di Andrea Muni
Nella guerra fredda, stringe il fucile. Dalla trincea, spia un nuovo giorno stanco, più stanco di lui. Un’alba di macerie, una montagna di cadaveri. Di morti ne ha visti anche troppi Lev, ieri. Assalto all’arma bianca tra i condomini, per finire di liberare il quartiere est. Guardare in faccia le persone che uccidi è sempre terribile, e inebriante. Oggi vorrebbe solo svegliarsi altrove, non svegliarsi, forse. Vorrebbe solo non essere qui.
Nella guerra fredda, Lev ha caldo. Gli pesa l’elmetto, tre strati di kevlar a proteggere quelle quattro ossa in croce, a proteggere niente. Tre strati di kevlar a proteggere tutto quello che deve ai suoi genitori, a sua moglie, ai suoi figli, ai suoi amici. Tre strati di kevlar stesi sulla fragilità di una vita, di un corpo, messi lì a uccidere, a morire; un corpo, una vita, che – per chi ce li ha sbattuti – valgono meno di niente. Anche oggi Lev ci prova, a non morire. Sente il dovere, molto più forte dell’istinto di sopravvivenza, di riportare il suo corpo, la sua forza lavoro, le sue braccia a casa – non per se stesso, per quelli a cui lo deve, quelli che ama, che lo amano, che hanno bisogno di lui.
Nella guerra fredda, si disfa la neve, si fa fango, si sciolgono le lastre di cristallo, trapelano timidi i fiori della steppa, peonie e fiordalisi che non vorrebbero nascere. Sono venuti a prenderlo sotto casa, a marzo, dopo avergli mandato la lettera. Lui aveva cambiato residenza tre volte ma qualche patriota, fiore malizioso, ha offerto un’ampia rosa di indirizzi a cui trovarlo.
Nella guerra fredda, gli occhi al cielo grigio-ragno, una sigaretta, due parole a un compagno che presto, come lui, sarà fango; due parole a stornare per qualche secondo la paura di morire, l’incombente orrore di uccidere. Assassino Lev, suo malgrado. L’ufficiale è lì, come nella Prima guerra mondiale: andarsene non si può, batter fiacca non si può. Uccidere, si deve. Un cane passa per le vie spettrali, accartocciate, della città in avanzato stato di decomposizione, si aggira tra i morti, disperato pure lui, trova rifugio (e un osso) nella trincea.
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Nella guerra fredda giovani di latitudini poco lontane sono educati a infliggere e subire violenza cieca. Lena non ha lasciato la madre, malata. Il loro villaggio, Sacco e Vanzetti, è già passato di mano quattro volte nel corso della guerra. Tutti fanno le stesse cose: se serve, le case diventano scudi e nascondigli per chi difende. Per chi attacca, non sono che tessere di un domino da sventrare. Tolgono e mettono bandiere da quasi tre anni come se a lei, a sua madre e ai pochi rimasti in paese fregasse qualcosa.
Nella guerra fredda, oggi come ieri, il piffero magico dei potenti esala la sua melodia assurda, malata; attrae lo stupefatto codazzo di topi (o erano bambini?) verso il fondo nero del precipizio. Igor è un volontario: la moglie è morta, il lavoro non c’è, i nonni sono ancora in forze e possono badare ai bambini. La paga è decente, rispetto al resto. Non ha i cinquemila dollari che servono per disertare e fuggire all’estero, non ha conoscenze nella malavita né ai piani alti. Se si muore c’è un indennizzo per la famiglia, sempre che il corpo sia riconoscibile.
Nella guerra fredda, arriva primavera ma è come se non fosse, tutto è come se non fosse. Tutto, tra poco, non sarà. Occhi giovani, occhi poveri, occhi sacrificati per niente sugli altari sanguinanti dei padroni e dei loro imperi. Immolati a divinità meschine, impalpabili, che non assaporano nemmeno più l’odore pungente e il gusto tiepido del sangue.
Nella guerra fredda, Lev stringe il fucile, ha ventinove anni, mette su Telegram qualche video, si fa coraggio. Ancora due chiacchiere, due parole con un compagno, prima della carica, della fine. È mezzogiorno, arriva l’ordine. Assaltare, ora!
Nella guerra fredda, Artyom e Oleg hanno diciannove e vent’anni. Il loro squadrone è di turnazione, per due settimane sentiranno il brontolio delle bombe solo da lontano, cercheranno di vivere il più possibile in questo paesino delle immediate retrovie, potranno respirare. Cercheranno di bere e scopare il più possibile, forse – grazie a un permesso – avranno un giorno per andare a trovare i genitori, come Aliosha in Ballata di un soldato. Tra quattordici giorni dovranno ridiventare mostri, a comando: uccidere prima di essere uccisi.
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Non ogni soldato è un mostro, non ogni soldato è un topo, non ogni soldato è un bambino. I soldati fanno la guerra, ma non la vogliono. Scappate Oleg e Artyom! Disertate! Ora è notte, nessuno vi vedrà, presto, è il momento!
Il Pifferaio di Hamelin la prima volta è stato buono, ha salvato tutti dalla malattia, ha scacciato i topi, ma l’ingratitudine della città lo ha trasformato in diavolo: si è portato via centotrenta bambini, li ha condotti fuori dalle mura, incantati, attraverso la porta est. Nessuno li ha mai più rivisti…
Nella guerra fredda, si annuncia il tempo nuovo, vecchio, che non vuoi vedere, che è già qui. Il tempo di Lev, di Oleg e Artyom, di Lena è a un battito di ciglia da quello dei nostri figli, a un respiro da quello dei nostri amici: è il nostro. Se non rompiamo subito il piffero, se non troviamo un modo per svegliarci dal suo ipnotico, nauseante incantesimo di morte, il Pifferaio tornerà, col cappello da diavolo, e questa volta con le sue armonie maledette invece dei topi trascinerà via i bambini.
Una melodia oscena, i tamburi della guerra si avvicinano e noi, come topi, come bambini, li seguiamo. In silenzio, senza parlarci, senza parlare. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, la melodia è più suadente, sottile, diventa l’aria che respiriamo insieme ai nostri figli, l’alito dei nostri nostri amici, il profumo delle nostre case.
Nella guerra fredda, aggrappati a un fucile o rinchiusi in uno scantinato, tra le macerie delle nostre vite precedenti, ci accorgeremo – troppo tardi – che le nostre, come quelle di Lev, di Lena, di Oleg e di Artyom, per i Pifferai di questo mondo, avevano tutte lo stesso valore. Niente.
*Immagine di James Elder Christie (1847-1914) – The Pied Piper of Hamelin, National Galleries of Scotland, tratta da wikipedia, crediti qui