluzione dei due Stati praticamente impossibile. Un aspetto problematico poi è quello della crescente presenza degli estremisti di destra nelle unità di combattimento dell’esercito, che a propria volta sta cambiando configurazione.
Come ti pare, da italio-isrealiana, che si parli in Italia di quello che sta succedendo negli ultimi due mesi in Palestina?
La mia impressione è che l’Italia, come altri paesi, rifugga dalla complessità della situazione scegliendo sempre di prendere una parte, a fasi alterne e secondo il governo di turno. Tuttavia bisogna distinguere tra le posizioni delle istituzioni e dei media, e quelle della popolazione. L’empatia degli italiani nei confronti di Israele seguita al massacro del 7 ottobre non è durata che pochi giorni, complice il vertiginoso e successivo accrescersi del numero di vittime palestinesi. Inoltre, quella che potrebbe essere una più che legittima critica al governo israeliano scivola troppo facilmente in manifestazioni di antisemitismo. Si tratta di una questione grave, che dovrebbe indurre l’Europa e gli Stati Uniti a mettere in dubbio l’efficacia del lavoro culturale svolto finora sull’antisemitismo. Credo al contempo però che la mobilitazione pro-palestinese in Italia sia anche una manifestazione di dissenso nei confronti delle istituzioni e dell’informazione italiane dominanti.
E in Israele, invece, come procede la situazione?
Uno dei risvolti più dolorosi e preoccupanti del conflitto in corso è quello che concerne la repressione del dissenso interno operata dal governo e dalle istituzioni israeliane. A farne le spese all’inizio del conflitto sono stati soprattutto i palestinesi di cittadinanza israeliana, ai quali si sta progressivamente togliendo non solo la parola, ma in alcuni casi anche il diritto allo studio e al lavoro, mentre gli arresti sono sempre più frequenti, insieme alla minaccia di revoca della cittadinanza. Se la polizia ha promesso di deportare a Gaza chi osi manifestare anche solo empatia verso i civili della controparte, le università hanno affiancato tristemente il governo nella caccia alle streghe per depurare i ranghi da eventuali “ingrati” e “traditori della patria”. Penalizzati da questa specie di maccartismo sono ovviamente anche gli ebrei pacifisti e le poche iniziative di partnership arabo-israeliana che, rifiutando di arrendersi all’orrore, insistono nel perseguire una soluzione politica di pacifica convivenza. Da ebrea italiana, con un passato nella diaspora, penso sia inumano chiedere ai palestinesi di nascondere l’empatia verso il loro popolo massacrato, a prescindere dalle responsabilità di Hamas. Lo stesso vale per l’apparente incapacità del mondo di provare empatia nei confronti dei cittadini israeliani traumatizzati, degli ostaggi e in particolare delle donne. I crimini di genere commessi da Hamas il 7 ottobre sono stati condannati con estremo ritardo, messi in dubbio anche da alcune organizzazioni femministe della sinistra fuori da Israele: è inammissibile, nonché controproducente. Quando si sentono isolati e percepiscono l’ostilità del mondo gli ebrei rivivono il trauma delle persecuzioni, sentono di doversi difendere con ogni mezzo e questo può favorire reazioni sproporzionate.
Sulla questione stupri, per ora, se non sbaglio, l’ONU indaga, dopo aver raccolto le prove offerte da Israele, ma non si è ancora espressa per la difficoltà di reperire prove oggettive e indipendenti (ovvero che non provengano esclusivamente dalle autorità israeliane, da prigionieri torturati o testimoni sotto shock). In Israele avete forse prove incrociate di tali crimini di genere, che da noi non sono ancora arrivate? Te lo chiedo perché l’anno scorso abbiamo visto dilagare dichiarazioni shock delle autorità ucraine, che sono arrivate a sostenere che i soldati russi stupravano neonati durante l’invasione, mentre – addirittura, a Cherson – costruivano camere di tortura appositamente a misura di bambino. Accuse di crimini di guerra che l’ONU ha confermato, ma non per queste fattispecie e per un numero ben più esiguo di casi. Nessuno osa discutere l’alta probabilità che si siano verificate tali orrende violenze di genere durante il 7 ottobre, né la violenza disumana subita da civili israeliani innocenti. Mi chiedo però anche se, un po’ come dopo l’11 settembre, l’opinione pubblica israeliana non sia in questo momento (comprensibilmente) molto impressionabile, e se non rischi di scambiare un’istruttoria d’accusa per fatti accertati. Penso in particolare alla macabra bufala – orrore nell’orrore – dei presunti quaranta bambini decapitati il 7 ottobre, su cui il governo stesso ha dovuto poi, almeno parzialmente, fare marcia indietro.
Ne ho parlato diffusamente in un pezzo pubblicato il 9 dicembre sul Manifesto. I riferimenti a cui ho attinto, e che attestano simili violenze, sono le testate e piattaforme israeliane Haaretz, Maariv, Ynet, Israel Hayom, The times of Israel, Mako e Kan; a cui si aggiungono contributi e interviste apparsi su The Guardian, Pbs news hour e The Sunday Times, e i rapporti pubblicati dall’Associazione Medici per i diritti umani (Sexual and Gender Based Violence as a Weapon of War during the October 7 Hamas Attack, a cura di Roni Ben Cnaan e Hadas Ziv), pubblicati sulla piattaforma israeliana “TU/AT” e sul sito del progetto “me too unless u r a jew”.
Personalmente non metto in dubbio le violenze sessuali, mi pongo piuttosto il problema di come non abusare una seconda volta di queste donne. La mia preoccupazione è che diventino, come la Shoah, una verità storica incontrovertibile tuttavia utilizzata per coprire altri crimini. Per ora penso che si debba andare cauti, è ovvio che il mondo sia inorridito da quello che accade a Gaza e non veda quel che vediamo noi dall’interno. Gli israeliani sono traumatizzati, stanno molto male, anche se il mondo non lo immagina o non lo comprende.
Qual è il futuro di Hamas? È davvero possibile cancellarla come dice di voler fare il governo isreaeliano?
Fino al 7 ottobre le stime affermavano che Hamas godeva circa del 30% dei consensi degli elettori palestinesi. Se il 7 ottobre ha offerto al mondo un’immagine di Hamas simile a quella dell’Isis, non possiamo dimenticare che questo movimento è anche il principale attore politico della Striscia. Il governo Netanyahu in passato ha finanziato Hamas con l’intento di indebolire l’Autorità palestinese e creare divisioni che rendessero impossibile la nascita di uno stato. Purtroppo lo sterminio a Gaza e le tensioni nei territori occupati non fanno che moltiplicare i consensi di Hamas anche in Cisgiordania. Come ha affermato più volte l’Iran, solo per questo motivo, in un certo senso, Hamas ha già vinto la partita. C’è da augurarsi che le pressioni degli Stati Uniti e dei mediatori del mondo arabo prevalgano, ma il futuro è alquanto nebuloso.
In effetti Hamas non pare affatto in calo di consensi tra i palestinesi, né a Gaza né in Cisgiordania. Il Times of Israel, per esempio, ha pubblicato recentemente un sondaggio che vede Hamas in esponenziale crescita di popolarità, e Fatah (OLP) in crisi irreversibile di consensi, specie in Cisgiordania. Non credi che la popolarità di Hamas sia dovuta al fatto che Israele – non solo da quando c’è Netanyahu, ma almeno dal sospetto assassinio di Rabin nel 1995, da parte di un estremista israeliano della destra sionista – si rifiuta di fatto categoricamente di mettere in pratica gli accordi di Oslo (del 1993)?
Su questi argomenti consiglio la lettura dei lavori di Paola Caridi. Come è noto dal 2005 al 2007 Hamas ha goduto di una certa popolarità, che se oggi da un lato vacilla, dall’altro è anche paradossalmente in potenziale aumento. Credo sia inevitabile che l’Autorità (l’OLP) dovrà tentare di includere Hamas in un futuro governo.
Si è discusso molto sull’uso, proprio o improprio, dell’espressione genocidio (che personalmente non trovo fuori luogo) per quella che è stata – e non cessa di essere – la rappresaglia israeliana dopo i fatti del 7 ottobre. Quasi ventimila morti civili in poco più di due mesi, il doppio di quelli causati – secondo l’ONU – in quasi due anni di conflitto russo-ucraino. Cosa pensi dell’uso del termine genocidio per quello che sta accadendo a Gaza?
Come ho detto la comunicazione è uno dei risvolti problematici di questo conflitto, soprattutto per l’abuso di termini presi in prestito dalla Shoah, compreso quello di genocidio. Il volume Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma (curato dal teorico politico palestinese Bashir Bashir e dallo storico israeliano della Shoah Amos Goldberg, e di cui ho curato la traduzione italiana), offre uno sguardo inestricabile sui diversi passati e propone piuttosto una coraggiosa cornice concettuale, politica e storica, attraverso cui leggere in parallelo gli eventi traumatici che hanno tormentato questi due popoli, mettendoli in correlazione tra loro ma senza tuttavia paragonarli.
L’estrema destra israeliana, come precedentemente il movimento paramilitare sionista-revisionista Irgun (da cui proviene ideologicamente lo stesso Likud), non ha mai fatto mistero di sognare una Palestina de-arabizzata e uno Stato d’Israele che vada definitivamente “dal Giordano al mare”. In questi giorni è stato Netanyahu in persona, leader del Likud, a ribadire il concetto in faccia a un Biden sempre più in imbarazzo, durante la sua ultima visita negli USA.
L’estrema destra israeliana, che non per forza coincide il Likud, non ha mai nascosto le proprie fantasie di transfert e di pulizia etnica, nell’infantile e criminale speranza di liberarsi definitivamente della questione palestinese. La sponda offerta da Hamas il 7 ottobre potrebbe tradursi in un’occasione per realizzare parte di questo piano. In realtà queste fantasie non fanno che mettere maggiormente in pericolo la popolazione israeliana rimandando l’unica modalità possibile di convivenza, quella che deve passare per la pace, la democrazia, l’attribuzione di pari diritti e naturalmente la fine dell’occupazione. Senza queste condizioni anche gli israeliani saranno sempre precari. L’Occidente tuttavia deve farsi garante della soluzione di questo conflitto, invece di fomentare l’islamofobia e promuovere ipocritamente Israele a difensore del mondo dall’ennesimo terrorismo di matrice islamica.
La storia è piena di esempi passati di rapporti positivi tra ebrei e arabi, pensiamo all’epoca d’oro della cultura ebraica in Spagna. Il ricercatore israeliano Avi-ram Tzoreff per esempio ha pubblicato degli studi molto interessanti sulla pacifica convivenza tra le comunità araba ed ebraica in Palestina sotto l’Impero Ottomano. La dichiarazione Balfour e gli avvenimenti successivi alla fondazione dello Stato d’Israele hanno poi complicato la situazione. Oggi è fondamentale dare spazio a una soluzione politica, cominciando dalle iniziative congiunte dei rispettivi intellettuali. Io mi occupo molto degli aspetti linguistici e penso sia importante far leva sulla comunanza semitica dell’arabo e dell’ebraico. Un’altra sfida importante per il futuro è anche quella di ripensare il rapporto tra ebraismo e sionismo. A questo proposito interessanti voci critiche stanno emergendo negli Stati Uniti e in Israele anche all’interno dell’ebraismo ortodosso. Quella ebraica è una cultura molto ricca, che attraverso nuove chiavi di lettura potrebbe trovare strumenti propri per uscire da questa dolorosa situazione, senza per forza abbeverarsi a concetti di matrice euro-cristiana, qual è ad esempio la divisione rigida tra ambito laico e religioso.
Scusa, ma in conclusione non posso esimermi da questa domanda. Come è possibile che a Re’im, a due chilometri dalla Striscia, si stesse svolgendo un rave? Mi pare veramente che qui ci sia qualcosa di difficile da capire per noi in Europa, una specie di ostacolo logico, un nodo di non-senso. È normale per gli israeliani, per altro “di sinistra”, fare un rave a due chilometri dal confine e dal covo di efferati terroristi, stupratori assetati di sangue e indegni dell’appellativo di essere umano (come sono stati definiti tutti militanti di Hamas – anche quelli non appartenenti al suo braccio armato – in questi mesi)? Ci sono delle grosse contraddizioni in tutto questo, puoi aiutarci a capire?
I pericoli sono stati sottovalutati dal governo benché vi fossero abbondanti segni premonitori. In linea generale la società israeliana ha vissuto in una sorta di illusione, negando i rischi letali della propria prolungata occupazione dei Territori palestinesi. Sembra impossibile, ma molti israeliani non hanno idea delle condizioni dei palestinesi in Cisgiordania. Che vi fosse una sorta di bomba a orologeria pronta a scoppiare era ovvio solo a una minoranza. Ciò non toglie che la popolazione sia in ginocchio, e che anche nella migliore delle ipotesi (ovvero che il conflitto abbia fine a breve e si proceda verso una soluzione politica che non sia la rioccupazione di Gaza), gli israeliani dovranno comunque affrontare una battaglia interna per attribuire le responsabilità dell’accaduto a chi di dovere e optare per un nuovo governo. Ma quale delle due fazioni ebraiche avrà la meglio non è ancora dato sapere, il futuro è ancora molto incerto.
Grazie per questo approfondimento, aggiunge qualche tassello al mosaico della mia comprensione. Ugualmente, questo passaggio: “Sembra impossibile, ma molti israeliani non hanno idea delle condizioni dei palestinesi in Cisgiordania” mi ha fatto ribollire il sangue. Per me, in un contesto in cui si hanno a disposizione gli strumenti per conoscere e informarsi, questa è più di una responsabilità, è complicità. Sarebbe come ignorare, da persona con cittadinanza italiana, che lo stato in cui vivo sborsa milioni alle autorità libiche per segregare, respingere, brutalizzare i migranti che provano a recarsi in Europa. I cittadini israeliani sognavano? Dovrebbero davvero svegliarsi, e in fretta.
Grazie a te Marta, per il tuo commento e le tue considerazioni. Si credo anch’io che ci sia un nodo proprio a livello della consapevolezza che il popolo israeliano ha di ciò che sta facendo al popolo palestinese. Qualcosa che, dopo la conversazione con Sarah, sarei tentato di considerare dell’ordine del “diniego” e del “rimosso”, intesi proprio in senso psicoanalitico. Un rimosso che, come è già stato il 7 ottobre e come purtroppo accadrà ancora, è pronto da un momento all’altro a riesplodere, invertito, nel reale. Un articolo che ho pubblicato da poco su CS (per la rubrica su educazione e violenza) inizia con frammento della prefazione di Sartre ai “Dannati della terra” di Fanon, che mi pare perfetto per inquadrare anche questa tragica situazione.
“L’aggressione coloniale s’interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la “loro” violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell’inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l’ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l’inconscio collettivo dei colonizzati”