Alla caccia di Ebola

di Giulia Massolino

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Un viaggio alla ricerca di una risposta. Potrebbe essere la trama di innumerevoli romanzi, ma la particolarità è che Area di Contagio, scritto nel 1994 da Richard Preston, non è un racconto di fiction, ma realtà. Siamo negli anni in cui l’AIDS comincia a imperversare, e nessuno ha ancora sentito parlare di Ebola. Con dovizia di particolari, a tratti morbosa, Preston fa compiere al lettore una moderna odissea quasi profetica, tra foreste e laboratori, a caccia dei virus più letali, con tappe decisamente inaspettate.

Si parte dall’Africa: l’inquadratura è su Mount Elgon, vulcano che supera i 4000 metri sul confine tra Uganda e Kenya. L’autore si sofferma a lungo sulla descrizione di un personaggio la cui esistenza sarebbe stata insignificante, se non fosse diventato il paziente zero di un’epidemia di “Marburg”, un filovirus definito il “gemello gentile” di Ebola, che uccide le sue vittime (umani e primati) facendole “implodere”. Si giunge così a una delle tappe più impreviste del viaggio, la Germania: il virus fu scoperto qui, nell’Università di Marburgo, città in cui nel 1967 un’epidemia partita da un laboratorio di analisi coinvolse 31 persone e provocò 7 vittime.

Ma è solo l’inizio dell’odissea: si sbarca oltreoceano, a Reston, in Virginia. È il 1989 e l’esercito americano si trova ad affrontare Ebola in seno agli Stati Uniti. Dalle Filippine era arrivato un carico di scimmie da laboratorio infette. Dopo una lunga serie di inquietanti avventure dietro le quinte delle procedure e dei segreti militari riguardanti i rischi biologici, si scoprirà che quella varietà di Ebola, da allora nominata “Reston”, non è mortale per gli umani. Nell’ultima parte del libro, l’autore ci lascia con la frustrazione dei ricercatori che non trovano l’origine del virus, nonostante le faticose e dispendiose spedizioni nella Kitum Cave, grotta cuore della biodiversità africana identificata come sua probabile culla. Il focolaio di Ebola del 2014 forse non è che la continuazione del viaggio intrapreso da Preston, che nel suo libro analizza tutti i fattori che hanno portato ai drammatici eventi dello scorso anno: l’incremento della densità abitativa, l’aumento della mobilità e delle interazioni umane, l’aggressione a un ecosistema che trova il modo per ribellarsi.

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L’autore ci fa cambiare totalmente prospettiva sui virus, obbligandoci a prendere consapevolezza delle nostre responsabilità. Le foreste tropicali sono i più ricchi serbatoi di biodiversità del nostro pianeta, e al tempo stesso i maggiori serbatoi di virus, che esistono probabilmente da quattro miliardi di anni e rappresentano il sistema immunitario della biosfera tropicale. Il loro risveglio si può interpretare come una risposta al disastro ecologico perpetrato dall’uomo a danno del pianeta, uno dei metodi che la natura adotta per ripristinare un equilibrio. La conclusione del volume è un’inquietante premonizione: “La specie umana assomiglia sempre di più a una pestilenza, e l’AIDS è la vendetta della foresta pluviale, anzi, ne è solo il primo atto. Ebola era comparso in quelle stanze, aveva sventolato i suoi stendardi, si era cibato e quindi si era nuovamente ritirato nella foresta. Tornerà”.

Questo libro avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme: l’epidemia del 2014 si sarebbe potuta prevedere e contenere. In vent’anni, invece, l’uomo non ha invertito la rotta e l’ecosistema è tornato al contrattacco, prendendoci alla sprovvista. Ebola è uscito di nuovo dal suo nascondiglio nel cuore delle foreste africane e siamo diventati tristemente familiari con la varietà “Zaire”, altamente letale ma non molto contagioso, a differenza di Ebola Reston.  Quest’ultima variante si è rivelata innocua per la specie umana, ma possiede la preoccupante capacità di trasmettersi nell’aria e non solo attraverso il contatto con il sangue. Le due varietà sono così simili da non essere facilmente distinte: e se bastassero piccole mutazioni genetiche perché una delle due acquisti le proprietà dell’altra? Un virus letale quanto Ebola Zaire e contagioso come Ebola Reston, sebbene sia altamente improbabile, potrebbe avere conseguenze devastanti.

I recenti focolai della malattia hanno risvegliato in noi la paura che questo virus possa superare i confini fisici e geografici, mettendo a rischio l’umanità intera. Il pericolo, almeno per ora, sembra scongiurato. Ma, assieme a una riflessione sulle nostre responsabilità, Preston ci ricorda come non sia il caso di abbassare la guardia: “Un virus ‘caldo’ proveniente dalla foresta pluviale vive a circa ventiquattr’ore di aereo da quasi tutte le città del mondo […]. Una volta che penetra nella rete, può bastargli una giornata per raggiungere qualunque metropoli”.

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